Se vuoi sapere tutto di Warhol non hai che da guardare la superficie dei miei quadri, dei miei film, di me stesso. Io sono lì. Dietro non c’è niente.
Sono parole di Andy Warhol, pronunciate nel corso di un’intervista rilasciata al critico d’arte e filosofo Gillo Dorfles, parole inquietanti come le famose muse di De Chirico, nelle quali Warhol trovava un’ideale corrispondenza con il proprio carattere. Ed è probabile che dietro questa affermazione si nascondesse la “veritàˮ della sua arte (sulla quale si sono sempre addensate nubi e contraddizioni). Una verità affidata ad un codice segreto che racchiude la summa di tutti gli espedienti di cui l’artista si serviva per apparire originale e trasgressivo, pur dissimulandone il significato nella naturale ambiguità dello stile e nella reticenza dei suoi atteggiamenti.
Le sedie elettriche, le immagini di Jacqueline Kennedy in abito vedovile, i barattoli di Campbell’s, i famosi Car-Crash, i ritratti di numerosi personaggi à la page, le rivisitazioni di opere antiche, offrono un’immagine spersonalizzata, svuotata di ogni psicologia, di ogni poetica, segnalano simboli che non hanno rapporti diretti con la cultura, sono oggetti e basta. Nella ripetizione metodica ed instancabile egli costruiva il suo labirinto, con l’unico scopo di confondere, di creare interdizione e disagio, impedendo ogni possibile riferimento con la storia.
Ciascuno costruisce il proprio labirinto nella misura in cui comincia a dirlo, a percorrerlo, a esperirlo. Il labirinto è infatti una grammatica che concatena, secondo specifiche regole, le parole, ossia i cammini che da un incrocio portano al successivo.
Nelle opere di Warhol non c’è astrazione, l’artista infatti era coscientemente vicino alla realtà delle cose, attraverso una indiscriminata ricerca estetizzante, in continuo accumulo, tanto da compromettere seriamente la coerenza della funzione dell’arte. In questo senso il suo labirinto si sviluppava in un’ottica sintetista, con il rifiuto di ogni profondità, escludendo la ricerca e l’analisi. La sua complessità comunque, pur concretizzandosi in superficie, è talmente inestricabile da costituire un nodo gordiano. Nell’attuazione di questo procedimento completamente asettico, neutro, privo di emozioni e sentimento, cinicamente impostato sulla filosofia del consumo, Warhol astutamente ed esclusivamente usava l’intelligenza. Un’intelligenza matematica, che non si armonizza con la passionalità dell’arte e che per la cultura occidentale costituisce un mistero. Il pragmatismo artistico di Warhol era necessariamente limitato alla realtà contingente, in quanto restringeva il dominio conoscitivo identificandolo con quello esperienziale. Egli non esprimeva ma fotografava, sacrificando l’immaginazione alla liturgia del quotidiano. Un uomo straordinariamente ingegnoso ma notevolmente sprovvisto di facoltà analitiche. E’ opportuno precisare che il fenomeno, allo stato embrionale, era già presente nella scuola di New York, alla quale va riconosciuto il privilegio di aver individuato le tematiche sociali del mondo contemporaneo, successivamente ampliate dalla Pop Art. A queste correnti spetta il merito dell’identificazione della simbologia pubblicitaria come nuova fonte d’ispirazione, come contenitore di creatività; la gestione dei nuovi mezzi espressivi ne ha evidenziato il carattere utilitaristico e commerciale, attraverso l’equazione metafisica tra espressione e contenuto. Osservava infatti Maurizio Calvesi:
La Pop Art interrompe bruscamente il corso separato dell’avanguardia, aderisce sostanzialmente al non valore della società di massa, elabora valori puramente estetici, sottoponendo ad un processo di qualificazione creativa i nuovi media.
Infatti all’interno di una indubbia capacità di sintesi la Pop Art ha completamente dimenticato il concetto primario dell’arte, cioè l’analisi (ed è questa una vera e propria negazione ideologica della creatività soggettiva). Il fenomeno, forzatamente limitato alla superficie, ha trascurato l’aspetto storico e culturale che costituisce il supporto genetico dell’opera d’arte. Si è trattato principalmente di un intervento di razionalizzazione esasperata che ha privilegiato la grammatica della trasgressione e la poetica del clamoroso, le quali autonomamente si sterilizzano, incapaci di inquadrarsi in una dimensione artistica assoluta. “C’è in effetti – dichiara ancora Calvesi – un diverso modo di fare arte oggi: arte, ancora, che si impegna nella durata, e arte consapevole (o inconsciamente paga) del proprio corso effimeroˮ.
Andy Warhol è stato il pontefice massimo della nouvelle vague inaugurata dalla Pop Art, alla quale aderirono rapidamente molti artisti americani. Su tutti, l’eminenza grigia Warhol estese la sua ombra perenne, come una “statua silenziosaˮ appunto, alla quale nulla sfugge, che osserva imperturbabile l’avvicendarsi e il concatenarsi delle umane passioni. L’artista, con sublime distacco (che ne dichiara l’eccessiva superbia o l’esagerata timidezza), si isolava all’interno di una sfera di cristallo, secondo un paradigma esoterico, rifiutando ogni intimità: “Non voglio trovarmi coinvolto nelle vite degli altri. Non mi piace toccare le coseˮ. Quanto tale atteggiamento mistico-trascendente corrispondesse alla sua personalità non ci è consentito saperlo, il fatto certo è che dalle sue memorie (che fecero tremare più di un mito della Jet society newyorchese) traspare un occhio un po’ malvagio, per nulla strumentalizzato da quella casta di fatue presenze magniloquenti. Si direbbe che nelle loro vite egli avesse trovato un facile modulo d’ispirazione, perfettamente consono alla sua arte, in quanto sotto l’apparente decoro di quelle personalità si annidava il vuoto, dissimulato dal culto parossistico dell’immagine. Taumaturgo, rivoluzionario o santo? Sicuramente un silenzioso ma caparbio detrattore della imperfettamente perfetta società del consumo, impegnato ad annotarne, nella solitudine della sua camera, i minimi particolari, anche i più scabrosi, in una sorta di compiacimento onanista. Così era Warhol, “ambiguoˮ fisicamente e moralmente, un abile manipolatore capace di creare, con alchemica tenacia, una filosofia artistica nuova, esclusiva, contraddittoria e sorprendente ma assolutamente svincolata da ogni profondità di pensiero. Truman Capote, con perspicacia, lo definì: “un genio nel fare pubblicità a se stessoˮ.
Warhol aveva ereditato il culto dell’immagine da quella società di mecenati che lo adorava, considerandolo un fedele pittore di corte (e che egli in cuor suo ricambiava col disprezzo). Il ferino protagonismo lo spingeva ad essere onnipresente, memorabili le apparizioni in importanti serial televisivi, nei programmi dei grandi network, ai party più mondani e trasgressivi, sempre con la sua bianca parrucca silver, che nel 2013 venne venduta all’asta dagli eredi per più di diecimila dollari. Presenzialista oltre misura, non perdeva occasione per celebrare il proprio mito, per rendere omaggio al culto profano della “warholmaniaˮ. Pochi giorni prima della sua morte, avvenuta il 21 febbraio 1987, l’artista aveva presenziato al vernissage della mostra milanese sull’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, il titolo dell’opera (inopportunamente rivisitata) si rivelava profetico; Warhol, come un Cristo post-moderno, sembrava presagire la fine imminente. Appartato, immobile, sofferente e stereotipato come le sue opere, a Gillo Dorfles sembrò “il feticcio di se stessoˮ un semidio che scivolato inopinatamente dall’Olimpo si era fatto uomo, manifestando tutta l’angoscia, la paura, la disperazione di un essere fragile e indifeso. Alle pareti l’ultimo ambizioso progetto (definito unanimemente dalla critica un fallimento) a dichiarare, con crudele ironia, l’esaurimento del filone, la fine di un’epopea, la rarefazione del personaggio. Se la sua scomparsa ha lasciato una profonda ferita nella cultura americana, abituata a identificarsi spiritualmente in Warhol – il primo grande artista capace di interpretarne l’anima spettacolare e sensazionalistica, riuscendo ad imporla come modello anche all’Europa tradizionalmente ortodossa e borghese – le polemiche sono state molteplici e multiformi, tanto da dividere equamente su due opposti fronti aficionados e detrattori.
All’epoca della sua morte, tra i personaggi noti, coinvolti in questa scorribanda critica post mortem, il pittore Mario Schifano ne esaltò l’innocenza, il critico Achille Bonito Oliva ipotizzando la “classicitàˮ della sua arte scrisse, un po’ paradossalmente: “Nel secolo Novecento ha avuto lo stesso ruolo di Raffaello per il Rinascimento Romanoˮ anche se in verità non è sufficiente la formula della “Factoryˮ – una sorta di bottega neorinascimentale realizzata da Warhol a New York con il coinvolgimento di allievi e collaboratori – a decretarne la grandezza e l’immortalità. Il critico e autore televisivo Enrico Ghezzi più prosaicamente affermò che “era un filosofo oppure un genio dell’orroreˮ mentre la storica dell’arte Marisa Volpi Orlandini perentoriamente lo definì “…un artista sopravvalutato, soprattutto economicamenteˮ e a rincarare la dose ci pensò l’artista concettuale Giulio Paolini precisando, con pacato cinismo: “Certo è che riguardo all’influenza che la sua opera abbia avuto o possa avere sugli artisti europei, la risposta è sintetica e immediata: nessuna!ˮ. In ogni caso, già dopo alcuni anni dalla morte molti “innamorati inconsolabili” hanno intiepidito il loro fervore, rivedendo le posizioni dichiaratamente radicali di cui si erano fatti paladini. Primo fra tutti Leo Castelli, uno dei più importanti galleristi al mondo, un tempo definito il gallerista per antonomasia (collezionista ed estimatore compulsivo di Warhol, insieme all’altrettanto nota, ex consorte, Ileana Sonnabend) il quale aveva manifestato, nei giorni immediatamente successivi al triste evento, una eccessiva, esaltata quanto inutile ostentazione d’affetto, acquistando su alcuni quotidiani newyorkesi (a suon di migliaia di dollari) un grande spazio pubblicitario, facendovi stampare la frase: “Vorremmo che tu fossi ancora con noi, Andy. Ci manchi molto”. Probabilmente l’ennesimo e definitivo battage pubblicitario. Si sa che il denaro non ha morale né pudore (pecunia non olet) e non si arresta neppure davanti alla morte. Il sospetto trova riscontro nelle successive affermazioni di Leo Castelli, in cui è evidente tutta la sua tragica ambiguità: “Non so se sia stato il più grande artista americano, forse no. Prima di lui e con lui ci sono stati Pollock, Rauschemberg, Lichtenstein, ma so che Andy non si può giudicare come si giudicano gli altri artistiˮ.
Se volete sapere tutto di Warhol, è in corso, da alcuni giorni, a Genova presso i Magazzini del Cotone la mostra Andy Icona Pop, prodotta da Navigare, con il patrocinio della Regione Liguria, rimarrà aperta sino al 27 marzo 2022
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