Perché sei rimasto? Che cosa ancora ti trattiene?
E potevo dirgli la cosa assurda? Potevo dirgli:
ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era.
Ritrovare […] me stesso al punto di partenza,
e rimettere tutto a posto da quel punto.
Raffaele La Capria, Ferito a morte
Amoresano e Maria Rosaria sono seduti sul letto, nella stanza di lei, e l’unica luce proviene dallo schermo del computer che proietta un film. Il protagonista del film dice che, per diventare disperati come lui, basta trascorrere un’infanzia felice, e all’improvviso nella stanza di Maria Rosaria l’atmosfera cambia, si fa cupa, pesante. Non se lo dicono, perché non ce n’è alcun bisogno, ma Amoresano e Maria Rosaria sanno che si sta parlando di loro, della loro vita, della lacerante impossibilità di essere felici nel presente.
Il romanzo non è il prequel di Napoli mon amour, o forse sì, o forse non importa. Quel che importa è che Forgione torna a disegnare il mondo interiore e lo smarrimento di Amoresano con parole precise e affilate, tra i frammenti di passato e presente che si inseguono per tutto il libro.
Il contrasto dell’oggi con la dolcezza dei ricordi è stridente: è Chiccù (il nomignolo con cui lo chiamava sua nonna) che Amoresano rincorre, verso quei giorni in cui tutto sembrava facile e bello e leggero e colorato. Un’infanzia affollata, felice, vissuta tra una nonna dolce e comprensiva e un nonno burbero solo per finta, “che non ha mai una parola buona per nessuno, costretto a venire per tutta la vita frainteso”, tra esilaranti siparietti e litigi che seguono un copione preciso e mai conoscono la vera aggressività.
Il nostro meglio è un romanzo sulla nostalgia, scritto nel momento più doloroso di tutti, nel quale quello per cui si prova nostalgia non è ancora finito, ma è sul punto di farlo.
Nella prima parte lo shock della notizia tiene al guinzaglio la disperazione, che rimane latente, fuoco che cova sotto la cenere, e contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, il limbo di birre, canne, concerti e amori sfiorati che costituiscono i vent’anni di Amoresano.
Come sospesa rimane Napoli, tra Soccavo e i viali alberati di Bagnoli (il quartiere dei nonni), a bordo dei treni che portano alle strade strette e rumorose del centro storico oppure con gli occhi rivolti verso un mare nero, notturno e sempre mosso, che non fa sconti a nessuno. Ne Il nostro meglio, come nei precedenti romanzi di Forgione, Napoli si svincola da goliardia e luoghi comuni e viene piuttosto mostrata attraverso rapide pennellate impressioniste: sono le emozioni e i pensieri di Amoresano a dare forma alla città, non il contrario. Napoli è come Amoresano, è Amoresano, un’anima “stanca, che ancora si muove e procede, verso dove non si sa, ma procede”.
Il caos che abita il protagonista però raramente si trasforma in azioni concrete, il suo monologo interiore solo a volte riesce a trovare un interlocutore esterno: due ragazze, Maria Rosaria e Anna, speculari eppure lontanissime per stile di vita e classe sociale, a cui non è facile avvicinarsi perché “a volte si desidera così tanto che è difficile anche solo incominciare”; oppure un amico, Angelo, che “fondamentalmente non capisce un cazzo”, e che per questo un po’ è invidiato e un po’ è compatito, in previsione del giorno in cui verrà colpito da tutto e tutto insieme. Oppure forse, chissà, Angelo ha capito più del protagonista, ma di questo non si può essere sicuri, perché per Amoresano comunicare è sempre più difficile. Come si fa a comunicare, se l’unica persona con cui era possibile farlo senza problemi è anche quella a cui ci si deve preparare a dire addio?
E poi, man mano che la cosa temuta si avvicina, il racconto si fa più angoscioso, intenso, doloroso. Quello che resta, oltre allo struggente omaggio alla donna che lo ha cresciuto, è la lotta di un ragazzo contro il tempo, contro la conclusione inevitabile a cui si oppone con l’unica arma disponibile: “mangiare il gelato più lentamente”, per dirla con le sue parole, e quindi provare a trattenere il tempo per la maglia, strattonarlo fino a modificare il preordinato andamento degli eventi. La sola strategia possibile per chi è “costretto a giocare sapendo già il risultato”.
Ma al presente non c’è modo di scappare, e allora forse davvero non resta niente, come ripetuto in un punto cruciale del romanzo. Niente se non, forse, provare a ricordare immagini e sensazioni che ci legano ai posti e alle persone che abbiamo amato, e farle durare per sempre scrivendone, pur consapevoli della natura limitata e parziale dei ricordi. È questo che Amoresano può fare, è questo il suo, il nostro meglio: perché in fondo dopo il Capitolo Zero, l’ultimo, se si ha la forza di girare qualche pagina bianca si può ricominciare dal capitolo numero Uno.
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