La vanità mi spinse verso l'amore; no, verso la voluttà; neppure, verso la carne.
(Gustave Flaubert, Memorie di un pazzo)
Si dice che la fortuna aiuti gli audaci e che la passione per le donne e il denaro li guidi verso il consenso sociale e il successo. Il che ci induce a ritenere quanto sia utile, nella vita, fare di necessità virtù, magari tradendo un poco il proprio talento, come fece Giovanni Boldini; piccolo uomo, grande ambizioso, notevole artista e instancabile amatore; innamorato della gloria (non per nulla una donna) e del denaro. Uomo camaleontico, tombeur de femmes nonostante il fisico, sfacciato adulatore del beau monde parigino, impenitente viveur tra eleganti salotti e belle donne. Fascinoso pittore di fama internazionale, spesso troppo indulgente verso l’aristocrazia del denaro, senz’altro: “nato sotto una buona stella”.
“Nato sotto una buona stella” come sostenne l’artista macchiaiolo e intellettuale Serafino De Tivoli (conosciuto come il papà della macchia) il Boldini venne esonerato dal servizio di leva obbligatorio in quanto, essendo alto solo metri 1,54, non raggiungeva l’altezza minima prevista dal regolamento del neonato esercito italiano (che era di metri 1,55), evitando così di interrompere l’attività artistica, a cui si stava ormai dedicando con impegno costante. Nello stesso periodo, inoltre, ereditò una cospicua fortuna in seguito alla morte dello zio paterno, Luigi, che, non avendo eredi diretti, lasciò il suo patrimonio ai fortunati nipoti. Tale evento rappresentò, per il giovane, una straordinaria opportunità, che gli consentì di abbandonare l’ambiente chiuso e poco stimolante di Ferrara, gravato da un soffocante provincialismo, per trasferirsi a Firenze.
Nonostante le sue origini piccolo borghesi, Giovanni nutrì, già in gioventù, un’attrazione fatale per l’eleganza e la vita signorile del bel mondo aristocratico e a Firenze ebbe modo di assecondare la sua indole, tendenzialmente raffinata e un po’ altera, tanto da essere soprannominato dai colleghi e dai conoscenti “Re Luì” per il portamento e l’andatura impettita, che gli conferivano, nonostante l’altezza, una certa imponenza.
Diego Martelli |
La città toscana fu assai stimolante, sia sotto l’aspetto artistico sia sotto quello sociale e mondano; poco dopo il suo arrivo si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti ma l’abbandonò presto per frequentare la più esaltante e scanzonata “scuola” del caffè Michelangelo, celebre ritrovo di artisti, patrioti e intellettuali di tutta Europa, luogo di accesi dibattiti e avventurose istanze, dove ebbe i natali il gruppo dei pittori Macchiaioli con i quali il giovane Boldini avrebbe coltivato profonde amicizie (animate da vivaci e debordanti discussioni) e alimentato la sua inquietudine creativa. Ma è noto, alle cronache mondane, che egli preferì frequentare il più elegante e raffinato caffè Doney (il salotto di Firenze), detto anche caffè delle colonne per la presenza, all’interno dei suoi ariosi ambienti, di quattro monumentali colonne. Si trattava di una sala da thè con pasticceria fondata, nella prima metà dell’Ottocento, dal nobile Gasparo Doney ex ufficiale francese dell’armata napoleonica, esule a Firenze dopo il crollo dell’impero di Napoleone I Bonaparte. Il locale, inaugurato in via dei Legnaiuoli (poi via Tornabuoni) presso il palazzo Altoviti Sangalletti, era l’apprezzato ritrovo del beau monde fiorentino e in particolare della facoltosa comunità inglese, trovandosi a poca distanza dal consolato britannico (sul Lungarno Corsini). Qui l’ambizioso Boldini ebbe modo di intrattenere proficui rapporti con vari e autorevoli personaggi, come Michele Gordigiani (all’epoca il più apprezzato ritrattista fiorentino), Telemaco Signorini, il pittoresco Marcellin Desboutin, Cristiano Banti, Diego Martelli, pigmalione e anima intellettuale del gruppo della macchia che lo ospitò, in più occasioni, nella sua vasta tenuta di Castiglioncello, e soprattutto con i ricchi stranieri residenti a Firenze, che spesso lo accolsero nelle loro sontuose ville; tra questi gentiluomini il duca di Sutherland, il principe russo Antonio Demidoff, il signor Cornwallis-West, i coniugi Falconer, sir Walter e lady Isabella, con la quale l’intraprendente Boldini intrattenne un’ardente e appassionata storia d’amore, senza peraltro che il distratto coniuge se ne avvedesse, riuscendo anzi a mantenere, anche con lui, una solida e durevole amicizia, tanto che nel 1867 l’ignaro sir Walter gli chiese di accompagnarlo a visitare l’Esposizione Universale di Parigi. L’amabile fedifraga lady Isabella (una sorta di lady Chatterley ante litteram) divenne la munifica mecenate del giovane artista e insieme ebbero modo di trascorrere, in più occasioni, dei caldi soggiorni sulla Costa Azzurra, lontani da occhi indiscreti e al riparo dalle insidiose malelingue. Ed è proprio durante uno di questi magici soggiorni (nel 1869) che Boldini realizzò uno di suoi capolavori: Il ritratto del generale Esteban de Seravalle de Assereto, conosciuto come il generale spagnolo, un olio su tela di cm. 61 x 48 (oggi in collezione privata).
Un’opera intensa e coinvolgente (che consacra il Boldini tra i grandi ritrattisti dell’Ottocento) in cui la pregnante personalità dell’effigiato si manifesta nello sguardo severo, posato e implacabile, pervaso da una aristocratica fierezza e dal sentimento del proprio status di privilegio sociale che ne traspare. Nel quadro, il nobile generale, emaciato e allampanato, dalle fattezze quasi donchisciottesche, indossa una divisa solenne, ricolma di decorazioni (retaggio di antiche glorie) il cui effetto cromatico, rosso-bianco-oro, si integra perfettamente con l’uniformità compositiva della figura. La chioma scapigliata si accompagna a una folta barba, entrambe di un biondo dorato, che paiono quasi rivendicare un elegante e volontario abbandono, mentre sul viso smunto, su cui alligna una stanchezza atavica, si stagliano due occhi inquisitori che testimoniano, caparbiamente, la calma imperturbabile del condottiero, leader di tante battaglie, ormai lontane e dimenticate. Nella ritrattistica del periodo fiorentino, Boldini manifesterà il suo estro, la sua scioltezza pittorica e il suo impeto creativo, riuscendo a infondere nei volti la sublime inquietudine e l’introspezione dei moti dell’anima. “Lavorava incessantemente, come se dovesse fare il ritratto a una intera generazione” (Enrico Somarè – critico d’arte). Nonostante il lungo soggiorno fiorentino Boldini non si lasciò coinvolgere, oltre una certa misura, dall’esperienza macchiaiola, e non vi aderì, in quanto privo della passione e dell’entusiasmo che animavano i suoi colleghi, preferendo, al naturalismo all’aria aperta della pittura di paesaggio, la ritrattistica; più confacente alla sua indole analitica, nonché foriera di lauti guadagni e notorietà mondane. Tra le opere significative del periodo, i ritratti della contessa Lilia Monti del 1864, di Diego Martelli e di Enea Vendeghini, entrambi del 1865, quello di Mary Donegani del 1869, di Giuseppe Abbati, di Giovanni Fattori, del duca di Sutherland, di Lewis Brown, di Vincenzo Cabianca. Gli anni toscani furono senz’altro i più esaltanti, grazie all’influsso della tradizione culturale quattrocentesca, l’artista riuscì a infondere nelle sue opere forza espressiva e sobrietà stilistica, raggiungendo, nei tratti fisiognomici, armonia, carattere e intensità psicologica.
Ma Boldini era un uomo irrequieto e insoddisfatto e Firenze iniziò ad andargli stretta; gli echi seducenti di Parigi lo avevano già stregato, e, dopo il breve soggiorno del 1867, era consapevole che solo in quella metropoli avrebbe potuto realizzare i suoi sogni di gloria. Prima del suo definitivo trasferimento nella capitale francese, decise comunque di concedersi una parentesi a Londra, accettando l’invito del signor Cornwallis-West, suo estimatore e amico. Nel 1871, per alcuni mesi, soggiornò nella capitale del Regno Unito, giovandosi dell’ospitalità e della protezione del suo mecenate e del duca di Sutherland, ottenendo, anche lì, un notevole successo con una serie di ritratti, di piccolo formato, delle aristocratiche e civettuole signore anglosassoni, avendo cura, per compiacerle, di uniformare il suo stile al loro gusto sciovinista e retrò, ancora legato alla tradizione settecentesca di Thomas Gainsborough, Joshua Reynolds, George Romney. La società londinese, comunque, risultò troppo compassata per il carattere estroso e sanguigno di Boldini; in particolare, la sua indomabile lussuria non veniva sufficientemente appagata dal gentil sesso anglosassone. Ebbe modo di constatare con disappunto che, nel loro ambiente quotidiano, le altolocate signore londinesi non erano disposte ad abbandonarsi a impudiche divagazioni, in quanto troppo condizionate dal puritanesimo della rigida società vittoriana e solamente se lontane da casa potevano concedersi, con passione e voluttà, certi piccolissimi peccati, ma in seno alle loro morigerate famiglie, molto opportunamente, si trasformavano in algenti esempi di purezza e devozione coniugale.
Nel mese di novembre dello stesso anno, con sua grande soddisfazione, raggiunse Parigi, dove si trovò proiettato nel cuore pulsante della Belle Epoque. Stabilitosi al n. 12 di rue Frochot, nel IX arrondissement, il giovane e mondano Boldini, piccolo uomo ma implacabile tombeur de femmes, si inserì con facilità in un ambiente a lui particolarmente congeniale, dove la lussuria e il denaro rappresentavano i fattori imprescindibili di una società in continuo sviluppo, dominata da una cinica borghesia auto referenziata e intransigente, il cui unico scopo esistenziale era quello di accrescere il proprio benessere economico. L’anno successivo iniziò una proficua collaborazione con la maison d’art Adolphe Goupil e, su specifica richiesta del mercante, realizzò numerosi quadri, o meglio, banali cartoline illustrate, citazioni settecentesche di paesaggi e vedute cittadine, assai apprezzate e ben pagate dai ricchi e ottusi parvenu borghesi. Si trattava di opere leziose e manierate di stampo rococò “Dame, damine e nobili signori imparruccati di nuovo, si perdono negli ozi, in mezzo a una natura spumeggiante” (Alessandra Borgogelli), che rappresentavano l’esaltazione del cattivo gusto. Il cambiamento del suo stile fu radicale, tanto da suscitare lo sdegno dei colleghi italiani; nel 1878 l’amico Diego Martelli scriverà: “Boldini piscia quadri ridendo, come un giocatore di bussolotti fa sparire le palline sotto i bussolotti”, una vera degenerazione, motivata da ragioni squisitamente economiche. Anche la rivista parigina La Presse in un articolo del 1876, associandosi alle critiche più severe riporterà una locuzione poco lusinghiera e molto esplicita sui paesaggi realizzati dall’artista: “Un fare falso”. In un ambito così artificioso come quello offerto dalla scuderia del mercante Goupil era giustificabile la scelta commerciale, orientata verso una clientela frivola e asfittica ma danarosa, meno giustificabile l’adesione opportunistica di Boldini a quel tipo di pittura prosastica.
Ma nella sua scalata verso il successo la collaborazione con il mercante Goupil rappresentò soltanto una necessaria parentesi, e nel 1878 se ne affrancò definitivamente. Boldini, in cuor suo, anelava all’indipendenza e rivendicava la sua libertà creativa. Attratto dagli ambienti più esclusivi, riuscì a stabilire un rapporto diretto con la committenza aristocratica che lo accolse nei rinomati salotti parigini, in cui l’accesso era riservato ai pochi eletti e precluso ai comuni mortali. In quegli ovattati e lussuosi ambienti, meravigliose ninfe cittadine svolazzavano, esibendo con gioia, le loro grazie, vellicate da ricchissime toilettes. Egli, da buon tessitore, riuscì a ottenere i favori delle signore più eminenti della capitale, in particolare della contessa Gabrielle de Rasty, di cui divenne l’appassionato amante, acquisendo così l’invidiabile ruolo di indiscusso pittore/cantore delle “Belles dames sans merci”. A quelle egèrie d’accatto, che rappresenteranno il soggetto privilegiato dei suoi ritratti, dedicò un’attenzione salottiera e modaiola, finalizzata a soddisfare la loro smodata vanità. Sciocche e voluttuose madame Bovary, i cui volti imbellettati riproducevano uno stereotipo, assomigliandosi, inevitabilmente, come tante figurine, tratte dalle riviste dell’alta moda femminile, dove gli abiti, vaporosi e suggestivi, erano, di fatto, i reali e indiscussi protagonisti dei quadri, che, per una sorta di magico riscatto, maliziosamente parevano sussurrare: “sotto il vestito niente”. Lady Colin Campbell, la contessa di Leusse, madame Charles Max, madame Veil-Picard, la contessa Zichy, miss Bell, madame Marthe Réigner, mademoiselle Lanthelme, mademoiselle de Gillespie, madame Doyen, la marchesa Luisa Casati, madame Lydig, una sfilata di belle senz’anima celebrate dal Boldini, a cui riservava un’attrazione famelica, per i loro corpi sensuali e i visi angelici ed eterei ma privi di psicologia; un insieme di semplici immagini celebrative, atte a soddisfare il narcisismo delle illustri modelle di turno. In questi lavori standardizzati il suo smalto creativo si annacqua, stemperandosi in un eccesso di decorativismo seduttivo, in cui le sue donne, prive di carattere, sembrano dire a chi le osserva: “Guarda che bel vestito, che bei seni, che belle gambe ho” (Mario Borgiotti). Boldini prostituisce il proprio talento diventando l’illustratore della Belle Epoque, passando voluttuosamente dalle stucchevoli cartoline di paesaggio e dalle vedute delle piazze cittadine, tanto care al signor Goupil, alla ritrattistica più anonima e dozzinale.
Le belle signore erano infatuate dalla sua vocazione alla mondanità e se lo contendevano, suscitando il suo compiacimento, e alimentando la consapevolezza di poter frequentare i salotti più esclusivi della Ville Lumière, riuscendo così a soddisfare la sua virile sensualità nel blandire quelle ricche e annoiate muse, debordanti di uno charme artificioso, che l’artista definiva (dannunzianamente) divine. Egli, godendo dei loro favori e delle amorevoli ed esclusive attenzioni, continuava a incrementare il suo sempre più florido patrimonio e nonostante il fisico non esaltante, celebrava il suo successo grazie a queste femmine decadenti, che adoravano essere adulate, lusingate, viziate dal principe dell’ipocrisia, che dispensava, con dovizia, la sua magmatica bramosia, pittoricamente evidente nell’esuberanza materica del colore, nella pennellata nervosa e sferzante, nella forma ritmica delle sue figure in continuo movimento, caratteristiche che verranno sinteticamente riassunte nella definizione critica di movimentismo boldiniano. “Si lasciò condurre nella grotta degli Elfi, per assoggettarsi alla donna dagli occhi selvaggi figlia di una Fata”.
Fino al 13 marzo 2022, presso il Palazzo Albergati di Bologna è possibile visitare la mostra: Giovanni Boldini – lo sguardo dell’anima in cui sono esposte novanta opere dell’artista ferrarese.
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