A wall is a very big weapon.
It is one of the natiest things
you can hit someone with
Bansky
Passeggiando per i vicoli di Brick Lane e Shoreditch, calpestando le loro strade ciottolate che sfociano in parchi o sottopassi lontani dall’occhio indiscreto di Dio, nel silenzio di un pale afternoon londinese, non possono non tornare in mente i versi finali della celebre canzone di Paul Simon e Art Garfunkel The Sound of Silence: «And the sign said the words of the prophets / are written on the subway walls and tenement halls / and whispered in the sounds of silence». Credo che tra questi versi e l’impatto visivo che queste opere trasmettono, ci sia un collegamento quasi automatico, un’associazione tra suono e immagine che mi lascia spiare tra le fronde di palazzi, strade e sottopassi, per ritrovarmi poi in un vero e proprio campo d’addestramento per futuri profeti che parlano non esattamente una nuova lingua ma esprimono un linguaggio e un’arte non ancora cristallizzata nel tempo, seppur con una notevole storia alle spalle.
Profeti sì, no, forse… sicuramente non sono i profeti biblici curvi, accigliati e barbuti, ma se ben ci si ragiona, questi ultimi non erano certo preti borghesi che oscillavano il bastone o che andavano a braccetto con le autorità. Non erano socialmente accettati, ribelli, indignati per corruzione e peccato, cercando di scarabocchiare con la mente e con le dita i grigi muri del potere.
Profeti sì, no, forse… ma la vita scorre, cambia e tutto si trasforma, sottoposti a questo processo ineluttabile anche i luoghi della profezia. Non più luoghi lontani o eremi sconosciuti, sottratti al vociferare quotidiano. No! «… Le parole dei profeti sono scritte nei sottopassi delle metropolitane e nei corridoi delle case popolari…», le parole dei profeti sono scritte negli spazi di vita quotidiana della massa urbana, negli angoli di realtà che è realtà perché appunto vita vera e tangibile.
Forse profeti, sì, no… forse solo sognatori che hanno «Dreams where the umbrella is folded», come cantava Bob Dylan, sognatori che hanno cercato di trasmettere al popolo messaggi fuori dal sentiero tracciato ma che sono rimasti schiacciati dal loro tempo, dalla loro realtà… forse solo poveri illusi inascoltati.
Bisogna precisare che si tratta di un’arte nettamente contrapposta all’aristocratica pittura da cavalletto non riconoscendo né gli angusti limiti della tela né i racchiusi spazi dei musei. Antenata della street art è la pittura murale, una forma artistica strettamente legata all’architettura e che ha radici lontanissime, dagli affreschi pompeiani alle grandi volte rinascimentali interamente affrescate. Nel corso del ‘900, c’è un cambio di rotta rispetto ai sensuali fregi di Gustave Klimt o alle raffinate pitture liberty di Galileo Chini, si passa a una funzione didascalica e socioeducativa poiché come dirà Mario Sironi: «La pittura murale è pittura sociale per eccellenza». Una pittura quindi che parla alle masse ed è usata per esaltare i valori dell’ideologia al potere, usata dai regimi dittatoriali come propaganda collocandola nei grandi spazi pubblici come Università, Palazzi Ministeriali, Ospedali.
La nascita dei murales risale al fenomeno del Muralismo del Centro America legato a un retroterra culturale che si manifesta dal “basso” come forma espressiva di protesta. Nel Messico degli anni Venti, sulla scia della rivoluzione, la pittura murale (che sarà riconosciuta come Arte Ufficiale della Rivoluzione) diventa uno stimolo per un reale cambiamento socioculturale, disvelando l’esistenza di un’identità culturale messicana, dove i suoi principali interlocutori sono le masse popolari, la classe rurale e contadina.
Soprattutto grazie ai cosiddetti Los tres grandes ovvero Josè Clemente Orozco, Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros (colui che ispirerà Jackson Pollock con la tecnica chiamata “incidente controllato”), il fascino e l’importanza del messaggio sociale vengono accolti in modo rapido dagli Stati Uniti, tanto da spingere il presidente Roosevelt a introdurre il Federal Art Project nel suo piano di risanamento durante la Grande Depressione del ’29. Il progetto riuniva centinaia di artisti che attraverso le loro opere murali sostenevano l’opinione pubblica americana nel momento di massima crisi, miravano a comunicare ai cittadini nuova fiducia diffondendo immagini di serena laboriosità nei campi e nelle fabbriche.
Come disse l’artista sardo Sironi: “L’arte murale del ‘900 si esprime con temi narrativi di linguaggio realista, raccontando in chiave epica episodi che riguardano la comunità e la sua memoria collettiva”.
I murales che fanno da sfondo alla città di Belfast nel Nord Irlanda esprimono la lotta tra protestanti e cattolici segnando un marcato confine tra le due anime di una stessa città. Emergono appunto simboli, colori britannici e una fedeltà religiosa verso la corona nei murales di stampo protestante; quelli cattolici invece celebrano i valori nazionalisti, simboli patriottici come la fenice risorta o immagini di martiri morti per la patria come Bobby Sands. Indipendentemente dallo schieramento, queste opere sono parte integrante della storia irlandese e restano la testimonianza visiva e più viva del suo sanguinoso passato.
Il fenomeno del muralismo apre le sue infinite prospettive anche all’Italia tra gli anni ’70 e ’90, specialmente in Sardegna e in Campania (più propriamente Napoli).
Grazie all’influenza dei muralisti del Centro America trapiantati nel Bel Paese dall’artista cagliaritano Pinuccio Sciola, il popolo sardo del dopo Guerra utilizza questa forma d’arte per denunciare i mali secolari che lo affliggono: la siccità che colpisce animali e pastori, il banditismo, il codice d’onore, la povertà, l’emigrazione, la violenza degli insediamenti industriali che ammorbano la vita dell’isola.
Negli anni ’90 invece l’arte murale esplode nelle periferie di Napoli con simboli di riscatto e messaggi di speranza provenienti da zone degradate e abbandonate dalle autorità locali, segnate da forti emergenze sociali ma sotto il punto di vista demografico giovane e forte. Non raccontano però solo le contraddizioni e le fragilità della città ma ne rivelano anche il suo animo passionale e folkloristico e, immortalando sogni, miti ed eroi, mischiano sacro e profano, antico e moderno, tutta la vita di un popolo dalle mille tradizioni… Napoli è questa!
Da tutte queste commistioni culturali e suggestioni visive prende avvio un fenomeno artistico destinato ad avere molta fortuna in tutto il mondo: il Graffitismo, chiamato anche Writing da cui i Writers (i graffitari). Una libera espressione di creatività e protesta giovanile trasgressiva poiché si appropria illegalmente dello spazio pubblico per trasmettere messaggi concisi e sintetici.
Sorto negli anni ’70 nei quartieri disagiati delle grandi metropoli statunitensi (specialmente New York) circoscritto inizialmente a vagoni del treno, stazioni di metro, sottopassi, si estende piano piano in tutte le città europee, contaminandosi via via col movimento Hip Hop di cui rappresenta l’espressione visiva. Energia, ribellione, identità, hanno un nuovo linguaggio grafico incentrato su gigantesche scritte disegnate su supporti e spazi urbani con bombolette spray: scritte elaborate, colori squillanti e precisi codici stilistici.
La Street Art è l’evoluzione del graffitismo, è arte contemporanea di strada sperimentata e maturata attraverso linguaggi visivi nuovi, forti e impattanti. Nasce negli States grazie ai cosiddetti “artisti colti” newyorkesi (Keith Haring e Jean Michel Basquiat), dilagando poi in poco tempo in Europa agli inizi degli anni ’90. Indirizzandosi direttamente alla massa urbana assume sempre più valore estetico trasformandosi nel tempo in una vera e propria corrente artistica innovativa. I galleristi ora se ne appropriano staccando letteralmente dai muri le opere per esporle nelle gallerie. Street artist come Banksy e Blu si sono rifiutati più volte di presentarsi o addirittura di esporre le proprie opere.
Oggi, a differenza dell’ostracismo iniziale, le amministrazioni comunali e le multinazionali presenti nel territorio, concedono sempre più spazi urbani agli street artists, talvolta commissionandogli opere per marcare l’identità di un luogo, per ridurre il degrado nelle periferie urbane o per promuovere un particolare marchio o prodotto. Purtroppo, e sempre più spesso, la street art assume le sembianze dell’aggressione cromatica della pubblicità.
Certo siamo ormai lontani dai murales di Siqueiros, ma la vita scorre, cambia e tutto si trasforma, ma resta immutato il fascino di opere legate ad uno spazio, sottratte al comune concetto di proprietà privata e donate alla collettività. Immagini in grado di trasformare un muro che divide e confina in una porta aperta verso l’immaginazione, la libertà di raccontare vite, di ricordare eventi, di narrare l’attualità o storie che accomunano e che appartengono a tutti. Almeno finché restano nei «sottopassi delle metropolitane e nei corridoi delle case popolari».
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