Nel panorama verista della Sicilia di Verga, dal buio e avito ansimare della cava di rena, Rosso Malpelo, figlio di una terra intrisa di povertà e superstizioni, è stretto nella morsa di un’esistenza dominata dalla lotta per la sopravvivenza, nato per lo spasso di un destino meschino che lo ha fatto Malpelo. Ma - scopriremo leggendo - non è l’unico vinto della novella verghiana. Non c’è spazio per i deboli, né per le emozioni. La legge del più forte e l’urgenza del bisogno sono le sole realtà possibili.
La mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile,
e il romanzo avrà l'impronta dell'avvenimento reale,
e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé,
aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale,
senza serbare alcun punto di contatto col suo autore.
C’è un ragazzino nei meandri oscuri e sinistri di un celeberrimo angolo di letteratura: ha gli occhiacci grigi e lo sguardo fisso del dolore di un’esistenza lacerata da un’incessante e rassegnata lotta per la vita. Per non rimanere schiacciati, per non soccombere sotto il peso di un destino impietoso, al quale non ci si oppone, che è solo possibile accettare. Non abbassa il capo, lui, il ragazzo con i capelli rossi, disprezzato, vilipeso, denigrato dai suoi stessi simili, gli abitanti della cava di rena rossa che, con i visi di terra e le unghie sporche, intonano all’unisono una cantilena di superstizione e ignoranza: Rosso Mal-pelo. E la cantilena è come un marchio biblico, è il dogma della gente del popolo, quella che, al di là di ogni elaborazione autonoma di pensiero, ripete come un pappagallo bene istruito sillabe che si ammantano di insensatezza e incomprensione: Mal-pe-lo. La coralità si fa insistente, sotto il peso di una lettura cruda, perseverante. Ingabbia, fa rabbia, induce alla riflessione, ma solo rigorosamente a posteriori.
L’incipit è diretto, immediato, specchio di un mondo contadino che vive nella sua terra e della sua terra, che è la sua terra, con un retaggio di rigide concezioni della vita. Esse affiorano da un sostrato di credenze, di convinzioni, di persuasioni in grado di farsi reali nel microcosmo di un analfabeta, che ascolta rapito i racconti dei suoi avi. L’incipit è straordinariamente semplice:
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone.
La grandezza dello scrittore è palpabile soprattutto nel sapiente uso del nesso causale “perché”: i capelli rossi sono una sorta di segno che contraddistingue il protagonista per la sua cattiveria; è una specie di “lettera scarlatta”, che imprime in chi lo vede, prima ancora di conoscerlo, la ferma convinzione – il pre-giudizio – della sua indole malvagia, rimando evidente ad una figura quasi demoniaca. Il nome stesso, Malpelo, è un sigillo fonetico, incredibilmente insensato a ben guardare, perché i capelli (pelo) non possono essere né buoni, né tantomeno cattivi (mal).
È solo l’inizio di una storia che si carica, nella sua evoluzione, di pathos e virilità: non c’è nessuna contrapposizione dualistica tra bene e male; alcun riferimento a Dio; non ci sono angeli e demoni, eroi e antieroi; solo una rappresentazione cruda e diretta di un piccolo mondo dominato dalla totale assenza di cultura, la cui unica ragion d’esistere è sopravvivere e lavorare, nessun lamento, contando solo sulle proprie forze e accettando la morte come la fine di un’esistenza di stenti. Il coro dei personaggi verghiani è dominato dalla costante incombenza di guadagnarsi il pane, con il duro lavoro dei campi o della miniera. Non troviamo dilemmi esistenziali o riflessioni filosofiche sul perché della vita; solo gente povera, che combatte la fame in una comunità profondamente ingiusta, completamente protesa alle amare necessità quotidiane, assorbita dal vorticare incessante della logorante “urgenza del bisogno”. Malpelo non è un ragazzo come tutti gli altri: non è amato, non ha amici, non ha una famiglia, conosce solo le viscere della terra, in cui si rifugia come in un rituale di sopravvivenza, senza mai lamentarsi, perché, in fondo, è convinto anche lui di essere Malpelo. La regia narrativa verghiana non cede mai il passo al grido straziante dell’ingiustizia. Ci aspetteremmo qualcuno che prenda le difese del protagonista e il lettore attende fiducioso che avvenga per lui una sorta di riscatto; lo desidera ardentemente mentre lo sventurato viene preso in giro dai lavoratori della cava, mentre la madre ha come unica preoccupazione quella di chiedergli i soldi del sabato. Correndo lungo i sottili fili del paradosso, come un funambolo, Malpelo guarda la mamma di Ranocchio piangere e non capisce perché, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi non ci guadagnava nemmeno quel che si mangiava.
Il lettore si interroga su un sistema valoriale – o meglio, dis-valoriale – in cui l’unico algoritmo plausibile è dato dal trinomio lavoro-soldi-sopravvivenza. È questa la creatura di Verga. Senza gioia, senza spazio per le rappresentazioni liriche o sublimi o drammatiche. È un locus horridus, ma senza veri mostri, in cui le oscure viscere del sotterraneo temprano con la sofferenza e limano le volontà; in cui le giornate trascorrono sempre uguali, immutate, dove il tempo sembra essersi fermato nella clessidra del dolore e della fame. Tutta l’arcata della novella si regge su una manifesta gerarchia della cava, dominata dall’insensibilità dell’ingegnere alla notizia della morte di Mastro Misciu Bestia, dall’indifferenza dei lavoratori, dalla bestialità di Malpelo. Sì, perché i riferimenti al mondo animale quando si parla di lui proliferano con un’insistenza quasi crudele: è un “malarnese”, è come un cane randagio, al quale è persino precluso l’ingresso in casa quando il fidanzato della sorella va a trovarla. Lupi e asini si condensano, metaforicamente, nel ritratto imbruttito di quello che è, tutto sommato, solo un ragazzo; mentre un sentimento di inadeguatezza attraversa la lettura che si connota di nuovi dettagli e noi, mentre leggiamo, siamo sempre più compartecipi e infastiditi perché sentiamo inequivocabilmente scivolare tra le mani la possibilità di un finale “meno brutto”. E invece si conclude proprio così questa storia: il visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa di Malpelo scompare nel buio di un girone infernale grigio, come il nome dell’asino diventato carcassa. La sapiente maestria di Verga sta nell’adozione di un’impersonalità estremamente lontana da quella zoliana, non c’è scienza che tenga di fronte allo spettacolo triste dell’universo dei miseri. L’autore si eclissa, ma non sempre ci riesce. È davvero una prova di estrema forza quella di rimanere impassibili dinanzi alle sciagurate esistenze di un Sud lacerato dalla fame a da una politica – quella postunitaria – contraddittoria, distante, probabilmente ottusa. Eppure, lui ce la mette tutta. L’idea della regressione è per Verga, come lui stesso racconta, un fascio di luce. È una storia semplice: un giorno si trova tra le mani un giornale di bordo, un manoscritto discretamente sgrammaticato e asintattico in cui un Capitano raccontava di certe peripezie affrontate con il suo veliero. Da qui l’illuminazione; perché non lasciare la parola ai personaggi? Metafore dell’ambiente rusticano, proverbi, aneddoti e voci del popolo si intrecciano in una trama apparentemente lineare. Breve. Non una frase più del necessario. Ma che, ad uno sguardo più attento, cela un’inattesa sorpresa, che apre nuovi orizzonti di senso, ben al di là della scontata apparenza: l’intera impalcatura sintattica e semantica si edifica sulla costruzione antifrastica della novella. L’incipit, che ci era parso quasi una legge incontestabile, rivela nella progressione della narrazione e lungo la linea parossistica del finale, tutta la sua debolezza: nella chiusa ellittica dell’epilogo, il ragazzo Malpelo ha perso ogni connotazione di presunta cattiveria, anzi, non l’ha mai avuta. Il Verga auctor si nasconde tra le pieghe dichiarate dell’ideologia verista. La sua è un’opera di recupero e di ri-costruzione degli umili, che lottano con gli stracci logori del pane negato, cattivi forse, ma solo per la necessità del fato. La sua voce è repressa per amore del vero letterario, ma da lontano si avverte l’eco della sua pietas. Il Verga vir, l’uomo, non ci sta. E diventa manifesto il desiderio che si edifica all’interno della novella, la volontà di dar vita, parallelamente all’intento verista, ad un’opera di tessitura antifrastica, in cui il malvagio Malpelo, fin da subito, sveste gli abiti fasulli del cattivo-per-forza e si mostra nella sua umana dignità violata. Il destino beffardo continua, nel perverso gioco delle parti, ad accanirsi, ma a noi adesso è proprio tutto chiaro. Nessun vincitore, solo vinti. Nella cava di Malpelo cala il silenzio.
Meravigliosa visione della narrazione verghiana. Sempre più vicino alla cultura popolare, complimenti
RispondiEliminaGrazie di cuore
RispondiEliminaStupenda visione dell opera di Verga. Una tristezza profonda e amara. Straordinariamente efficace.
RispondiEliminaEmozionante visione dell'opera di Verga. Complimenti.
RispondiEliminaGrazie davvero per il vostro sostegno, per me fonte di gioia e stimolo a continuare.
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