Io sto morendo, ma quella puttana di Emma Bovary vivrà in eterno
Gustave Flaubert
Un occhio spietato, un po’ crudele ma solo quel tanto che basta per distruggere il falso mito, degradarne la presunta leggiadrìa, sopprimerne ogni inopportuna e leziosa sensualità. Un impietoso iconoclasta che non ha scrupoli nel trascinare le donne per i capelli (come un uomo primitivo), mai indulgente ma incisivo amante della verità. Un leale innamorato della vita naturale e della femminilità, questo era, in sintesi, Edgar Degas, artista geniale e senza falsi pudori.
Giorgione - Venere dormiente |
E’ in quella fase storica, che nasce e si consolida, una visione sociologica dell’esistenza: la vita dell’uomo moderno è un prodotto delle condizioni, dell’eredità, dell’ambiente, dell’educazione, dell’indole, degli influssi locali, stagionali e accidentali e le sue decisioni non hanno un solo motivo ma tutta una serie di motivi. Per tali ragioni espressive le donne di Degas non ambiscono alla lusinga degli occhi, spingendosi ben oltre la mistificazione sensualistica, anzi rifiutandola per principio. Nei corpi nudi delle sue donne impudiche: “L’artista scopre la bellezza della pelle e degli effetti luminosi su di essa: unisce e contrappone toni e colori, usa preziose e calde armonie” sottolinea il critico d’arte Fiorella Minervino. I suoi nudi femminili dunque, in cui le donne sono colte nella flagranza delle loro abluzioni o nell’ordinaria gestualità quotidiana, nascono consapevolmente da una sorta di amplesso pittorico. Essi rappresentano la forza estrema dell’espressione; la loro femminilità è vissuta con grande travaglio, con sofferenza, con quel disagio esistenziale tipico dell’arte moderna “Io le mostro prive della loro civetteria, allo stato di bestie!” precisò Degas.
Tiziano - Venere di Urbino |
Il segno, drammatico e spigoloso, non accarezza una forma ma la incide, la scava, la seziona come un bisturi chirurgico, il colore aggredisce la tela come una sciabolata, saturandola di un cromatismo inquieto e dichiarando la lotta furibonda, all’ultimo sangue, con la carne. Baudelaire affermava che “lo studio della bellezza è un duello ove l’artista urla di spavento prima di essere vinto”. In tale contesto l’urlo dell’artista è sintomatico, un urlo che si protrae e penetra le forme, le conquista, appropriandosene e legandole indissolubilmente al proprio destino, estremo anelito di quel “senso del ritorno” che pervade lo spirito di Degas. In lui è sempre presente un compiacimento voyeristico che coglie la donna disarmata di fronte all’occhio impietoso del demiurgo.
L’occhio un po’ crudele dell’artista, arroventato dall’amor panico, scruta una femminilità terragna, affranta e deforme. La bellezza delle sue donne è nel drammatico realismo, nella verità priva di orpelli, nell’assoluta mancanza di “bellezza” in cui percepiamo quel disagio freudiano che nasce da un rapporto di dicotomia, amore-odio, con l’altro sesso. Il giudizio dell’artista è categorico e inappellabile, perfettamente confacente alle istanze della cultura moderna, travagliata da mille insidie, di cui la donna è sicuramente la più affascinante e terribile “Terribilis ut castrorum acies ordinata”. E’ significativo ricordare che le testimonianze dei contemporanei di Degas sul suo rapporto con le donne è discordante, e non c’è di che stupirsi considerata la personalità sfuggente e complessa dell’artista. A tale proposito il gallerista francese Ambroise Vollard scrisse; “Nessuno come lui ha amato le donne ma una sorta di pudore misto a timore lo teneva lontano da loro”. Invece l’amico e collega Edouard Manet parlando con la cognata pittrice Berthe Morisot dirà: “Degas manca di spontaneità, non è capace di amare una donna, neppure di dirglielo e di far qualcosa”. A Georges Jeanniot lo stesso Degas confiderà: “Ah, le donne non me lo perdonano; mi detestano, intuiscono che io le sto disarmando. Io le mostro prive della loro civetteria, allo stato di bestie che si puliscono”. Di fatto la donna, nelle intenzioni e nelle opere dell’artista rappresenta “l’oscuro oggetto del desiderio”, impietosamente e sistematicamente oltraggiata, brutalmente umanizzata e descritta nei suoi atteggiamenti meno edificanti, privata di quell’alone idealistico che la collocava al centro di una condizione privilegiata, quale madonna pagana, dispensatrice di piaceri eletti, che alimentava il mito della sublime natura mulièbre. Il critico d’arte Jean-Jacques Lèveque ha osservato con graffiante malizia: “Dove prende i suoi modelli? Per i nudi la donna di strada, perché non è per lui che un corpo (…)”.
Quel “mito” è dunque sconsacrato, profanato e vilipeso, offerto al pubblico ludibrio; la donna è violentata nella sua intimità da un occhio furtivo e impietoso, l’occhio “dell’incarnato civilizzato” come ebbe a precisare lo scrittore e critico d’arte Joris-Karl Huysmans. Ecco la femmina discinta nella sua nudità vera, istintiva, selvaggia in opere quali: Le tub del 1866 (Musée d’Orsay – Parigi ) Femme qui se peigne les cheveux del 1887, Femme qui se séche la nuque del 1889, Après le bain del 1880, (National Gallery – Londra ). Una nudità che non è solo quella della popolana ma anche dell’aristocratica –borghese, che nella sua intimità trascura le convenienze e si abbandona ad una gestualità priva di inibizioni, priva di ritegno e pudore. Degas la descrive così: “E’ l’animale umano che sta accudendo a se stesso, un gatto che si sta leccando”. In questa visione tormentata e scioccante che rappresentava, per la società dell’epoca, un’intollerabile profanazione, si disvelano tutti gli aspetti più inquietanti della personalità dell’artista: voyerismo, vampirismo, feticismo, iconoclastìa, goticismo, teatralità. L’artista sceglieva à son plaisir tra le raffinate signore parigine, le midinettes (sartine e modiste), le ballerine impudenti, le mantenute, le sguattere, le prostitute. Occorre precisare che negli ultimi anni della sua vita, egli stemperò in parte la foga profanatrice che ne aveva alimentato la creatività, dichiarando, con sincero rammarico, di aver sviluppato i suoi studi sulle donne con troppa freddezza e cinismo. Degas è dunque il rinnovatore più radicale dell’iconografia femminile in quanto distrugge coscientemente il mito che per secoli, attraverso le immagini ideali delle tizianesche veneri nude, aveva consacrato la figura femminile ad una sorta di leggiadrìa istituzionale, da cui pareva assolutamente improbabile poterla rimuovere. La nudità di quelle veneri è infatti un artificio attentamente studiato, che presuppone la presenza di una platea di osservatori.
La loro garbata ostensione assume i toni di una recita come da copione, in quanto soggiace alle tiranniche regole del bon ton aristocratico – borghese, regole che l’artista disattiverà completamente, con spietata lucidità e spirito rivoluzionario. “(…) Degas indaga la nudità come condizione totale, studia tutti i vari gesti connessi allo stato di nudità” precisa John Rewald. Egli opera dunque un’oggettivazione spassionata della femminilità, le sue donne sono “usate” con quel suo naturale istinto animalesco, egli è pervaso da una furia iconoclastica. “Il nudo (dirà) è sempre stato rappresentato in pose che presuppongono la presenza di un pubblico, le donne dei miei quadri invece sono persone semplici e oneste, indifferenti a ogni altro interesse che non sia direttamente collegato alla loro condizione fisica. Eccone un’altra, sta lavandosi i piedi. E’ come se la si osservasse attraverso il buco della serratura”. In queste parole traspare il piacere voyeristico dell’artista, il suo gusto di osservare e di profanare l’intimità senza essere visto, in un totale e appagante anonimato ed anche un certo feticismo per le chiome fluenti di quelle signore così genuinamente discinte e inconsapevoli, quasi un omaggio alle decadenti liriche baudelairiane “…Lasciami mordere a lungo le tue grevi trecce nere, quando mordicchio i tuoi capelli elastici e ribelli mi sembra di mangiare ricordi”.
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