13 novembre 2021

Il nostro meglio

Perché sei rimasto? Che cosa ancora ti trattiene?
E potevo dirgli la cosa assurda? Potevo dirgli:
ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era.
Ritrovare […] me stesso al punto di partenza,
e rimettere tutto a posto da quel punto.
Raffaele La Capria, Ferito a morte

Amoresano e Maria Rosaria sono seduti sul letto, nella stanza di lei, e l’unica luce proviene dallo schermo del computer che proietta un film. Il protagonista del film dice che, per diventare disperati come lui, basta trascorrere un’infanzia felice, e all’improvviso nella stanza di Maria Rosaria l’atmosfera cambia, si fa cupa, pesante. Non se lo dicono, perché non ce n’è alcun bisogno, ma Amoresano e Maria Rosaria sanno che si sta parlando di loro, della loro vita, della lacerante impossibilità di essere felici nel presente. 

Il nostro meglio è il terzo romanzo di Alessio Forgione, pubblicato lo scorso settembre da La Nave di Teseo. Ritorna Amoresano, già protagonista di Napoli mon amour del 2018, che il lettore incontra in una fase precedente della vita, a diciannove anni, appena iscritto a Scienze Politiche. 



Colpito da una notizia improvvisa e devastante, la malattia incurabile dell’amata nonna, Amoresano viene catapultato in un mondo estraneo, prigioniero di una vita che non gli assomiglia più: l’imminente perdita del suo principale punto di riferimento trasforma le sue giornate in un claustrofobico conto alla rovescia, segnalato graficamente dall’ordine decrescente nella numerazione dei capitoli. 

Il romanzo non è il prequel di Napoli mon amour, o forse sì, o forse non importa. Quel che importa è che Forgione torna a disegnare il mondo interiore e lo smarrimento di Amoresano con parole precise e affilate, tra i frammenti di passato e presente che si inseguono per tutto il libro. 

Il contrasto dell’oggi con la dolcezza dei ricordi è stridente: è Chiccù (il nomignolo con cui lo chiamava sua nonna) che Amoresano rincorre, verso quei giorni in cui tutto sembrava facile e bello e leggero e colorato. Un’infanzia affollata, felice, vissuta tra una nonna dolce e comprensiva e un nonno burbero solo per finta, “che non ha mai una parola buona per nessuno, costretto a venire per tutta la vita frainteso”, tra esilaranti siparietti e litigi che seguono un copione preciso e mai conoscono la vera aggressività. 

Il nostro meglio è un romanzo sulla nostalgia, scritto nel momento più doloroso di tutti, nel quale quello per cui si prova nostalgia non è ancora finito, ma è sul punto di farlo.

Nella prima parte lo shock della notizia tiene al guinzaglio la disperazione, che rimane latente, fuoco che cova sotto la cenere, e contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, il limbo di birre, canne, concerti e amori sfiorati che costituiscono i vent’anni di Amoresano. 

Come sospesa rimane Napoli, tra Soccavo e i viali alberati di Bagnoli (il quartiere dei nonni), a bordo dei treni che portano alle strade strette e rumorose del centro storico oppure con gli occhi rivolti verso un mare nero, notturno e sempre mosso, che non fa sconti a nessuno. Ne Il nostro meglio, come nei precedenti romanzi di Forgione, Napoli si svincola da goliardia e luoghi comuni e viene piuttosto mostrata attraverso rapide pennellate impressioniste: sono le emozioni e i pensieri di Amoresano a dare forma alla città, non il contrario. Napoli è come Amoresano, è Amoresano, un’anima “stanca, che ancora si muove e procede, verso dove non si sa, ma procede”.

Il caos che abita il protagonista però raramente si trasforma in azioni concrete, il suo monologo interiore solo a volte riesce a trovare un interlocutore esterno: due ragazze, Maria Rosaria e Anna, speculari eppure lontanissime per stile di vita e classe sociale, a cui non è facile avvicinarsi perché “a volte si desidera così tanto che è difficile anche solo incominciare”; oppure un amico, Angelo, che “fondamentalmente non capisce un cazzo”, e che per questo un po’ è invidiato e un po’ è compatito, in previsione del giorno in cui verrà colpito da tutto e tutto insieme. Oppure forse, chissà, Angelo ha capito più del protagonista, ma di questo non si può essere sicuri, perché per Amoresano comunicare è sempre più difficile. Come si fa a comunicare, se l’unica persona con cui era possibile farlo senza problemi è anche quella a cui ci si deve preparare a dire addio?

E poi, man mano che la cosa temuta si avvicina, il racconto si fa più angoscioso, intenso, doloroso. Quello che resta, oltre allo struggente omaggio alla donna che lo ha cresciuto, è la lotta di un ragazzo contro il tempo, contro la conclusione inevitabile a cui si oppone con l’unica arma disponibile: “mangiare il gelato più lentamente”, per dirla con le sue parole, e quindi provare a trattenere il tempo per la maglia, strattonarlo fino a modificare il preordinato andamento degli eventi. La sola strategia possibile per chi è “costretto a giocare sapendo già il risultato”. 


Ma al presente non c’è modo di scappare, e allora forse davvero non resta niente, come ripetuto in un punto cruciale del romanzo. Niente se non, forse, provare a ricordare immagini e sensazioni che ci legano ai posti e alle persone che abbiamo amato, e farle durare per sempre scrivendone, pur consapevoli della natura limitata e parziale dei ricordi. È questo che Amoresano può fare, è questo il suo, il nostro meglio: perché in fondo dopo il Capitolo Zero, l’ultimo, se si ha la forza di girare qualche pagina bianca si può ricominciare dal capitolo numero Uno.

Roberto Oliva

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