a riempire il cuore di un uomo.
Bisogna immaginare Sisifo felice.”
Albert Camus, Il Mito di Sisifo
«Hai mai letto quella roba di Camus? Forse è lo sforzo che ti fa bene, no?» dice Cristoph Waltz a un certo punto, quando il film è quasi finito. E poi, dopo un po’, Wallace Shawn sorride, e probabilmente sorridono anche gli spettatori in sala.
Sarebbe un bel quadretto, dopotutto, se non fosse che Cristoph Waltz è seduto davanti a una scacchiera, indossa una lunga tunica nera, è truccato con il cerone bianco sul volto e non ha le sopracciglia.
Perché Cristoph Waltz interpreta la Morte.
Nel suo film appena uscito, Rifkin’s Festival, Woody Allen riporta al centro della discussione interrogativi che sembrano essere finiti irrimediabilmente fuori moda. Come fa, più o meno, ogni volta che esce un suo film. Si può essere felici in un indifferente universo senza Dio? A che servirebbe? Ed è possibile esserlo, accompagnati dalla coscienza di vivere una vita priva di qualunque significato intrinseco?
Nessuna sorpresa: intorno a questi interrogativi sembra ruotare gran parte della filmografia del regista newyorkese, compresi i titoli apparentemente più leggeri. Non c’è da meravigliarsi dunque che Allen venga spesso definito “l’ultimo esistenzialista”: a quale altro regista contemporaneo verrebbe in mente di far dialogare Camus e Bergman, in un crossover destinato a passare alla storia?
Alla fine di Rifkin’s Festival, infatti, il protagonista Mort Rifkin, interpretato da Wallace Shawn, si lancia nella sua personale partita a scacchi con la Morte, in un esplicito omaggio a Il settimo sigillo (tutto il film è scandito da omaggi ai grandi maestri del cinema europeo, da Fellini a Godard a, appunto, Bergman). Rifkin si sta lamentando dell’angoscia che lo pervade ogni volta che pensa al senso della vita, quando il Tristo Mietitore lo interrompe e gli chiede: “Hai mai letto quella roba di Camus? Forse è vero, forse la vita non ha alcun significato, ma è lo sforzo che ti fa bene.”
Il riferimento è, in particolare, a Il mito di Sisifo, pubblicato nel 1942 poco dopo l’opera più nota dello scrittore franco-algerino, il romanzo Lo Straniero. Nel saggio dello stesso anno, Camus esplora il concetto intorno al quale ruota la sua filosofia: l’assurdo.
In un mondo senza senso e senza Dio, l’uomo è lacerato dal profondo bisogno di comprendere e dalla contemporanea impossibilità di farlo. Questo distacco, e soprattutto la coscienza di esso, rendono l’esistenza umana assurda. Ma poi, colpo di scena: con l’assurdo si può vivere bene, anzi, l’assurdo è la condizione a cui l’uomo deve aspirare, perché porta con sé una condizione di vertiginosa libertà.
L’uomo assurdo di Camus non è un individuo triste, da compatire: al contrario, è un uomo che si libera delle proprie illusioni e diventa padrone della propria esistenza. Nel Mito di Sisifo lo si dice chiaramente: l’assenza di speranza non porta alla disperazione, il rifiuto dell’esistenza e di ogni illusione metafisica non si traduce nella rinuncia. Allontanandosi dal cupo pensiero esistenzialista e da qualunque illusione metafisica, Camus descrive un individuo che vive finalmente appieno, conscio del valore prima inimmaginabile del suo presente.
Nell’universo assurdo, l’essere umano è come Sisifo, condannato dagli dei a spingere per l’eternità un macigno su per la collina solo per poi guardarlo rotolare giù, scendere di nuovo e ricominciare tutto dall’inizio. Ma cosa accadrebbe se, mentre scende dalla collina, Sisifo sorridesse?
Ed è in quel sorriso che sta la rivolta di Camus: trovare piacere nella propria assurda punizione. Del resto, c’è forse qualcosa che fa innervosire di più chi quella punizione te l’ha assegnata?
Al suggerimento della Morte, Rifkin risponde con una battuta fulminante, tipicamente alleniana, con cui da un lato nega e dall’altro riafferma la necessità di seguire il consiglio. Una volta, racconta Rifkin, non sa come ma è riuscito a far rimanere in equilibrio il macigno sulla collina. Miracolo. Poi, emozionato, ha alzato gli occhi e cosa si è ritrovato a guardare? Un’enorme pietra su una collina, dice amareggiato, niente di più. Scuote la testa, fa una serie di smorfie, ma dopo un po’ sul suo volto compare l’ombra di un sorriso.
Questioni andate irrimediabilmente fuori moda, dicevamo. O forse no. La battuta di Rifkin, per certi versi, riassume un atteggiamento tipicamente contemporaneo: quanto suona astruso, per la società in cui viviamo, cercare soddisfazione in compiti che non portano a nessun risultato, svolti per il semplice piacere che ne deriva? È palese come questa epoca disprezzi l’inutilità e lo sforzo gratuito in nome della nevrotica ricerca di cose utili: così facendo, il profitto economico è stato trasformato nell’unico, ossessivo parametro utilizzato per valutare le cose del mondo. Questo vale per tutti i campi, dall’arte all’istruzione, dallo sport alla salute.
Sono tante le riflessioni che, per effetto domino, vengono smosse dal tentativo di far “scontrare” questa opera con il periodo storico presente: è ancora possibile, come suggeriva Camus nel Mito di Sisifo, guardare lucidamente all’esistenza, tanto da sfrondarla delle inutili illusioni e viverla appieno, in un eterno presente? Se la felicità, come scrive Camus, viene dalla coscienza, verrebbe da chiedersi se è ancora possibile immaginare Sisifo felice.
Certo, questo può risultare complicato, in un’epoca in cui la coscienza è merce rara e le paure primordiali sulla morte e sul senso della vita vengono quotidianamente sostituite da facili surrogati come la costante ansia di non essere abbastanza, l’angoscia della popolarità e della mancanza di like. Forse non è l’esistenzialismo ad essere andato fuori moda. O meglio, non solo: per l’essere umano del ventunesimo secolo sembra essere fuori moda, in primis, la riflessione. Se tutti sono lanciati alla ricerca di risposte semplici e rassicuranti, diventa vitale farsi le domande giuste. Già, ma chi fa le domande?
Ecco come l’invito alla coscienza lucida e alla rivolta che si legge tra le righe di Sisifo, insieme all’elogio dell’inutilità, della gratuità, dello sforzo senza risultato, può costituire una lezione più che mai utile per le donne e gli uomini contemporanei. Una possibile strada per recuperare l’umanità di una società che si muove a grandi falcate, ogni giorno che passa, verso la disumanizzazione.
«Con cosa mi sono ritrovato?» dice Rifkin alla fine del film, «Nient’altro che un masso sulla collina». Dopo un po’, però, sorride.
Perché bisogna ancora, e sempre, immaginare Sisifo, e Rifkin, felici.
Roberto Oliva
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