Non erano ancora gli anni della guerra, di quella guerra che, seminando morte e follia nelle trincee, si sarebbe insinuata nel ricordo collettivo con l’aggettivo “grande”… come se quella brama di devastazione potesse essere misurata, resa concreta da quel grande, che non valse un ventennio di pace prima che il demone della malvagità umana si abbattesse come un ignobile abominio sul mondo. Di nuovo.
Era nato il 16 dicembre del 1900. Una data che – aveva pensato la giovane madre mentre lo stringeva tra le braccia per la prima volta – sicuramente sarebbe stata di buon auspicio: l’inizio di una nuova era, il XX secolo. Il genio divertito della Belle Époque abbracciava, con il suo fascino novello, i vestiti leggeri delle donne e le giacche eleganti degli uomini, che vibravano nelle strade e affollavano cinema, teatri e ristoranti. Che cosa avrebbe mai potuto rovinare quel gioco di luci e scintille che riempivano di giovane freschezza la vita di quegli anni? Il bambino fortunato – almeno così pensava sua madre – si chiamava Marco ed era una simpatica polpetta. Le sue morbide rotondità avevano inondato la modesta casa dei suoi genitori con impeto straordinario. La loro vita era cambiata, non vivevano che per lui ora. Cresceva il piccolo Marco e, con sorprendente rapidità, la sua indole curiosa imparava con la stessa smania di chi non è mai sazio e, finito un pasto, cerca altrove qualcosa di diverso da sgranocchiare. La sua mamma, poverina, era esausta dei suoi continui “perché” e qualche volta, quasi vergognandosene, sperava che giungesse presto la notte per ritrovare un po’ di calma. Sulla scia velata delle stelle d’inverno, sulle nitide strade del cielo d’estate, Marco sognava dinosauri e città di cioccolato e biscotti, anche se, dopo aver ascoltato la storia di Hänsel e Gretel, quell’irresistibile attrazione per i dolci si era un po’ smorzata… Qualche volta, di notte, aveva paura, ma non dei fantasmi o cose del genere; gli balenava per un istante l’idea che i suoi genitori potessero morire e lui si disperava in un sonno agitato, ristorato solo dal rassicurante abbraccio della mamma. Quando compì cinque anni, a Marco parlarono per la prima volta di un luogo che avrebbe acceso ancor di più la sua curiosità: la scuola. Se la immaginava come una grandissima sala, con un’immensa finestra sul mondo e pensava a danzanti gessetti e lavagne colorate su cui scrivere sempre cose nuove. E le domande si moltiplicavano esponenzialmente. Gli avevano raccontato di questo posto e della sua importanza. I suoi amichetti si ergevano a grandi esperti e parlavano con un tocco di orgoglio di maestri e libri e banchi e cattedre. Ma Marco continuava ad immaginare la grande finestra e, sebbene fosse un po’ spaventato, non vedeva l’ora di iniziare. Il tanto atteso momento giunse e lui, accompagnato dalla madre preoccupata, si ritrovò in un cortile in cui campeggiavano un numero imprecisato di bambini dalle espressioni più disparate: c’era chi piangeva, chi rideva, chi si guardava intorno spaesato, chi era più interessato al suo grembiulino nuovo che al resto, chi impugnava una macchinina con forza e un tantino di imbarazzo, chi si toccava continuamente la cartella per accertarsi che la merenda fosse al suo posto, chi con aria rassegnata aveva il volto della saggia consapevolezza che l’estate era realmente finita. Che spettacolo multiforme! Marco si girava intorno con gli occhi avidi, silenzioso ed eccitato. Ogni tanto chinava lo sguardo sul colletto del suo grembiule e sul fiocco per vedere se fosse tutto a posto. Finalmente, nel cortile comparve una figura austera, un uomo, alto e magro, con dei minuscoli occhiali rotondi sulla punta del naso. Aveva un viso triangolare con uno mento affilato e il profilo adunco e spigoloso. Le labbra lievemente piegate in giù ai bordi facevano da cornice alla fronte accigliata ed il suo piglio trasudava rigore dalla testa lievemente inclinata all’indietro. Quando lo vide, Marco sentì come se tutta la gioia del mondo si fosse nascosta e, francamente, avrebbe voluto nascondersi anche lui, se solo avesse trovato un cantuccio sotto la gonna di sua madre, e sperò che una fatina buona o un eroico pirata venissero a prenderlo per portarlo lontano. Il direttore, dritto nel suo vestito, ingessato nei movimenti, con voce altisonante, pronunciò:
–Benvenuti, bambini! Finalmente oggi ha inizio un nuovo anno scolastico, nel corso del quale voi garantirete impegno, rispetto delle regole, costanza e devozione. Sarà un anno impegnativo, ma voi siete studenti e sono certo che onorerete il vostro ruolo nel migliore dei modi!
Il resto sbiadì come l’alone di un sospiro sul vetro della finestra. Fu la prima, vera delusione che la scuola gli inflisse: si aspettava entusiasmo e quel vivo sentimento che anima chi è attratto dalla voglia di conoscere si spense un pochino. Le aule, contrariamente a quanto da lui sognato, non avevano che finestre piccolissime, alte e strette e si affacciavano sul quartiere, uno spazio angusto di ordinaria quotidianità. Figure anonime passavano nel vicolo, intente nei loro pensieri, silenziose e veloci, in un continuo incontro furtivo destinato ad essere dimenticato con la stessa rapidità con cui era nato. I banchi erano di legno scuro, consumati dal tempo e dall’usura e, in ciascuno di essi, sedevano due, tre o quattro bambini, tutti maschi. Mentre si osservavano con reciproca diffidenza e con l’innato impulso di fare amicizia, entrò la loro maestra. Era bassa e grassa, troppo bassa e troppo grassa. Indossava delle scarpe con il tacco sottile, che si sfilò con grottesche movenze infilando i piedi satolli in un ben più comodo paio di pantofole. Aveva gli occhi scuri e maligni, le labbra strette che mal si sposavano con il rossetto troppo rosso e troppo abbondante, depositato in larga misura sui denti, rendendo il sorriso l’ennesimo segno della sua natura demoniaca. Il suo nome era Maria e, detto tra noi, sembrava uno scherzo del caso: il nome della Madonna dato gratuitamente all’anticristo. Era davvero crudele la maestra Maria; si divertiva a mettere i bambini in imbarazzo, li scherniva ed umiliava impartendo punizioni dolorose ed esecrabili con evidente soddisfazione. Le ginocchia sui ceci, le bacchettate sulle mani, le ore in piedi nell’angolo dell’aula erano solo un’infinitesima parte del suo repertorio. Se, per un’infausta ma frequente congiunzione astrale improvvisa, scopriva che uno dei suoi studenti non aveva svolto i compiti a casa, come la Umbridge di “Harry Potter” (sarà stata un’antenata, sospetto, vestiti rosa a parte…), si ergeva su tutta la sua bassezza, strizzava gli occhi piccolissimi che si riducevano a due fessure di cattiveria pura, e, in un crescendo melodrammatico, urlava:
–Non lo hai fatto!? Non lo hai fatto!!?? Non lo hai fatto!!!???
E lo ripeteva a suon di bacchettate, mentre il povero malcapitato si ingobbiva e si riparava e il terrore si spargeva ovunque. Marco perse il suo entusiasmo, la scuola divenne presto un fardello. Ad una madre basta poco per capire, ma la scuola, in quel periodo, era inaccessibile ed i metodi educativi impartiti incontestabili e così era costretta a guardare gli occhi tristi di suo figlio e soffriva senza farsi vedere. Ma i guai seri cominciarono quando giunsero le prime letture… In Marco succedeva una cosa stranissima: le letterine cominciavano a vorticare sul foglio bianco e, come spiritelli dispettosi, cambiavano il loro ordine mettendosi a caso ovunque e lui doveva rimetterle al loro posto per riuscire a decodificare il testo. Marco sentiva, con un misto di paura e disagio, di non essere come gli altri bambini e la sete di conoscenza che da sempre lo aveva contraddistinto, ora, improvvisamente doveva scendere a patti continui con l’insita difficoltà delle parole. La fiducia in se stesso, a cui non aveva mai realmente pensato, ora cominciava a vacillare e si univa alla frenesia incessante delle parole che si confondevano, apparivano e scomparivano come fantasmi irriverenti. La maestra Maria, ovviamente, si accorse immediatamente del problema e, dopo un’attenta analisi dei fattori che la portò, come sempre, alla più stupida delle conclusioni, pervenne ad un epilogo che era di gran moda in quegli anni: Marco era un somaro. Nei suoi sogni di perversione diseducativa, immaginava di mettere un bel paio di orecchie finte sulla testa del bambino ma, per nostra fortuna, non arrivò a tanto. La sua gretta ipersemplificazione pseudo-pedagogica la condusse su sentieri sbrigativi e sicuri: Marco fu confinato all’ultimo banco e nessuno si interessò più di lui… E se è vero che i bambini sono creature meravigliose, è altrettanto provato che riescono a palesare una malvagità senza eguali, o quasi (vedi la maestra Maria…) e cominciarono a denigrarlo e schernirlo, facendo il verso dell’asino tra l’ilare complicità dei corridoi e del cortile. Marco era sempre più solo e sempre più triste e la madre, vedendolo così, piangeva segretamente maledicendo le loro umili origini e il silenzio suggellato dal loro status sociale ed economico… Arrivò, finalmente, il 1912 e, secondo la Legge Orlando allora in auge, Marco terminava così l’obbligo scolastico. Non era rimasto più nulla del bambino dolce, curioso ed entusiasta degli anni che avevano preceduto la scuola. Ora i suoi occhi erano costantemente velati di tristezza e la sua mente dominata dai ricordi di offese, insulti, segregazioni. Mentre la maestra Maria diventava sempre più grassa ed arcigna; mentre il cielo europeo si preparava ad una guerra ormai presagita; mentre l’inaffondabile “Titanic” affondava nelle acque gelide del Nord trascinando con sé nelle acque centinaia di passeggeri di terza classe, Marco, una sera, andò dai suoi genitori e disse loro:
–Voglio continuare a studiare…
La testa china e il piedino nervosamente roteante facevano facilmente intuire la sua vergogna, che mal celava, tuttavia, la sua determinazione nel timbro della voce.
I suoi genitori si guardarono negli occhi e, nonostante la preoccupazione per il futuro di quel figlio che a scuola avevano sempre definito “problematico”, se non “ritardato”, ebbero fiducia in lui e gli risposero che loro erano d’accordo. In quella risposta Marco ritrovò il calore della speranza e la fiamma della curiosità si riaccese ancora, illuminando i suoi sogni di una scuola diversa, lontana dagli echi molesti di un’insegnante indegna del suo ruolo.
Cominciò ad alimentare nuovamente il suo desiderio di imparare, per troppo tempo sopito sotto gli echi oscuri e sinistri di una scuola dell’esclusione. Quell’estate fu insolita… Nonostante avesse solo dodici anni, Marco si trasformò presto da bambino in ragazzo e, sebbene non fosse del tutto pronto al repentino cambiamento, osservò le sue spalle allargarsi, la sua statura alzarsi, la sua voce farsi più cavernosa, i primi peli spuntare sul viso e sul corpo. La voglia di rimettersi in gioco lo condusse lungo il piacere della lettura: le lettere continuavano a danzare e a fare i consueti scherzetti beffardi, ma, nonostante l’immane fatica, attraversava le strade del paese sempre con un libro sotto il braccio, percorrendo il tragitto fino alla biblioteca comunale immerso in universi immaginari in costante divenire, dove storie speciali e ordinarie acquistavano, attraverso la segreta magia della scrittura, il fascino di incredibili racconti. Ed era facile immedesimarsi in personaggi dalle esistenze multiformi; ed era urgente il bisogno di valicare i varchi di mondi generati dalla fantasia, dove rocambolesche avventure, mirabolanti imprese e creature fantastiche convivevano con regie narrative costruite sull’amore, sull’amicizia, sul dolore, sulla pietà, sulla speranza, sull’odio e sull’indifferenza, sul paradosso e sulla follia, sul coraggio, sulla forza del pensiero e della determinazione. Il suo animo docile si lasciava plasmare dal potere delle parole, maestre birichine di un’anima bella.
La scuola media si ergeva, in tutta la sua ottocentesca architettura, in mezzo alla piazza del paese. I capitelli neoclassici quasi stridevano con i profumi, i colori e le voci di un’Italia ammaliata dalle lusinghe di un futuro avanguardistico che ammiccava all’orizzonte del progresso e ogni tanto si volgeva con una punta di snobismo verso una società che sembrava destinata a dissolversi sotto l’incedere sicuro dell’industrializzazione e della massificazione. Ma Marco, un puntino impercettibile – come ciascuno di noi – nella mutevole essenza, talvolta capricciosa, della Storia, era completamente immerso in un paiolo di contrastanti emozioni. Il cuore batteva e lui cercava di mistificarne i richiami con sguardo sicuro e passo cadenzato. Varcato l’ingresso, davanti a lui si stagliò, con inaspettato silenzio, l’austerità di un lungo corridoio. Una figura lontana e indistinta, probabilmente un bidello, gli chiese:
–Chi sei?
Fu il preambolo di un’altra vita.
Entrò in classe e la sua nuova insegnante, una donna dai capelli corti e neri e gli occhi indiscutibilmente grandi e scuri gli disse con un lieve sorriso:
–Buongiorno, io sono la tua professoressa di Lettere.
Marco andò a sedersi e, solo qualche minuto dopo, strizzò un po’ i suoi occhi dal taglio leggermente asiatico, piccoli e intelligenti sotto una tendina di ciglia lunghe e ramate, e, senza farsene accorgere, scrutò i piccoli segreti di quella stanza, che in quel momento divenne il suo nuovo inizio.
I giorni trascorrevano veloci, mentre il ricordo degli anni passati, della maestra Maria, dell’ultimo banco, delle risate malefiche dei suoi ex compagni, si fece più piccolo, fino a smettere di urlare. Quando la sua insegnante gli chiese di leggere un passo dell’Inferno di Dante e Marco balbettò rincorrendo le lettere che, come sempre, si muovevano anarchiche, non arrivò nessun rimprovero, nessuna minaccia, nessuna spasmodica brama di esemplare punizione… La professoressa si avvicinò e, chinato il corpo in avanti, gli sussurrò:
–Cosa c’è che non va, Marco?
Come avrebbe potuto confessare quel segreto inespresso, custodito gelosamente dalla legge dei
non-detti?
Eppure, successe qualcosa di imprevedibile: Marco alzò la testa e sentì che la cortina di ferro che aveva costruito sul suo senso di inadeguatezza si stava dissolvendo…
–Sulle parole vedo briciole di nebbia…
L’insegnante, che aveva letto un articolo dell’oftalmologo tedesco, Rudolph Berlin, sulla “cecità delle parole”, da lui “definita “dislessia”, comprese immediatamente…
Si prese cura di Marco, perché l’educazione è cosa del cuore e lui ritrovò se stesso.
La Storia scriveva una delle pagine più drammatiche del suo libro millenario; la guerra bussava con insistenza alle porte degli Italiani e questi la scongiuravano di aspettare, divisi tra interventisti e neutralisti e con, negli armadi, ancora le armi e l’equipaggiamento del Risorgimento; Benito Mussolini faceva echeggiare il suo nome, in un esordio di defezione manifesta, in cui, da strenuo difensore del neutralismo, con un colpo di reni, si era schierato dalla parte del più acceso interventismo.
Quando l’Europa si rialzò barcollando come un gigante ferito e risorto sotto il peso delle macerie e della distruzione, nell’istante in cui la borsa di Wall Street crollava trascinando con sé pianti e disperazione, Marco divenne un uomo. Fu un insegnante, un brillante educatore e raccontò la sua storia perché quel tempo aveva bisogno di sensibilità e di empatia. I suoi giorni, nonostante tutto, trascorsero sereni e le briciole di nebbia non lo abbandonarono mai e gli tennero compagnia fino alla fine, quando, ormai vecchio, chiuse l’ultima pagina della sua vita e si addormentò sognando un viaggio inedito, fatto di parole ballerine e di una felicità nuova.
Linda Ciano
8 commenti:
Continua il percorso verso la narrazione bella e avvolgente. Grazie prof. Orgoglio del sud!
Grazie di cuore... Le parole, quelle belle, che inducono a continuare... Grazie...
Bellissimo e commovente! Grazie Linda
Grazie mille a te, Virginia!!!
che bel racconto ! la gretta ipersemplificazione pseudo-pedagogica della maestra Maria è ancora diffusa!
Che meraviglioso racconto.... Delicato, romantico.... L'insegnante di lettere dai grandi occhi scuri..... Amorevole, gentile, attenta.... Mi ricorda qualcuno.
Grazie, Miriam...
Grazie di cuore...
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