Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa […]; e dovettero esser tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.
Lei è Hannah Arendt e il libro, celeberrimo e indiscutibilmente pregnante, è La banalità del male. Nel 1961, a Gerusalemme, davanti al Tribunale distrettuale, dopo essere stato catturato l’anno prima a Buenos Aires, Adolf Eichmann, “burocrate ligio e zelante”, organizzatore della cosiddetta “soluzione finale” della questione ebraica, viene sottoposto a processo. Deve rispondere di quindici imputazioni, relative a crimini commessi sotto il regime nazista e lui, difeso dall’avvocato di Colonia Robert Servatius, si dichiara “non colpevole nel senso dell’atto d’accusa”.
Dopo un’iniziale reticenza sulla drammatica questione della Shoah, negli anni Sessanta comincia a farsi strada il desiderio di fare luce, di consegnare alla Storia una delle pagine più oscure di tutti i tempi, nella terra di Mordor, dove si delineano con prepotenza connotazioni complesse, che vanno dal senso di colpa collettivo al tentativo di ridisegnare le tradizionali categorie del crimine, del bene e del male. Il processo Eichmann ha una risonanza mediatica di straordinario spessore: tutti lo guardano perché, per la prima volta, un evento giurisdizionale di tale portata viene trasmesso in tv, grazie al produttore televisivo Milton Fruchtman. I primi piani sull’impassibile volto del gerarca nazista si alternano, come in una pellicola schizofrenica, alle tragiche immagini dei corpi moribondi o privi di vita degli ebrei nei campi di sterminio. Collera, risentimento, commozione, rabbia, desiderio di vendetta, costernazione, incredulità sono solo alcuni dei sentimenti che “montano” con immediatezza nelle persone che guardano e che cominciano a sapere, forse a capire. Ma gli occhi della Arendt sono più acuti: corrono oltre la cortina di vetro, scrutano le risposte del criminale, elaborano ipotesi e possibili risposte, senza nessuna pretesa di formulare teorie definitive. Per tutto il processo, Eichmann si limita a fondare la sua presunzione di innocenza sulla constatazione di aver semplicemente eseguito gli ordini, lui, una delle “rotelle” dell’intricato e gerarchizzato ingranaggio della macchina della morte nazista. Lui non ha mai provato odio per gli ebrei, non è un antisemita, anzi… Ne ha studiato la cultura e i tratti peculiari ed ha persino aiutato e fatto affari con alcuni di loro e poi… non ha mai commesso materialmente nessun omicidio… Un vero peccato se si considera che uno dei paradigmi insiti nel giudizio dei crimini di guerra e dei genocidi del XX secolo sia l’inversa proporzionalità tra colpevoli del reato ed esecutori materiali dello stesso: più si è lontani dal concreto perpetrarsi dell’atto criminoso, più se ne è responsabili e rei. Personalità mediocre, poco incline allo studio, ad Eichmann l’unica possibilità di carriera si profila concretamente con l’avvento del Terzo Reich, dove le doti di acume intellettivo e la solida formazione culturale sembrano passare in secondo piano. In un mondo alla rovescia, in cui i dettami tradizionali del “fai del bene, fai del male” sembrano sovvertiti, in nome di una battaglia riconosciuta anche da alcuni gerarchi come “inumana” ma necessaria alla creazione di un mondo migliore e più “puro” da consegnare alle generazioni future, Hitler, da leader incontrastato, consegna ai suoi epigoni la nuova legge dell’ammazza, per una finalità nobile e superiore. Eichmann sembra esaltarsi, durante l’interrogatorio, al ricordo di alcune frasi-slogan che si imprimono con incredibile enfasi su un uomo ordinario come lui, che glorificano la verità contro la menzogna, la lealtà contro il tradimento, l’onore contro la disobbedienza. Parole alate, così le definisce. Eppure, Eichmann avrebbe potuto scegliere di non eseguire gli ordini: alcuni gerarchi lo fecero e pare che non ne scaturirono conseguenze di grave entità. Ma lui resta. Ed esegue. Perché ha una sorta di rispetto-venerazione nei confronti dei suoi superiori, dei quali riconosce il carisma e l’intelligenza; perché pensa alla sua carriera e alle promozioni; perché è lesto nel dimenticare e astuto nell’alterare la realtà; perché lui, uomo non stupido ma privo di idee e opinioni proprie, rappresenta un prototipo di criminale nuovo, quello nel quale alligna la banalità del Male…
La Storia ha conosciuto, purtroppo, altri grandi genocidi, giustificati spesso dall’arroganza di superiorità, ma la Shoah si configura, per la prima volta, come uno “sterminio sistematico e burocratico”, studiato alle scrivanie degli alti ranghi e attuato dalle mani di impiegati ottusi, con i visi impassibili e gli occhiali messi sulla punta del naso per dare libero sfogo alla follia ordinata di colonne di carte e documenti. Una macchina infernale, se di inferno vogliamo parlare, che si nasconde dietro a uomini in camicia o in divisa che – a loro dire – non avrebbero mai potuto fare i medici, perché fortemente impressionabili alla vista del sangue (secondo quanto dichiarato, riferendosi a se stesso, da Adolf Eichmann durante la deposizione). Eichmann prova raccapriccio dinanzi al rituale mortifero di un camion a gas in cui vede gli ebrei morire e lo spettacolo dei loro corpi ammassati ancora flessuosi genera in lui un naturale istinto di angoscia e tristezza, comunque lontano da un suo personale “problema di coscienza”. Probabilmente, nell’oscuro labirinto della sua memoria, fallace e deviante, riascolta le parole di Himmler:
Noi ci rendiamo conto che ciò che ci attendiamo da voi è “sovrumano”, di essere “sovrumanamente inumani”.
E in nome di questo sacrificio, quello che a lui resta è il compito orribile che grava sulle sue spalle, le orribili cose da vedere nell’adempimento dei suoi doveri. È così semplice deviare la coscienza di un criminale come Eichmann: basta spostare la pietà che normalmente si prova di fronte ad una persona che soffre verso se stessi. Scacco matto. Demoniaco e banale.
E nel segno della sua pseudo-coscienza di burocrate, non esita ad organizzare la “liquidazione finale” del problema semitico. Addirittura, è convinto che, gestendo l’emigrazione di massa degli ebrei verso i paesi dell’Est Europa, abbia dato loro una possibilità di salvezza e concepisce – secondo il precetto hitleriano - la morte tramite gas come una sorta di eutanasia, un “dolce addormentarsi” nobile sostituto di una morte inumana. E lungo la trama complessa del processo, tra le toccanti testimonianze dei sopravvissuti e le sue affermazioni grottesche rese ancor più assurde dalla labilità della sua memoria, l’uomo nella gabbia di vetro sembra non rendersi conto di essere stato uno dei maggiori protagonisti e colpevoli del peggiore sterminio del secolo breve. Corre veloce sulla scia delle domande che gli vengono poste, ribadendo gli stessi concetti, come in un loop di deprecabile menzogna ed arriva alla sentenza, l’unica possibile: condanna a morte per impiccagione. L’esecuzione ha luogo nemmeno due ore dopo che Eichmann è stato informato che la domanda di grazia è stata respinta.
Adolf Eichmann va alla forca con grande dignità. Beve mezza bottiglia di vino rosso; rifiuta l’assistenza del pastore protestante, il reverendo William Hull, che si è offerto di leggergli la Bibbia. Cammina calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Tutto il mondo è con il fiato sospeso. La condanna a morte ha suscitato non poche polemiche: per alcuni l’impiccagione è un modo troppo “comodo” di saldare il proprio debito con la giustizia, una giustizia che assiste sbigottita ad uno spettacolo dell’orrore al quale non era pronta a dare un nome e un verdetto. Dovrebbe:
trascorrere il resto della sua vita nelle aride distese del Negeb, condannato ai lavori forzati, aiutando col suo sudore a colonizzare la patria degli ebrei.
Quando le guardie gli legano le caviglie e le ginocchia, chiede di non stringere troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. E pronuncia queste parole, altisonanti, quasi un monito, più di un congedo, degne di donargli l’ultima intima esaltazione prima della morte:
Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.
Un attento identikit del del criminale moderno. Un analisi perspicace del male che" non ha idee, ne' ideologie come qualcuno potrebbe supporre; non è radicale come il Bene, ma si espande come un cancro e si diffonde con evidenza normale, sistematica. Allo stesso modo, il nuovo criminale è un uomo qualunque, un impiegato grigio e anonimo, che insegue velleitari sogni di grandezza e sul suo zelo di burocrate decide morti di massa". Bellissime parole che rivelano coraggio e transparenza..complimenti all' autrice
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