Giacomo Leopardi, poeta del pessimismo. Un consolidato filone di esegesi letteraria, per decenni, ci ha presentato il poeta di Recanati – che in realtà, a ben analizzare, prima di essere un poeta è un filosofo – come un autore dalla marcata inclinazione pessimistica. Se dovessimo dare una rapida definizione di “pessimismo”, sicuramente diremmo, di primo acchito, che il pessimista è colui che “vede tutto nero”, che ha una percezione peggiorata e drammatica della realtà che vive e che lo circonda. La nostra riflessione di oggi si attesta su una domanda: con quali occhi Giacomo Leopardi osservò la vita? La rigorosa categorizzazione letteraria – che ha l’amaro sapore della tragedia annunciata – con la quale la poetica dello scrittore è stata imprigionata ed etichettata in “pessimismo storico”, “pessimismo cosmico” e “pessimismo eroico”, può essere considerata valida? Oppure, alla luce di un’attenta lettura delle sue opere, andrebbe de-costruita?
Garzoncello
scherzoso,
cotesta
età fiorita
è come un
giorno d’allegrezza pieno,
giorno
chiaro, sereno,
che
precorre alla festa di tua vita.
Godi,
fanciullo mio; stato soave,
stagion
lieta è cotesta.
Altro
dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco
tardi a venir non ti sia grave.
Lo stato soave, la stagion lieta non consentono al giovane di avvertire l’intimo dramma dell’età adulta: quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso. La vita, con il suo palpito di gioia, di speranza e di entusiasmo, appare carica di aspettative e densa di attesa. Potremmo, dunque, con ragionevole certezza, asserire che la concezione leopardiana dell’esistenza è fondata su un’antitesi dualistica, in cui l’elemento positivo è rappresentato dalla fanciullezza e dall’adolescenza spensierate, mentre il fattore tragico è connaturato all’età adulta, in cui il dolore e la sofferenza prevaricano e soggiogano le forze della stagione dell’innocenza.
Molti critici hanno voluto rintracciare una funzione deterministica essenziale tra la vita sventurata del poeta e la sua poetica: in realtà, la riflessione leopardiana non parte mai dal suo vittimismo per una vita infelice; si configura piuttosto come constatazione che la sua, a differenza degli altri, fu un’esperienza di maturità precoce, perché fu incapace, per sensibilità personale, di vivere l’età della felicità spensierata. Questa precoce maturità gli farà cogliere, fin da subito, l’aspetto doloroso dell’umano destino, per la sua stessa, naturale attitudine alla sofferenza e all’introspezione. Che la vita sia anche dolore è una verità innegabile. È forse pessimista colui che acquisisce prematuramente questa consapevolezza? Leopardi non edifica sulla propria sofferenza personale il dolore universale; semplicemente, aggiunge alla propria la sofferenza del mondo. In questa prospettiva sfugge alla nostra analisi la concreta possibilità di una concezione pessimistica.
Piuttosto, assistiamo ad una graduale evoluzione della sua “visione filosofica”: negli scritti della giovinezza appare ancora lontana la certezza del dolore universale, ma probabilmente solo per “difetto di esperienza”; nell’età adulta si fa strada il suo nichilismo (ogni posizione filosofica che concepisca la realtà in genere o alcuni suoi aspetti essenziali, dai valori etici alle credenze religiose, dalla verità all'esistenza, nella loro nullità), perché è incapace, dinanzi al rapido scorrere della sabbia nella clessidra, di trovare un senso alla vita dell’uomo. Le domande esistenziali si fanno più incalzanti: il pastore errante dell’Asia è seduto sotto la luna e le pone domande che ne evidenziano una riflessione “cresciuta”, quasi un rinnovato realismo:
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale? […]
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga? […]
— A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono? —
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre lá donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so.
È una luna diversa, cambiata, quella del pastore errante. In Alla luna, il poeta, con gli occhi velati dalle lacrime, la guarda quasi come confidente della propria angoscia: è una luna amica, diletta, graziosa. Qui è un’entità metafisica, potremmo azzardare, che si erge con indifferenza sulle sofferenze dell’uomo (e forse del mio dir poco ti cale) e si inserisce in un ciclo meccanicistico della Natura in cui tutto si ripete immutabilmente, senza mai l’ombra di un Assoluto che ne possa motivare il perpetuarsi. In tale chiave di lettura, potremmo timidamente asserire che il nichilismo leopardiano è quasi una religione, la “religione del nulla”, rovescio della medaglia della fede cattolica che, invece, al contrario, trova la sua motivazione di senso nell’esistenza di una vita oltremondana, intorno alla quale, a ben guardare, ruotano tutte le azioni terrene.
Leopardi si interroga di continuo; lo immaginiamo chino sui suoi libri, nella ricca biblioteca paterna o sul monte Tabor, nell’intimo microcosmo del suo animo, a cercare risposte o, più semplicemente, a “costruire” dubbi. E forse, man mano che legge e si erudisce, grazie o a causa della sua sconfinata cultura, le domande si infittiscono, gli spunti di riflessione si moltiplicano, nel labirinto multiforme del sapere e del desiderio di sapere ancora e di più.
Eppure, la sua straordinaria sensibilità, il suo geniale sentire lo conducono sulle vie dell’infinito: si perde negli interminati spazi, nei sovrumani silenzi, nella profondissima quiete ove per poco il cor non si spaura. E racconta la semplicità del suo borgo: la donzelletta che si fa bella per la domenica, il legnaiuol che cerca di finire il suo lavoro in tempo, i fanciulli che gridano sulla piazzetta di fronte a casa Leopardi, la gioventù del loco che lascia le case, e per le vie si spande; e mira ed è mirata, e in cor s’allegra. I primi amori, gli innamoramenti, l’immaginazione, il piacere dell’attesa, la spontaneità degli incontri nei giorni di festa: sono tutti temi universali che vanno ad aggiungersi a quelli della sofferenza, ne danno completezza e complessità e si aprono, come un mero respiro di vita, sull’incedere graduale del poeta lungo i tortuosi sentieri del pensiero, quel pensiero che s’annega nell’immensità dell’infinito e ne assapora la dolcezza nel lasciarsi naufragare in uno stato di estasi dell’immaginazione.
È forse pessimismo questo? Vi lascio con questo dubbio. Nessuna certezza ma una ragione per riflettere.
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