Leggere il capolavoro di Alessandro Manzoni per meglio comprendere il panorama nazionale contemporaneo
L’Italia settentrionale – specchio dell’intera penisola – non mostra certo un aspetto rassicurante nel corso delle disavventure dei due poveri, sfortunati amanti Renzo e Lucia. Un universo spietato, crudele, cinico; un acuto pessimismo pervade ogni singola pagina del romanzo, sentimento questo ereditato dal Giansenismo; un senso di sbigottimento davanti alla malvagità umana che contribuisce a rendere il «guazzabuglio» ancora più intricato.
Una prima, inquietante denuncia è delineata nelle prime pagine del romanzo, dopo una splendida, quanto dettagliata, descrizione del paesaggio. Don Abbondio, tornandosene «bel bello dalla passeggiata verso casa», del tutto inaspettatamente, si imbatte in due figuri poco raccomandabili: i bravi.
Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.
Da qui Manzoni elencherà una lunga sequenza di grida, di bandi, di leggi emanate con fervore per stroncare il triste fenomeno criminale dei bravi. Tra le righe serpeggia una sottilissima ed acidissima ironia: gli sforzi delle autorità sono risultati vani perché questi fuorilegge continuano ancora a prosperare. Le grida presenterebbero uno Stato vivo, delle istituzioni che agiscono ma, in realtà, è solo la superficie, in profondità la faccenda è ben diversa.
Una realtà così simile alla nostra: lo Stato cerca di intervenire, di mostrarsi presente, di prodigarsi per i cittadini ma, alla fin fine, gli sforzi risultano inefficienti; le leggi, i bandi, le grida rimangono carta ed inchiostro. È uno Stato soffocato da una sempre più ingombrante macchina burocratica e da funzionari – sempre tanti, sempre troppi - poco interessati alla salvaguardia del bene comune.
Sì, anche l’Italia di
Alessandro Manzoni era vittima di cavilli burocratici, di iter noiosi da
seguire per arrivare ad un minimo di risultato.
«Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?»
«Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?»
«Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
si sis affinis, …» cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
«Si piglia gioco di me?» interruppe il giovine. «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?»
Lo Stato ha un linguaggio tutto suo: il latinorum per Renzo, il burocratese per noi contemporanei. Una lingua questa ancora oggi più viva che mai e che aumenta la distanza tra le istituzioni ed il cittadino comune che non è certo avvezzo a masticare termini desueti e che facilmente si perde tra quegli infiniti periodi ricchi di subordinate!
«All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle.»
Lo Stato ha un linguaggio tutto suo, ambiguo e spesso incomprensibile: questo è il punto di forza degli avvocati del calibro di Azzecca-garbugli che sanno come gestire questa ambiguità a proprio vantaggio. Le leggi anche oggi sono interpretabili: ognuno le affibbia il significato che più ritiene opportuno. L’Italia del Seicento, nonostante le numerosissime leggi, versava in uno stato di terribile anarchia; lo stesso vale anche ai giorni nostri.
Lo Stato inoltre sovente temporeggia, prende tempo, non è presto nel prendere provvedimenti: come nel caso della peste – i capitoli XXXI e XXXII suonano profetici se letti di questi tempi!
Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.
Quando si risveglia dal «profondo sonno» allora diventa più risoluto: ma è troppo tardi e, soprattutto, i suoi provvedimenti risultano inefficaci perché dettati dalla fretta e dalla disperazione causati dal tempo perduto. Ed ecco, allora, che, prontamente, scarica ad altri le responsabilità; come nel caso della gestione del caotico lazzaretto data ai cappuccini e a padre Felice Casati.
Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò.
Quando poi la situazione si aggrava ancora di più lo Stato cerca altrove i responsabili del disagio, cercando di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica; come durante la peste: i magistrati alimentano la diceria che il contagio sia stato causato dagli untori; tanto il popolo è preso dal panico e non si preoccuperà di investigare, è poco istruito quindi crederà ad ogni voce di corridoio!
I funzionari, purtroppo, possono essere anche incapaci: e ciò rende le azioni dello Stato ancora più inutili, anzi, pericolose! È il caso questo del cancelliere Antonio Ferrer; per risolvere l’annoso problema della carenza del pane decide di imporre un calmiere sul prezzo non considerando le leggi del mercato. Si potrebbe dire che, in parte, il malcontento del popolo ed il conseguente assalto ai forni sia colpa del cancelliere.
Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d’una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all’esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia.
Ogni giorno i nostri occhi sono chiamati ad assistere alla sfilata di tanti Ferrer!
In mezzo al «guazzabuglio», però, prolifera, vive, si muove un “altro” stato, più efficiente, più vigoroso; l’ “onorata società” formata da don Rodrigo, il conte Attilio, il Griso ed il loro manipolo di bravi. Criminali che prosperano a causa di uno Stato assente e che, purtroppo, sovente volge lo sguardo altrove, permettendo all’ “onorata società” di fare i propri comodi! Anzi, don Rodrigo ed il conte Attilio possono sentirsi al sicuro perché i loro artigli affondano nelle istituzioni: l’avvocato Azzecca-garbugli lo ritroviamo a pranzo da don Rodrigo assieme al podestà («quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino»); il conte Attilio chiederà aiuto all’inquietante conte-zio per far trasferire altrove l’impudente fra Cristoforo.
«M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.»
Al giorno d’oggi don Rodrigo ed il conte Attilio hanno assunto altri nomi – Riina, Provenzano, Cutolo, Gionta, Nuvoletta, Bontate, Badalamenti –, stessa cosa vale per il conte-zio – Lima.
Ecco che Alessandro Manzoni ci offre due possibili soluzioni, due alternative da seguire nel mezzo del «guazzabuglio»: quella rappresentata da don Abbondio e l'altra da fra Cristoforo.
Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta.
Don Abbondio è un personaggio curioso, particolare, ma soprattutto è un personaggio monotono: non cambia carattere, come accade, ad esempio, all’Innominato. Il caro curato, così tenero nella sua cronica inettitudine, è un personaggio inquietante perché facile al compromesso. Piegare la testa, rimanere in silenzio, «dar così spesso ragione agli altri», fare finta di nulla davanti al male – davanti alle soperchierie di don Rodrigo – solo per continuare a vivere tranquillamente la sua esistenza.
Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche.
Don Abbondio è una soluzione, purtroppo, che molti anche al giorno d’oggi adottano perché è la più semplice, la più tranquilla perché lungo la strada del compromesso non si è mai soli; ma, facendo così, adottando l’indifferenza, si diventa complici del male.
Dall’altra parte del compromesso c’è fra Cristoforo il quale ha imboccato la via più difficile e pericolosa.
«La vostra protezione!» esclamò, dando indietro due passi, spostandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: «la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; è non vi temo più.»
Fra Cristoforo, come don Peppe Diana e don Pino Puglisi, decide per amore del suo popolo di non rimanere in silenzio ma di agire; non rimane indifferente come invece fa don Abbondio. Egli indica una strada, una valida alternativa ad uno Stato morente e ad una criminalità sempre più dilagante; una strada fatta d’amore e sacrificio per i più umili, per gli indifesi, per quanti non hanno voce; una strada fatta di coraggio che tiene testa alle soperchierie dei potenti e dei prepotenti.
«Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino, anche loro, per il povero frate!»
Credo che queste parole siano il vero finale di questo grande capolavoro.
In conclusione, l’Italia dei Promessi sposi non è poi così differente dalla nostra; così anche le alternative che presenta Manzoni sono valide ancora oggi. Da una parte l’indifferenza, dall’altra l’agire con amore e coraggio. Possiamo immaginare quale sia l’esempio apprezzato dall’autore.
Mi piace pensare, mi perdonino i lettori, che la distanza da casa di Lucia al castello di don Rodrigo sia di “cento passi”; i “cento passi” del coraggio che ha dovuto percorrere fra Cristoforo; i “cento passi” che tutti noi siamo chiamati a camminare se vogliamo vedere le cose cambiare. Certo, questa strada non è affatto facile, sembra solitaria e irta di pericoli e dubbi, ma più camminiamo e più prendiamo consapevolezza che questi “cento passi” sono stati calpestati da altri prima di noi e, questo pensiero, ci fa sentire meno soli.
“Cento passi” camminati da: Giancarlo Siani; Paolo Borsellino; Giovanni Falcone; Rocco Chinnici; Antonio Caponnetto; Peppino Impastato; don Giuseppe Diana; don Pino Puglisi e tante altre “anime belle”.
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