21 febbraio 2022

Le famose cortigiane del Secondo Impero: la Paiva (seconda parte)

Per questa femmina senza scrupoli e senza empatia, il 1871, paradossalmente, rappresentò l’anno dell’apoteosi. 

Sebbene la Francia fosse stata sconfitta militarmente dalla bellicosa Prussia, subendo lo sfregio delle conseguenti gravi perdite territoriali dell’Alsazia e della Lorena, l’imperatore Napoleone III, avesse abdicato, abbandonando il Paese al suo destino, la guerra civile dei comunardi si fosse conclusa drammaticamente lasciando nella capitale uno strascico di lutti e tragedie e faticosamente stesse  nascendo la terza repubblica, oberata dagli onerosi debiti di guerra; durante una festa, offerta dal console prussiano a Parigi, la Paìva ebbe l’opportunità di conoscere il conte Guido Henckel von Donnersmarck, prefetto del distretto dell’annessa Lorena, all’epoca l’uomo più ricco d’Europa, magnate del carbone, con numerose fucìne in Slesia, di religione luterana e cugino del cancelliere prussiano Otto von Bismarck, di undici anni più giovane di lei (la Paìva ne aveva quasi cinquantadue ed era ormai sul viale del tramonto). Si trattò, senza dubbio, di un colpo di fulmine; il conte rimase sedotto dal fascino erotico della femme fatale, che, nonostante facesse uso di un trucco pesante, per coprire i primi segni della incipiente senilità, e spesso utilizzasse folte parrucche, ebbe buon gioco e riuscì a  concupirlo. Paul de Saint-Victor la descrisse in modo curioso e molto pittoresco: “Le sue labbra sono un divano rosso appiattito dal culo di un pascià”. La Paìva e il conte Henckel si sposarono in quello stesso anno, la vecchia prostituta, per una sorta di alchimia dei sensi, si trasformò da falsa marchesa in una vera contessa. Il conte fu assai prodigo e, con allucinata generosità, le donò una collana di diamanti a tre fili, di inestimabile valore, appartenuta all’ex imperatrice Eugenia de Montijo, consorte dell’ex imperatore Napoleone III  e un palazzo delle meraviglie al numero 25 dell’Avenue des Champs Elisées, nell’VIII arrondissement, in cui, per volontà della neo contessa, verrà profuso un lusso sfrenato e oltraggioso, dal costo esorbitante (dieci milioni di franchi oro), contribuendo ad alimentare la leggenda di questa donna straordinaria,  quale incarnazione vivente delle follie di una società gaudente, del lusso sfacciato e del vivere spensierato di un’epoca priva di vincoli morali. Il palazzo, venne realizzato dall’architetto Pierre Manguin, e ospitò le decorazioni del pittore Paul Baudry (lo stesso dell’Opera Garnier) che realizzò, sul soffitto dell’immenso salone di rappresentanza, l’opera intitolata: Aurora che rincorre la notte ottenendo il privilegio di far posare la contessa Paìva (a interpretare l’Aurora), unica volta in cui la donna si concesse, come modella, a un pittore; la contessa infatti non nutrì mai velleità esibizionistiche. Nel salone vi erano inoltre le statue di putti e  baccanti realizzate dallo scultore Jules Dalou, amico di Auguste Rodin, e membro fondatore della Société National des Beaux-Arts, un magnifico camino di Eugène Delaplanche vincitore del Prix de Rome nel 1864 e della medaglia d’onore nel 1878 e le decorazioni sovrapporta del pittore Joseph Victor Ranvier. Nella sala della musica, all’interno di una nicchia con la volta a botte, simile all’abside di un edificio ecclesiastico, il pittore di temi allegorici e mitologici Henri-Pierre Picou, uno dei fondatori della scuola neo-greca, realizzò l’opera Venere sulle onde, in omaggio alla padrona di casa. L’ampia scalinata, che conduceva al piano superiore, era realizzata in onice giallo algerino e sulle sue pareti laterali, all’interno di ampie nicchie, campeggiavano le statue di Dante, di Jean-Paul Aube, del Petrarca, di Leon Cugnot, e di Virgilio, di Ernest Barrias. Nel bagno  venne installata una vasca d’argento di circa novecento chili, dotata di tre rubinetti: uno per l’acqua calda, uno per l’acqua fredda e uno per lo champagne, che sgorgava copiosamente, inoltre in ogni stanza era profusa ovunque una grande quantità di sete pregiate. 

Hotel Paiva

L’arredamento e le decorazioni lignee vennero realizzate dai migliori ebanisti e incisori dell’epoca. Questo locus amoenus, diventò l’Hotel particulier della contessa, e venne denominato Hotel Paìva, in cui ogni martedì e ogni domenica la “nobildonna” offriva ai suoi ospiti cene luculliane, senza badare a spese, ricche di piatti raffinati, cucinati dai più autorevoli e accreditati chef parigini, a cui partecipava la selezionata intellighenzia della capitale francese, a testimoniare l’amore della padrona di casa per gli  intellettuali.

Tra gli invitati a questi incontri conviviali, l’amico di vecchia data Théophile Gautier, Emile Zola, Gustave Flaubert, Alphonse de Lamartine, Arséne Houssaye, Léon Gozlan, Paul de Saint-Victor, Emile de Girardin, i fratelli de Goncourt, Ernest Renan, Hippolyte Taine; uno straordinario cenacolo di savants che la Paìva accoglieva sempre riccamente acconciata, indossando abiti sontuosi, corredati da preziosi gioielli ed esibendo vertiginose scollature. A testimonianza di quegli incontri spensierati, gaudenti e libertini, di cui riferirono spesso le cronache cittadine, rimane un’opera pittorica di Adolphe Joseph Thomas Monticelli, un olio su tela di cm. 134,6 h. 88,9, in collezione privata, dal titolo: Une soirée chez la Paìva

Une soirée chez la Paìva

L’ostentazione pacchiana di questi ambienti regali, così scenograficamente ampollosi, non la risparmiò da critiche maliziose e graffianti, neppure da parte dei suoi amici; i fratelli de Goncourt definirono il palazzo “Le Louvre du cul” (il Louvre del culo). La Paìva era una donna che amava circondarsi di intellettuali e nel suo esclusivo salotto organizzò una piccola corte medicea, che si compiaceva di blandire, lusingare e coccolare con infantile tendresse. Risulta che fosse intelligente, colta, poliglotta, amante della lettura e sapesse suonare il pianoforte; era comunque una creatura cinica e senza scrupoli, narcisista e arrivista ad oltranza, con l’unico apprezzabile pregio della discrezione che la rendeva priva di tendenze esibizionistiche, atteggiamento spesso tipico delle cortigiane d’alto bordo. Non scrisse neppure una riga sulle sue memorie e non volle mai farsi ritrarre da qualche famoso e celebrato pittore (con l’unica eccezione di Paul Baudry), forse per ragioni di riservatezza. Rimangono di lei rarissime e sfocate immagini fotografiche (una in particolare nell’archivio della famiglia Donnersmarck), inoltre la sua vita leggendaria e il suo Hotel particulier, delle mille e una notte, suscitarono soprattutto morbose curiosità più che apprezzamento e, per quanto riguarda la sua affermazione sociale, nonostante il titolo nobiliare di contessa, rimase circoscritta a un esiguo nucleo di estimatori, in quanto le dame dell’haute monde non gradivano frequentarla e la snobbavano, continuando a considerarla né più né meno che una parvenu e una vile cortigiana, cioè una femmina di malaffare. 

Conte Guido

Negli anni della terza repubblica (la repubblica senza repubblicani, nata frettolosamente nel 1870) l’atmosfera parigina divenne sempre più ostile nei confronti dei coniugi Donnersmarck, sia per il crescente antisemitismo che si stava diffondendo, come un cancro, in tutta la Francia e che esploderà con estrema virulenza con il caso Dreyfus, sia per l’ostilità nei confronti della Prussia e della neo nazione tedesca, dovuto ad un rigurgito nazionalistico e a un revanscismo che tollerava sempre meno il ricordo delle gravose sanzioni economiche, post belliche, imposte ai francesi dai vincitori prussiani (circa sei miliardi di franchi), alla cui negoziazione aveva collaborato anche il segaligno conte Henckel, ma soprattutto delle spoliazioni territoriali dell’Alsazia e della Lorena, di cui tutto il popolo d’oltralpe si rammaricava, senza riuscire a darsi pace. Si diffusero inoltre voci sediziose nei confronti della Paìva che la accusavano di spionaggio a favore dei tedeschi, insinuando che gli orditi complotti antifrancesi sarebbero stati perpetrati nel suo raffinato salotto degli Champs Elysées. Questa situazione di sospetti e implicite accuse, indusse i coniugi, sebbene con rammarico, a lasciare la capitale francese nel 1877, onde evitare gravose ripercussioni, trasferendosi nel castello della famiglia Donnersmarck in Prussia, una monumentale e sfarzosa residenza, in stile Luigi XIII, realizzata tra il 1868 e il 1876 dagli architetti Pierre Manguin e Hector Le Fuel,  considerata la Versailles dell’Alta Slesia. La contessa vi rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1884 per arresto cardiaco, all’età di sessantacinque anni, forse annoiandosi un po’ in quell’immensa e lussuosa magione in cui invecchiava senza allegria, consumandosi giorno dopo giorno, nel ricordo della sua avventurosa e quasi epica vita parigina, animata da un’inesauribile joie de vivre, chiudendo così anche il terzo e ultimo capitolo della saga. (Animos inmoderata felicitas rumpit) L’esagerata felicità fiacca gli animi.                                                                   

Il castello

Il conte, non volendosi allontanare da lei neppure dopo il suo decesso, schiavo di un amore morboso, adibì una stanza del castello a sepolcro, conservando il corpo della contessa Paìva all’interno di una bara di vetro ricolma di alcol e formalina, affinché le sue spoglie non subissero l’offesa della decomposizione, mantenendone intatta la bellezza, che, sebbene fosse ormai alquanto sfiorita, si intuiva ancora sul volto della donna, consentendo al vedovo inconsolabile di poterla contemplare, di tanto in tanto.

Paiva

Ma, come spesso accade, l’inesorabile destino, dopo tanta generosità, tramava ora oscuri propositi apocalittici e il castello, in un giorno infausto, venne completamente distrutto da uno spaventoso incendio; le fiamme, impietosamente, lo rasero al suolo, cancellando per sempre (ma con discrezione) ogni ricordo e ogni tormento… come avrebbe voluto la signora contessa. 

Ignis quo clarior fulsit citius exstinguitur.
Più luminosamente il fuoco ha bruciato, più in fretta si è estinto.
Seneca

                                                                        Giuseppe Filippo Vietti


prima parte

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