«Piccola città, bastardo posto» è l’epiteto che Francesco Guccini dedica a Modena, teatro della sua adolescenza e di scene che riporta alla memoria sempre rivestite di una malinconia amara. Chiunque abbia avuto l’occasione di sentir parlare il cantautore avrà notato il disprezzo con cui è solito rievocare l’atmosfera della fiera di San Geminiano, patrono della suddetta città, il freddo e quella convivialità fatta di tombole e calzoni corti a cui lui stesso non riusciva ad adattarsi. Il fatto che la canzone Piccola città sia stata scritta nel lieto periodo “bolognese” di Guccini dà alle sue parole un impatto ancor più tagliente, rendendo questo brano un’apostrofe dell’autore a un passato che rinnega.
Piango e non rimpiango la tua polvere, il tuo fango,
le tue vite, le tue pietre, l'oro e il marmo, le catapecchie;
[...]
Se penso a un giorno o a un momento ritrovo soltanto malinconia;
è tutto un incubo scuro, un periodo di buio gettato via.
Era il periodo del secondo dopoguerra, un momento colmo di aspettative per il giovane Francesco, non a caso viene spesso ricordata l’affermazione da lui rilasciata «dopo la guerra c’era una voglia di ballare che faceva luce». Ma siamo sicuri che questa voglia potesse facilmente essere soddisfatta? Certo, il pezzo nomina i «giochi consumati dentro al Florida», luogo in cui i modenesi dell’epoca si recavano per ballare; il ballo c’è, ma c’è anche tanta privazione, tanta vacuità. Leggendo il testo ci sembra di immaginarlo il giovane Guccini immerso nella nebbia modenese a fantasticare sul corpo di qualche ragazza o sulle pagine degli autori americani che stimava per poi incorrere nel nulla di quella realtà circoscritta e moralista.
L’accuratezza con cui vengono descritte alcune immagini stimola i nostri sensi accecandoci con le «vetrate viola» e stordendoci con il «mesto odore di religione». Proprio la religione merita l’invettiva dell’autore.
Vecchie suore nere con che fede avete dato a noi il senso di peccato e di espiazione
Modena per Guccini non è dunque soltanto una città grigia e provinciale se paragonata alla sua beneamata Bologna, un vestito vecchio e maleodorante del quale è contento di essersi liberato. Modena rappresenta anche e soprattutto la chiusura, la castità, il grido soffocato di una giovinezza a cui sono state tarpate le ali.
Sciocca adolescenza, falsa e stupida innocenza, continenza,
vuoto mito americano di terza mano;
pubertà infelice, spesso urlata a mezza voce, a toni acuti,
casti affetti denigrati, cercati invano
A quarant’anni di distanza da queste parole, a un’altra località, questa volta in Toscana, è stata attribuita l’etichetta di «paesino di grandi repressi, pochi e squallidi amplessi, la mediocrità». Anche in questo casole “piccole città” vengono associate all’insoddisfazione sul piano sessuale.
Si tratta del testo di La festa della liberazione, frutto della penna di Andrea Appino, liberamente ispirato a Desolation Row di Bob Dylan, traducibile come “il vicolo della desolazione” e precedentemente utilizzato da De André per la stesura di Via della povertà. Il titolo del brano rimanda inevitabilmente ai festeggiamenti del 25 aprile, ma ciò che capiamo interfacciandoci con il testo è che la liberazione di Appino è un fatto individuale. È la liberazione «da quelli di famiglia», «da quelli ubriachi di belle parole», «dalla voglia di cascare sempre in piedi», «dalla tua scuola, dall’università», «dal questo talento di perdonarmi tutto». Nel corso di un unico pezzo Appino dissacra se stesso e tutto ciò che lo circonda, in particolar modo quella realtà provinciale che descrive con toni aspramente realistici e spesso triviali barcamenandosi in una narrazione degna del più eccelso cantautorato.
Si tratta di una realtà i cui protagonisti sono «bambini pimpanti e codardi che hanno già perso la verginità», «maschi del paese» che «si picchiano per toccarsi un po’» e sorelle che raggiungono la fama grazie a piercing all’ombelico e si disperano in bagno per futili amori. È un panorama che Appino saluta con l’assunto «quanto è brutta tutta questa campagna, la gente si lagna e nemmeno un falò», ponendo l’ascoltatore davanti a una distesa di desolazione.
Anche in questo caso, la religione trova spazio nell’enumerazione delle critiche, fornendoci una personale interpretazione dell’autore del concetto di fede.
La festa della liberazione
Da tutti gli atei compreso il sottoscritto
Io prego molto, ma molto di più
Di chi si inginocchia e prega il soffitto
E passo ore, giorni, mesi a pensare
Le stelle non guardarle mai
Ho paura di vederlo spuntare, sorride e dice: "Appino, che cazzo fai?"
Questi due brani si configurano come testimonianze di sopravvissuti, come affermazioni del sé “nonostante”. Nonostante il perbenismo e i consigli dispensati dall’esterno, nonostante l’adolescenza vissuta a metà, nonostante i difetti di famiglia e quelli del paese, quei difetti che, nostro malgrado, entrano a far parte di noi condizionandoci e rendendoci ciò che siamo. Quelli raccontanti non sono solo i luoghi del passato, sono luoghi interiori in cui è raggruppato tutto ciò che si odia del proprio essere, tutto ciò che è stato compromesso dalle regole giunte dall’alto. Tentare di liberarsene equivale a voler liberarsi da sé stessi e se tale tentativo risulta fallimentare, l’autore non può fare altro che approfittare delle parole e incidere il proprio canto di diniego, destinato a diventare manifesto di tutti coloro che hanno sperimentato almeno una volta questo tipo di oppressione.
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