3 maggio 2021

C’è una forza più forte della morte e dell'Inferno

Paolo e Francesca

Osservazioni sul Canto quinto dell’Inferno. Attraverso l’infelice ed eterna storia d’amore tra Paolo e Francesca, Dante Alighieri descrive l’amore: una potenza divina capace di sopravvivere alla morte e al degrado del regno infernale

Il Canto quinto dell’Inferno è senza ombra di dubbio uno dei momenti più alti dell’intera Commedia. Sarà forse per la straziante storia d’amore tra Paolo e Francesca, così simile alle tante altre storie d’amore non a lieto fine che imbratteranno pagine e pagine di letteratura, o per la precisa descrizione che Dante Alighieri fa di quella che è la propria concezione dell’amore, descrizione che ancora è capace di fare sognare noi lettori, sebbene tanto lontani dai tempi del Dolce stil novo. In poche parole questo canto è ancora oggi tanto affascinante, tanto studiato e, in alcuni casi, anche tanto maltrattato. Quindi il lettore sarà indulgente se mi accodo anche io, con umile voce, ai tanti “sciocchi” che sentono il bisogno di dire la loro su questo canto.

Nella lettura colpisce l’attenzione un particolare, che tanto piccolo non è: la maniera in cui il Dante-autore descrive e fa parlare questa coppia che si ritrova a dover passare l’eternità sbattuta di qua e di là da una violenta bufera.

Sì tosto come il vento a noi li piega,
  mossi la voce: «O anime affannate,
  venite a noi parlar, s’altri nol niega!»
Quali colombe dal disìo chiamate
  con l’ali alzate e ferme al dolce nido
  vegnon per l’aere, dal voler portare

Come appaiono Paolo e Francesca agli occhi del Dante-pellegrino? Essi appaiono simili a delle colombe.

La colomba è un animale interessato da una fitta trama simbolica che affonda le proprie radici nella tradizione cristiana: è simbolo di speranza e di salvezza, il patriarca Noè alla fine del diluvio mandò una colomba in ricognizione, per assicurarsi che il giudizio di Dio sull’umanità intera si fosse compiuto e la Sua ira placata; ma è immagine anche dello Spirito Santo, così apparve quando Gesù uscì dalle acque del fiume, dopo essere stato battezzato da Giovanni Battista. 

Paolo e Francesca Dorè

Ora nell’Inferno, il regno del castigo, della dannazione, del peccato punito, si muovono due anime dannate che richiamano alla memoria di Dante due colombe, animali puri perché di colore bianco, gentili, la cui immagine rimanda addirittura alla Trinità. Un caso più unico che raro. Come vengono descritte le altre anime che incontrerà durante il cammino?

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
  erano ignudi, stimolati molto
  da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
  che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
  da fastidiosi vermi era ricolto.

Nell’Antinferno Dante e Virgilio incontrano la turba degli ignavi: una visione turpe e violenta perché sono punti da mosche e vespe che provocano loro ferite sanguinanti. Una scena raccapricciante che non ricorda certo la levità della colomba.

Gli occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
  e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
  graffia gli spirti, gli scuoia e disquatra.

Ancora un’altra vivida e truculenta descrizione dei dannati che lascia inorriditi: nel girone dei golosi gli spiriti, immersi nella fanghiglia, sono dilaniati dalle zanne del demone Cerbero. Il loro sembiante mostra la violenza inflitta loro dal grosso cane a tre teste. Non ricordano certo la gentilezza del sembiante di Paolo e Francesca, incontrati poco prima. In loro sono impressi i segni della loro colpa e del loro castigo.

  E poi che forse gli fallia la lena,
  di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
  di nere cagne, bramose e correnti
  come veltri ch’uscisser di catena.
In quel che s’appiattò miser li denti,
  e quel dilaceraro brano a brano;
  poi sen portar quelle membra dolenti.

Una violenza che noi moderni potremmo definire splatter, che indulge in descrizioni non certo piacevoli. Anche nella selva dei suicidi alle anime dei dannati vengono inflitte severe punizioni che degradano le loro fattezze. Certamente anche qui non si può parlare della gentilezza della colomba.

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
  vidi un col capo sì di merda lordo,
  che non parea s’era laico o cherco.

Parole aspre quelle di Dante. Alessio Interminei da Lucca è stato in vita un ruffiano ed ora è condannato a essere immerso nello sterco: anche qui l’anima è corrosa e degradata.

Già eran li due capi un divenuti,
  quando n’apparver due figure miste
  in una faccia, ov’eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
  le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
  divenner membra che non fur mai viste.

L’uso sapiente della parola ha reso Dante, a ragione, uno dei più grandi poeti della letteratura italiana; la Commedia è anche espressione delle potenzialità del volgare: materia plastica capace di adattarsi alla perfezione ad ogni tono e situazione. Sembra di stare in una sala cinematografica perché la descrizione fatta è talmente minuziosa che prende vita davanti ai nostri occhi. I ladri, nella settima bolgia dell’ottavo cerchio, vengono morsi da serpenti e trasformati in questi ultimi: Dante gioca con i corpi, sebbene i dannati siano ancora spirito, li deforma, li rende grotteschi, li degrada perché l’Inferno è il regno del degrado. Non con Paolo e Francesca, i loro sembiante rimane gentile come se Satana non avesse alcun potere su di loro.

Una gentilezza del sembiante a cui risponde una gentilezza nel parlare di Francesca.           

«O animal grazioso e benigno,
  che visitando vai per l’aere perso
  noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re dell’universo,
  noi pregheremmo lui della tua pace,
  poi ch’hai pietà del nostro mal perverso. 

Poco più avanti, in quelli che sono i versi più celebri di tutta la letteratura italiana, Francesca parla di amore e di gentilezza. Una narrazione che lascia basiti: in vita loro manifestarono gentilezza e, per questo, provarono amore. Solo un animo gentile può innamorarsi e solo chi si innamora può essere ancora più gentile, sublimandosi («Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende»). Una gentilezza provata in vita e che non li abbandona ora che sono morti. Sono dannati eppure quella che fu la loro vita e il loro modo di porsi sembrano stridere con quello che accade attorno a loro.              

  gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi ’l suo fabbro, da cui
  crucciato prese la folgore aguta
  onde l’ultimo dì percosso fui;
o s’egli stanchi gli altri a muta a muta
  in Mongibello alla fucina negra,
  chiamando ‘Buon Vulcano, aiuta, aiuta!’,
sì com’el fece alla pugna di Flegra,
  e me saetti con tutta sua forza;
  non ne potrebbe aver vendetta allegra.»

Qui è Capaneo che parla, in seguito verrà redarguito da Virgilio. Colpiscono le sue parole, nemmeno la punizione divina gli ha fatto perdere quella stessa alterigia che ha causato la sua morte improvvisa presso le mura di Tebe. Come è distante dalla sensibilità di Paolo e Francesca, le sue parole risuonano arroganti alle orecchie di Dante e della sua guida.       

Al fine delle sue parole il ladro
  le mani alzò con amendue le fiche,
  gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»

Qui invece è il ladro Vanni Fucci ad indirizzare verso Dio un gesto sconcio, simile ad una bestemmia, accompagnato da un parlare altero. Lo stesso, poco prima, per vendicarsi, informa Dante del suo futuro esilio. Così diverso, quindi, dal modo in cui Francesca si è rivolta al poeta.         

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
  rispuose quel ch’avea infiata l’epa;
  «e sieti reo che tutto il mondo sallo!».
«E te sia rea la sete onde ti criepa»,
  disse il greco, «la lingua, e l’acqua marcia
  che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!»

In ultimo possiamo ricordare la rissa, fisica e verbale, tra Sinone e Mastro Adamo: l’odio non è solo rivolto verso Dio ma anche verso gli altri dannati.

Un odio e un livore che non hanno intaccato minimamente Paolo e Francesca, i quali sembrano aver accettato la loro sorte non senza però provare un atroce senso di colpa, misto a tristezza. Perché questi due amanti non sono come gli altri dannati? Sono così differenti, come se il degrado, sia fisico che morale, dell’Inferno non li avesse affatto sfiorati. La risposta è semplice: essi amano. Dante ci presenta, in questo canto, una forza che è ben più forte della morte e dell’Inferno: l’amore.

Questo sentimento sopravvive alla morte («Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/ mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona.»), non è stato affatto modificato, e sopravvive al clima corrosivo dell’Inferno. La gentilezza, che solo chi ama possiede, e l’amore, che solo un animo gentile può provare, non sono stati affatto danneggiati. L’amore è ben più potente di Satana stesso perché questa forza è divina, è Dio stesso («l’amor che move il sole e l’altre stelle»).        

I’ cominciai: «Poeta, volentieri
  parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
  e paion sì al vento esser leggieri.»

E Dante sviene perché partecipa al dolore degli amanti sventurati, con nessun altro dannato vi sarà una compassione così intensa, un’inquietudine così manifesta. Dante prova pietà per i due amanti sventurati: due anime innamorate e gentili, diverse dagli altri dannati che in vita arrivarono a compiere anche i più atroci crimini. Secondo alcuni critici romantici è come se il poeta li volesse riabilitare nonostante il peccato di adulterio che hanno commesso. Un’indulgenza che farebbe riflettere. Inoltre l’assassino, Ganciotto Malatesta, è relegato nel punto più basso dell’inferno: la Caina. Una sottile vendetta di Dante a favore dei due amanti? Sarà valida la critica romantica? Altri, invece, notano nell’inquietudine di Dante il pericolo e la necessità di protendersi verso un amore nutrito di virtù cristiane. Ai lettori lasciamo il giudizio.         

Quando giungon davanti alla ruina,
  quivi le strida, il compianto, il lamento;
  bestemmian quivi la virtù divina.

I dannati bestemmiano Dio, mentre Francesca afferma, pochi versi più avanti: «se fosse amico il re dell’universo / noi pregheremmo lui della tua pace». 

Paolo e Francesca Blake

In conclusione questo canto è tra i più affascinanti dell’intera Commedia perché, tra i tanti motivi, Dante Alighieri ci descrive, con passione e una forte lucidità, una forza totalizzante e cosmica, motore primo di tutto l’universo, principio di unità; una potenza divina, che trascende quella della morte e dell’Inferno: l’amore.          

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
  prese costui della bella persona
  che mi fu tolta: e ’l mondo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
  mi prese del costui piacer sì forte,
  che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
  Caina attende chi a vita ci spense.»


 

            Emmanuele Antonio Serio

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