Come sopportare in me quest’estraneo? quest’estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?
È da questa amara e struggente constatazione che si apre il dramma tutto pirandelliano di Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, acclamato romanzo dell’autore agrigentino, secondo, per fama e plauso di pubblico, solo a Il fu Mattia Pascal.
Come si può pretendere di vivere se ci si accorge con orrendo stupore che gli altri ci percepiscono diversamente da come ci vediamo noi? Quale prezzo può avere l’angosciosa consapevolezza che la “forma” imposta dal mondo ha prepotentemente frantumato il nostro “io”, riducendolo in brandelli incompleti e caotici del nostro essere apparentemente unico? E da questa rivelazione Vitangelo metterà in crisi un intero sistema esistenziale, fondato su false verità e precarie certezze che si scontreranno con una semplice osservazione:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato
la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Il microcosmo sconvolto del protagonista, da questo momento in poi, vagherà disperato alla ricerca vana di quella unicità irrealizzabile, che ne metterà in dubbio la sanità mentale. Avvertita l’impossibilità di vivere autenticamente, Vitangelo comincerà a compiere gesti folli per “riabilitare” la sua reputazione, credendo di essere agli occhi degli altri un “usuraio” e non un banchiere. Continuando ad alimentare questo vortice di dubbi e di fraintendimenti, si accorgerà di non essere “uno”, di non essere neppure “centomila”, poiché sottoposto alla inarrestabile mutevolezza del nostro essere, arrivando alla conclusione di non essere “nessuno”:
Quando avete agito cosí? Jeri, oggi, un minuto fa? E ora? Ah, ora voi stesso siete disposto ad ammettere che forse avreste agito altrimenti. E perché? Oh Dio, voi impallidite. Riconoscete forse anche voi ora, che un minuto fa voi eravate un altro.
rinunciando a questa spasmodica e inconcludente “caccia al proprio io”, sedendosi, stanco e sollevato, sulla rinuncia alla propria identità, così come socialmente determinata.
La scrittura pirandelliana, come al solito, corre veloce sulle pagine fitte, alternando dialoghi e descrizioni con la consueta attitudine all’utilizzo di un ritmo incalzante, che, al pari di una climax ascendente, assume i tratti della narrazione senza indugi, rappresentando il dramma di Vitangelo con un tratto stilistico quasi ansioso, che diventa registro speculare della drammatica e paradossale vicenda raccontata.
L’utilizzo della prima persona – per cui il protagonista si configura come narratore interno – e dell’apostrofe/allocuzione – con continui richiami diretti al lettore mediante domande a lui rivolte, che si sente, in tal modo, coinvolto personalmente nei fatti – caricano di ulteriore pathos quelli che sono i leit motiv della poetica pirandelliana.
Ma c’è di più. I persistenti interrogativi al lettore diventano, procedendo nell’ordito complesso della trama narrativa, attraverso un incedere che si fa sempre più sibillino per chi non conosca l’autore, il pretesto per un flusso di coscienza che si dipana nei meandri della mente sconvolta del personaggio. Le sue perplessità esistenziali investono, attraverso l’espediente tanto caro allo scrittore del “paradosso”, riflessioni in apparenza “fuori tema”:
Avete mai veduto costruire una casa? Io, tante, qua a Richieri. E ho pensato:
«Ma guarda un po’ l’uomo, che è capace di fare! Mutila la montagna; ne cava pietre;
le squadra; le dispone le une sulle altre e, che è che non è, quello che era un pezzo di
montagna è diventato una casa.»
– Io – dice la montagna – sono montagna e non mi muovo.
Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati da buoi. Sono carichi di te, di pietre
tue. Ti portano in carretta, cara mia! Credi di startene costí? E già mezza sei due miglia
lontano, nella pianura. Dove? Ma in quelle case là, non ti vedi? una gialla, una rossa,
una bianca; a due, a tre, a quattro piani. E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti?
Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati bene? Chi li riconoscerebbe piú
in queste sedie, in questi armadi; in questi scaffali?
Per approdare, infine, alla non-coscienza di quello che siamo, ad un vitalismo che, avulso dall’insanabile mistero della nostra mente franta, ci conduca ad uno stato di benessere nel quale abbandonare per sempre la “forma”, per abbracciare la “vita”, lasciandoci cullare dal suo libero fluire.
Ma prima di giungere a questo nuovo stato esistenziale, il protagonista passa attraverso una serie di equivoci, fraintendimenti, piccoli drammi borghesi, nel dissidio perenne tra essere e apparire, tra realtà e follia, tra dentro e fuori.
Etichettato da tutti come “folle”,
abbandonati i frantumi del suo “io” passato, allontanate le schegge
dell’identità ormai perduta, sentiremo la voce di Vitangelo sussurrare:
muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.
Dal punto di vista stilistico, a creare simmetria tra i vari capitoli, interviene, inoltre, l’uso predominate delle costruzioni paratattiche ed un registro linguistico costruito su toni medi e informali, con la consueta ricorrenza della lettera “j” al posto della “i”, una sorta di firma d’autore, che ne contraddistingue tale peculiarità. Le meditazioni del Moscarda sembrano assumere, in alcuni tratti, il sapore del monologo interiore, che richiama l’incipiente follia, con passaggi repentini da un’immagine all’altra, mentre tutta l’impalcatura retorica è retta dall’uso abbondante di metafore, analogie e similitudini. La sapiente regia narrativa, in chiusura di romanzo, lascia al lettore una sensazione di non-concluso e lo porta ad interrogarsi, come se l’epilogo potesse essere rimandato allo spazio della riflessione personale.
Se vi consiglio di leggerlo?
È un romanzo che ho adorato, perché in quel non-letto/non-scritto del finale ho trovato un impeto di volontà di analisi introspettiva che solo Pirandello e pochi altri, forse, sono stati in grado di trasmettermi.
Siamo uno, siamo centomila, siamo nessuno. Cala il sipario sulle nostre vacillanti certezze.
Una lettura che non sapevo se iniziare o meno, la sua analisi mi ha convinta ad andare subito a comprare il romanzo, grazie mille��
RispondiEliminaGrazie di cuore!
EliminaBellissimo, prof ☺❤
RispondiEliminaGrazie di cuore!
EliminaSplendida analisi, accattivante , coinvolgente, esplicativa. Bravissima
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
EliminaStupendo prof!
RispondiEliminaDopo aver letto e apprezzato la sua analisi sulla poetica leopardiana, non potevo che trovare un riscontro estremamente positivo anche questa volta. Spero che continui a pubblicare
RispondiEliminaSinceramente grazie...
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