2 dicembre 2021

Giovanni Fattori, un artista senza macchia



Il Fattori fu tra i primi a darsi alla ricerca del tono, per impadronirsi della macchia ma solo di quel tanto che gli importava, poiché non si ordinò precisamente sulle basi tecniche assolute della forma-colore, in quanto nelle sue opere il disegno traccia i contorni e innerva sempre atteggiamenti suggestivi.
Mario Borgiotti, critico

Giovanni Fattori, nato a Livorno il 06 settembre 1825, in una famiglia di modeste condizioni economiche, venne definito dalla critica malevola del suo tempo un ingegno incolto per la totale assenza, all’interno della sua pittura, di teorie estetiche, filosofie o intellettualismi di sorta, ma non se ne preoccupò affatto anzi, con estremo candore, disse spesso di sé (rincarando la dose): “Io per conto mio, tolto il sapere scrivere un pochino, ero perfettamente ignorante e mi sono, grazie a Dio, conservato…” 

Un “modesto” ignorante, si potrebbe aggiungere, non scevro però da una certa graffiante ironia, tipicamente toscana, e in possesso, comunque, di un più che dignitoso curriculum. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1852, sotto la guida del celebrato Giuseppe Bezzuoli, pittore della buona società fiorentina, che lo accolse benevolmente nella ristretta ed esclusiva cerchia dei suoi allievi prediletti. Lo si potrebbe definire, con un pizzico di ironia, “uomo senza lettere” di leonardesca memoria, che più tardi verrà battezzato (dalla stessa critica oltraggiosa), unitamente al gruppo dei suoi colleghi pittori di Piagentina e di Castiglioncello, con il titolo di “macchiaiolo” senza peraltro suscitare il suo incondizionato gradimento, essendo il Fattori più interessato a un verismo sociale e radicale, cioè ad esprimere nei suoi quadri uno status e un aspetto psicologico pregnante della realtà, che alle teorie della macchia.



Prima di iniziare a dipingere era aduso infatti osservare e studiare attentamente il soggetto, analizzarne il carattere, contestualizzandone il ruolo e la funzione, un’attitudine tipicamente verista che si esprimeva nella costruzione solida delle forme (attraverso il disegno) in cui è manifesta un’energia scultoria, e l’avversione ai contrasti violenti del chiaroscuro, a vantaggio di tonalità più tenui e contenute “Quando all’arte si leva il verismo, che resta? Badi il verismo porta lo studio accurato della società presente – il verismo mostra le piaghe da cui è afflitta – il verismo manderà alla posterità i nostri costumi…”. Uomo di spessore morale e di ideali mazziniani per tutta la vita, giunto a Firenze all’età di vent’anni ne rimase fortemente colpito: “Firenze mi ubriacò; vidi molti artisti, ma nulla capiva mi parevano tutti bravi e mi avvilii tanto che mi spaventava il pensiero di dover cominciare a studiare”. Frequentò il caffè Michelangelo in via Larga, oggi via Cavour, insieme ai suoi compagni di studi accademici (tutti giovani di modesta estrazione sociale) animati da vivi sentimenti democratici e fra loro estremamente solidali. In quel contesto Giovanni maturò un carattere ribelle e sanguigno, guadagnandosi la fama di sovversivo, come testimoniò il pittore macchiaiolo Telemaco Signorini, suo amico fraterno e compagno di zingarate.


I moti del 1846 che, con l’ascesa di Pio IX al soglio pontificio, innescarono nella popolazione studentesca fiorentina fermenti nazionalisti e rivoluzionari – a cui il giovane Fattori non restò insensibile – lo videro coinvolto, come fattorino, nel partito d’azione a distribuire, pieno d’ardore e d’incoscienza, volantini incendiari. La tumultuosa epopea Risorgimentale lasciò in lui un’impronta profonda di esaltazione e di cocente delusione nonché uno spirito bohémien che lo indusse a maturare un temperamento tenace e una coscienza politica favorevole al proletariato, pervasa da una forte idiosincrasia per quella abominevole aristocrazia di casta, costituita dalla ricca società fiorentina, con cui nella maturità dovette, suo malgrado, confrontarsi benevolmente, per accrescere la sua fama e i suoi guadagni “Gli rimase l’amore per il Risorgimento, per la gloriosa avventura che avrebbe dovuto fare l’Italia non solamente libera e unita, ma anche lieta e nobile…Certo, l’illusione del Risorgimento e la delusione che ne seguì”.. (Luciano Bianciardi). Gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta furono caratterizzati da un periodo di vita spensierata e festaiola, allietata anche dall’intima amicizia con Settimia Vannucci, sua fedele compagna e futura sposa. Erano i tempi in cui, insieme agli amici e colleghi pittori Raffaello Sernesi, Odoardo Borrani, Vincenzo Cabianca, Giuseppe Abbati, Silvestro Lega, Telemaco Signorini si concedeva talvolta una bella scampagnata nella zona di Piagentina, tra il fiume Arno e il torrente dell’Affrico, nei pressi della collina di Fiesole, all’epoca coperta da ampie distese di prati verdi, da immensi campi coltivati, con le piccole, sparute case dei contadini e pescatori poste in prossimità della riva del fiume, dove il gruppo dipingeva all’aperto, en plein air, assaporando un senso di assoluta e rinfrancante libertà, in perfetta sintonia con la spiritualità dei pittori francesi della scuola di Barbizon, assiepati nella foresta di Fontainebleau o degli impressionisti del gruppo delle Batignolles, emigrati a Trouville-sur-mer o sull’estuario della Senna, alla febbrile ricerca dell’attimo fuggente. Talvolta, con gli amici pittori si concedeva una meritata pausa ristoratrice per scherzare un po’(“ruzzare” in dialetto toscano) e rifocillarsi nella vicina trattoria del Gobbo di Bellaria, posta accanto alla villa La Casaccia, la cui specialità era la frittura di pesce, di cui andava ghiotto.


A Piagentina ebbe i primi approcci con la tecnica della macchia, continuando comunque a coltivare con passione il soggetto storico-militare, a cui rimarrà legato tutta la vita, spinto da una sorta di impulso patriottico e grazie al quale potrà beneficiare dei suoi primi successi, rinfrancandosi un po’ dalle difficoltà economiche da cui fu perennemente afflitto. Del 1859 è il piccolo capolavoro dal titolo: Soldati francesi del generale Lamoricière.


Un olio su tavola in cui sono presenti i primi timidi caratteri macchiaioli nelle campiture e nei guizzanti tocchi di colore puro (che definiscono le figure dei soldati) condotti da pennellate brevi e rotte nelle luci e nelle ombre. Nel felice ritratto della cugina Argia del 1861, un olio su cartone, conservato presso la Galleria d’Arte Moderna di Firenze.


L’artista dichiara implicitamente la sua forza espressiva attraverso l’indagine psicologica insita nello sguardo fiero e autorevole della donna, circonfusa dall’atmosfera calda e avvolgente del colore che illumina la parete retrostante. Sarà una delle sue più significativa opere nell’ambito della ritrattistica, che indurrà la critica generica a definirlo “…essenzialmente un pittore di ritratti, capace di vedere tutta la natura in misura umana e appunto ritratta”[sic].

Il decennio 1860/1870 rappresentò la fase più feconda e gratificante nella sua pittura in cui Fattori maturò gli strumenti espressivi e la visione stilistica che rappresenteranno il viatico della produzione degli anni successivi. Nel 1862 vinse il concorso ‘Ricasoli’ con l’opera Campo italiano alla battaglia di Magenta.


Olio su tela di grandi dimensioni, che rappresenta un episodio cruciale della seconda guerra d’indipendenza, e nel 1866 venne nuovamente premiato per l’opera Assalto alla Madonna della Scoperta, un altro quadro celebrativo di notevole suggestione, che lo consacrò fra i più autorevoli pittori del genere militare contemporaneo. Il 1867 fu, per il Fattori, un anno tragico e benedetto, funestato dalla prematura scomparsa dell’amatissima moglie Settimia, consunta dalla tubercolosi (Fattori si risposerà altre due volte, con Marianna Bigazzi nel 1891 e con Fanny Marinelli nel 1907, rimanendo vedovo di entrambe). In quel triste periodo della sua vita venne confortato dall’amicizia e dalla stima del critico e intellettuale fiorentino Diego Martelli, pigmalione del vivace cenacolo artistico che darà l’impulso al gruppo dei pittori macchiaioli, il quale lo vorrà ospite nella sua immensa proprietà di Castiglioncello; ottocento ettari, tra la costa e l’entroterra, situati sul golfo, a sud di Livorno, dove il pittore soggiornerà a più riprese a partire dal mese di luglio del 1867.

La Maremma rappresentò il locus amoenus della sua maturità artistica; di quella terra selvaggia, rude, silenziosa e deserta, febbricitante di emozioni semplici e intense, colse tutta la spontanea poesia e la forza vitale, riuscendo ad infondere nella sua ricerca stilistica una corrente calda e ristoratrice, miracolosamente generata da quello spazio infinito e senza tempo. Nella Maremma si specchiò e si riconobbe; quella regione aspra e forte, così vergine e così verace, lo soggiogò e gli rubò l’anima, in quanto perfettamente confacente al suo temperamento forte, virile e a tratti inquieto. Fatalmente, con estrema naturalezza, egli divenne il pittore dei semplici, degli umili e dei diseredati: i butteri a cavallo, i bifolchi dolenti sui loro barrocci, i carbonai dalla vita stentata e agra, i rappezzatori di reti, i soldati senza riposo, le tumultuose mandrie di bovini al pascolo, i bovi aggiogati all’aratro, i baliosi cavalli isolati o in branco, le marine steppose.

E in quella landa desolata, maturò anche un altro amore, quello per il cavallo maremmano; simbolo e icona di quei luoghi incontaminati. Egli amò quell’animale dignitoso e fiero che vagava indomito sotto il vasto orizzonte, e lo dipinse, nella ricchezza del colore e delle forme, come un altèro monarca omaggiato dalla lirica bellezza del paesaggio. “Il suo animo si volse sempre più allo studio e alla rappresentazione della sofferenza umile” (Luciano Bianciardi): per la sua attenzione verso i reietti, gli infelici e la durezza della vita reale, venne definito storico della libera gente. Fattori, attraverso il “realismo dei semplici” riusciva ad esprimere, con grande intensità emotiva, la fatica del lavoro dei campi, il logorio quotidiano, gli stenti di quei faticatori analfabeti (fossero essi contadini, butteri o soldati) e dei loro dolenti animali, accomunati dal medesimo destino di sofferenza, suggellato dall’abbraccio venefico di una natura tutt’altro che generosa e idillica; tali opere possono essere considerate tra le più nobili della sua produzione. In molte di esse è presente un certo lirismo alla Millet, il cantore del mondo rurale d’oltralpe, che nei suoi quadri descrisse la miseria e la durezza quasi mistica delle campagne francesi.


La critica, purtroppo, non fu mai molto benevola con il Fattori, mal comprendendo la sua indagine psicologica e la sua febbrile ricerca, in quei modelli rurali e semplici, di un valore sociale e culturale assoluto, tacciandolo inoltre di discontinuità stilistica e vaghezza compositiva. Definendo la sua arte, al colmo dell’assurdo, priva di gusto e di poesia, in quanto racchiusa tra cipolle, cavoli, rape, ciuchi e villan-cornuti, tanto che egli, negli ultimi anni, nonostante una vita artistica operosa e appassionata, manifestò amarezza e austero pessimismo, lasciandone una significativa testimonianza nei suo scritti: “…illustrare anche la vita sociale nelle sue manifestazioni le più tristi: ciò mi ha fruttato che i miei quadri non sono mai andati a genio né ai negozianti né agli amatori, i quali amano soggetti sensuali e volgari”.

Per conoscere meglio questo meraviglioso testimone della pittura italiana dell’Ottocento e averne un quadro completo ed esaustivo, la Galleria d’Arte Moderna di Torino (G.A.M.) presenta, sino al 20 marzo 2022, una retrospettiva dal titolo: Fattori capolavori e aperture sul ‘900.
Inoltre presso la Fondazione Asti Musei di Palazzo Mazzetti ad Asti, dal 19 novembre di quest’anno si terrà la mostra: I macchiaioli, l’avventura dell’arte moderna, visitabile fino al primo di maggio del 2022.

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