Primo dicembre 1907: “Il Marzocco” pubblica il Diario autunnale. Il ticchettio del tempo incombe, come la fine ansiosa di un’estate, sul poeta prostrato dalla vita e dall’alcol, unico antidoto alla tristezza di un’anima triste. Come le caotiche facce di un cubo di Rubik, gli anni si confondono lungo una cortina di vaghezza e di ricordi, sempre sotto l’incontrastato dominio della figura paterna, immobile, attonita sotto il cielo stellato e piangente di San Lorenzo. È tornato, per l’ultima volta, lungo i sentieri della memoria. È a casa. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1907, Giovannino vuole levarsi il capriccio. Decide di passare la notte nella vecchia tenuta dei Torlonia, lì dove tutto ebbe inizio, l’incipit della fine, adesso che troppe cose sono successe. Il puer, che in quei luoghi ha smesso di essere bambino, indugia sulla porta e, nell’indefinibile incalzare dell’oscurità, tra immobilità e reazione, rivede il suo nido.
Torre di San MauroNotte dal 9 al 10 novembre.Dormiii sopra la chiesa della Torre.Cantar, la notte, udii soave e piano.Udii, tra sonno e sonno, voci e passi,e tintinnare il campanello d’oro,ed un fruscìo di pii bisbigli bassi,ed un ronzìo d’alte preghiere in coro,ed una gloria all’organo canoro,che dileguava a sospirar lontano,
A sospirar così soave e piano!Era una messa. Santo! Santo! Santo!
Le anafore (ed) si infrangono continuamente lungo gli argini velati di verbi evocativi che si caricano di pathos sotto l’incedere lento di percezioni sensoriale che de-costruiscono la memoria attraverso suoni onomatopeici (tintinnare, fruscìo, ronzìo), antitetici (pii bisbigli bassi) e voci di preghiera che preannunciano l’epifania di una messa, ma una messa dei morti:
Ma eran voci morte che cantareUdii la notte fino sul mattino:
È la notte della resa dei conti, della battaglia finale, forse della disfatta. Il tono della narrazione autodiegetica è latente e, come in un incastro di specchi, il poeta si rivede nell’immagine, inquietante e prevedibile, del “bimbo morto”. È lui, è Giovannino che nel Ritorno sedeva ancora sul ciglio dello stradone, in bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma che qui, nel Diario, ha varcato la soglia del cimitero:
un bimbo morto ritto sul gradino,con su le spalle il suo lenzuol di linoin che l’avvolse la sua madre in pianto.
Nell’espediente dell’onirismo (tra sonno e sonno), l’autore prova a concludere la sua esperienza poetica, che è stata, dopotutto, la riproduzione ritrattistica di un uomo infelice. Tuttavia, nel Diario autunnale, sembra concretizzarsi una sorta di ulteriore regressione linguistica del “fanciullino”, come se la sublimità dell’incontro con i propri cari defunti portasse al totale annientamento delle vie analitiche per approdare, nell’esasperazione del dualismo antitetico pascoliano, all’inatteso e sbigottito incontro tra la culla e la morte. Il puer Giovannino incontra il pater morto e, per comunicare con lui, deve del tutto abbandonare il linguaggio dei vivi. Il registro stilistico si pone qui, nel luogo dei defunti, fuori e dentro, prima e dopo la lingua grammaticale e si fa ridondanza, balbettio, rumore. Le singole parole scivolano verso il mistero e l’evocazione. Il poeta non parla, ma ascolta. È come se l’intonaco delle abitudini linguistiche si fosse frantumato sotto il fardello di un ritorno alle origini che porta, per naturale contrapposizione, al finale, all’incontro con la propria famiglia, al nido rincorso per un’intera esistenza e miracolosamente ritrovato nello spazio di una notte. Nella malinconia dell’autunno, le foglie secche celebrate dal Pascoli nella poesia diventano l’unico correlativo oggettivo di finis rerum. Il dado è tratto, i giochi sono fatti. La consapevolezza del tempo trascorso troppo in fretta, descritto attraverso l’ellissi del salto temporale, si evidenzia nel Siamo di dopo!... che chiude i versi sofferti, ma lascia aperta la dialettica del dolore mediante la reticenza, quei tre puntini sospensivi che racchiudono l’orizzonte interiore di uno dei più grandi autori della nostra Letteratura.
La sonorità del buio che avvolge la Torre di San Mauro accompagna gli ultimi tortuosi sentieri del passaggio pascoliano in questo mondo. Immagino i suoi pensieri di congedo, mi fingo spettatrice del suo estremo saluto. Le scarpe gialle troppo strette sono ancora lì, nella stanza Mariù piange. Ho conosciuto il poeta, ho amato l’uomo. È il 6 aprile 1912. È primavera. Sulla scrivania, giace ignorato il Diario autunnale.
Parte seconda |
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