Le Déjeuner sur l’herbe e l’Olympia costituiscono una preistoria nell’evoluzione stilistica e intellettuale dell’arte del secolo XIX, senza le quali il trapasso verso le nuove forme della figurazione non sarebbe stato possibile. Resta il fatto che esse rappresentano solamente le necessarie premesse di un ragionamento espressivo che si dovette sviluppare in un denouement (un risultato finale), ovvero nella straordinaria opera intitolata La Musique aux Tuileries.
Manet emana gaiezza; una gaiezza comunicativa, come tutta la sua serena filosofia. Così l’ho visto io. Un’anima soleggiata che amo.
G. De Nittis (notes et souvenirs 1895)
In merito alla questione, ampiamente dibattuta, circa la datazione de La Musique aux Tuileries è importante ricordare l’esistenza di due autorevoli correnti di pensiero. Alcuni studiosi (P. Jamot, G. Wildenstein, A. Tabarant) la dichiarano del 1860, altri (J. Richardson, A. Coffin-Hanson, J. Rewald, A. Callen) la collocano al 1862. La ragione dell’annoso contraddittorio è da ascriversi al carattere apocrifo della data (1862) indicata sul dipinto (elemento certo e universalmente accettato). Essa venne apposta da mano ignota, in tempi successivi rispetto alla firma (sicuramente autografa) e in colore diverso. Il presunto autore potrebbe essere stato il gallerista Paul Durand-Ruel (1831/1922) che la acquistò nel 1872 oppure il collezionista e baritono Jean-Baptiste Faure (1830/1914) che ne entrò in possesso l’anno successivo o, più probabilmente, la vedova dell’artista che autenticò molte opere.
Al di là delle motivazioni che hanno indotto i vari studiosi a esprimersi in un senso piuttosto che nell’altro (motivazioni che sarebbe non soltanto superfluo ma spesso anche difficile, se non impossibile, ripercorrere in quanto non sempre chiaramente documentate) mi pare possa ritenersi più adeguata una terza ipotesi cronologica, afferente al 1863. Le ragioni di questo mio convincimento, desidero ribadirlo, sono di ordine stilistico. Agli inizi del 1863 che nella mente di Edouard Manet andò delineandosi, non senza profondi conflitti, l’ambizioso disegno di dare vita ad un’arte positiva, svincolata dagli acidi dogmatismi dell’Accademia. Di questa formidabile esigenza innovativa si fece portavoce e ideologo Baudelaire, che proprio quell’anno pubblicò sul quotidiano «Le Figaro» di Parigi un saggio intitolato Le peintre de la vie moderne, in cui esortava gli artisti a trattare argomenti della vita moderna con uno stile nuovo e una nuova costruzione pittorica. Questo fatto diventa estremamente significativo, considerando la singolare mancanza di fantasia che induceva Manet a prendere a prestito i suoi soggetti da altri artisti. Naturalmente questa considerazione non ha alcun intento denigratorio infatti è implicito che fosse la sua ispirazione non il suo talento ad avere bisogno di una guida.
Manet è ricorso a molti prestiti; dai morti e dai vivi. E’ un metodo che non è permesso che ai forti, essi sanno che non rischiano di compromettervi la propria originalità. Sia che dipinga con tonalità cupe o chiare, che disegni un rapido schizzo, che incida una tavola di rame che esegua una composizione con più personaggi o con una figura isolata, una natura morta o un paesaggio, Manet è riconoscibile nel più piccolo tratto, nella più piccola pennellata.
precisa Paul Jamot in Réalité ou poésie.
Il carattere fragile dell’artista, privo del benché minimo impeto rivoluzionario, lo induceva, nella sua attività, a mantenere costantemente un atteggiamento guardingo, paventando l’incomprensione del pubblico e il mancato placet della Nomenklatura accademica (circostanze che comunque si verificavano puntualmente). Manet cercava, attraverso l’imitazione non pedissequa dei grandi maestri, un’ispirazione nobile che legittimasse la sua pittura agli occhi ostili dei contemporanei. Ma essendo egli un artista vero, non poteva certo sfuggire alla tirannia del naturale talento, tanto che le sue opere, sebbene nate sotto i migliori auspici di un temperamento mite, esprimevano un impeto inedito e aggressivo che dispiaceva alquanto al pubblico conservatore e alla critica tradizionalista. Manet tentò anche, con estrema onestà, di chiarire al pubblico i propri intendimenti:
È la sincerità ciò che conferisce alle opere un carattere che può sembrare una protesta, mentre in realtà il pittore ha cercato soltanto di esprimere la propria impressione… Non ha preteso né di rovesciare la tradizione né di creare una pittura nuova. Ha voluto semplicemente essere se stesso e non un altro.
(l’artista in queste note curiosamente parla di sé in terza persona). Degas (Hilaire Germain Edgar -1834/1917) suo grande amico, compagno di ventura e artista altrettanto geniale, ricordandone la vita disse:
Manet traeva ispirazione da tutti, da Monet, da Pissarro, persino da me. Ma che meraviglia la maestria pittorica con cui riusciva a farne qualcosa di nuovo! Non aveva iniziativa…e non faceva nulla senza pensare a Velazquez e a Hals. Dipingeva un’unghia e, ricordando che Hals non fa mai le unghie più lunghe del dito, le faceva anche lui così. Aveva un’ambizione sola, diventare famoso e guadagnare denaro. Io gli dicevo di accontentarsi del favore di una élite: chi lavora con tanta finezza non può pretendere di essere capito dalle masse.
Questa fu la sua maledizione e nel contempo la sua grandezza, due facce della stessa medaglia.
Come si è visto Le Déjeuner sur l’herbe e L’Olympia dichiarano esplicitamente le fonti pittoriche da cui vennero tratte, così è anche per La Musique aux Tuileries, sebbene la fonte in questo caso sia squisitamente letteraria. L'opera è di fatto la trasfigurazione pittorica del saggio baudelairiano citato, un richiamo al quale il sensibile Manet non si sottrasse, facendone anzi la sua guida ideologica, legittimata a giustificarne (purtroppo vanamente) le opere agli occhi del pubblico. Egli aveva già iniziato a frantumare la roccaforte dell’ortodossia estetica istituzionalizzata, eliminando poco alla volta il superfluo (le remore scolastiche, i vuoti formalismi, l’idealizzazione, il referente storico) era l’artista più idoneo a portare a maturazione dell’arte moderna. E sebbene i riferimenti letterari dessero ancora, alle sue opere, una parvenza di classicismo, ormai il germe benigno della novità aveva trovato il suo humus vitale e si sviluppava, giungendo a manifestarsi clamorosamente nell’apoteosi della poetica del plein air, La Musique aux Tuileries appunto.
“Quest’opera – afferma Francoise Cachin (1936/2011) – nella storia dell’arte, è senza dubbio una delle prime tappe verso la pittura moderna, che giovani artisti come Bazille, Monet e Renoir sapranno imporre, rappresentando scene della vita quotidiana en plein air, uno dei grandi temi dell’impressionismo”. Nel dipinto (un olio su tela non standardizzata, mesticata bianca, (cm. 76 di altezza x 119 di larghezza) è simbolicamente significativo il soggetto trattato; un’ininterrotta parata di figure, immediate e contemporanee, che riempie la superficie pittorica, ovvero la celebrazione del Tout Paris. Quale tema migliore dunque per rappresentare la vie moderne, offrendo una panoramica degli svaghi cittadini, con i vari personaggi orchestrati sulla superficie del quadro come in un fregio architettonico, senza alcuna gerarchia pittorica né recessione spaziale, a mò di arazzo, utilizzando una composizione organizzata in maniera del tutto inusuale.
…osando individuare col pennello ogni personaggio unicamente nella mutevole sostanza del colore, nella spontaneità degli atteggiamenti, dei gruppi disciolti e ricreati con la naturalezza dell’uomo che guarda la contemporaneità con distacco, ma con l’adesione appena ironica che è data proprio dal suo riconoscersi in essa. E il suo tempo appare ben colmo di promesse…
Sandra Orienti
L’artista per il suo gran finale (preludio dell’era del rinnovamento) creò un suggestivo effetto di palcoscenico, senza convenzioni, senza eloquenza, con uno stile schietto, vivace, dinamico “Il clima delle vie moderne – osserva Richardson – è reso con immediata contemporaneità, nella freschezza di un momento qualsiasi della giornata; il finito e il dettaglio vengono sacrificati per rendere l’impressione di una scena animata”. Manet si sente direttamente coinvolto dalla realtà borghese e lo dichiara con disinvoltura, ritraendosi nell’opera (all’estrema sinistra) in compagnia di amici, analogamente Diego Velazquez si era raffigurato fra i suoi piccoli cavalieri.
Tutta quella festa di colori, di belle donne e di costumi scintillanti dovette curiosamente piacere a Manet soprattutto perché i suoi pittori preferiti, i maestri spagnoli, avevano dipinto la vita che si sgranava intorno a loro
Sandra Orienti
In questo modo egli ne accentua il carattere di frammento del quotidiano, una sorta di testimonianza autobiografica degna delle immagini dell’Illustration, la più accreditata pubblicazione di costume dell’epoca a Parigi. Il quadro è una fedele traduzione in pittura di quanto sosteneva Baudelaire:
Il pittore, il vero pittore sarà colui che saprà farci vedere e comprendere quanto siamo grandi e poetici con le nostre cravatte e con le nostre scarpe di vernice.
E più tardi Mallarmé aggiungerà:
Il pubblico stesso imparerà a vedere le vere bellezze del popolo, sane e solide quali si sono, ebbene, le grazie proprie della borghesia – ses charmes – verranno allora riconosciute degne e prese, dall’arte, a modello. Verrà allora un periodo di pace.
È la dimensione istantanea dell’esistenza, rubata al tempo con occhio fotografico, in cui Manet si dimostra veramente un pittore di frammenti “Ogni personaggio è una semplice macchia, appena definita” precisò Emile Zola, ma non secondo gli intendimenti pregiudizievoli dei suoi abituali detrattori, che in questo carattere individuavano ottusamente i limiti dell’artista (si pensi agli spietati articoli dei critici Albert Wolff e Joseph Péladan). Manet è il novello profeta del divenire, che agisce nell’ottica di un rinnovamento epocale della pittura, capace di trasfigurare in un’opera, con estrema originalità e spirito illuminato, l’esperienza della moderna società borghese, con tocchi rapidi e sicuri, innalzandone i sospiri nervosi sino alle vette sublimi della vera poesia. Come precisa Anthea Callen:
Sono spariti i gesti caricati e le espressioni convenzionali che rendevano eloquente l’arte accademica. Qui invece, le figure che guardano verso l’osservatore, hanno lo sguardo vuoto e assente, con fredda mondana indifferenza …
I personaggi, descritti con affettuosa partecipazione, erano amici e conoscenti dell’artista, d’altronde era sua abitudine inserire volti noti nei quadri, come se quelle fisionomie famigliari contribuissero a dargli un senso di sicurezza e di serenità. Sulla sinistra è riconoscibile (come già ricordato) lo stesso artista con accanto Albert de Balleroy (1828/1872) il pittore e incisore con cui aveva condiviso il suo primo atelier, tra i due si intravede il compositore Jacques Offenbach (1819/1880), direttore d’orchestra al Théatre Français, a destra (seduto) lo scrittore Zacharie Astruc. In secondo piano (di profilo) Baudelaire, intento a dialogare con Théophile Gautier (1811/1872) e lo scrittore lord Taylor, inoltre a sinistra del gruppo (leggermente arretrato) si riconosce il pittore Henri Fantin-Latour (1836/1904) Le due signore sedute, in primo piano, sono M.me Lejosne (con la veletta) e M.me Loubens (o forse M.me Offenbach). Più defilato, verso il fondo, appare Claude Monet (anch’egli di profilo e con una curiosa bombetta grigia) accanto al quale è riconoscibile il pittore Charles Monginot (1825/1900). Sulla destra, intento a conversare con una dama seduta, Eugène Manet, fratello dell’artista, con accanto Jules Champfleury (seduto). A lato il comandante Lejosne nell’atto di salutare due signore, togliendosi il cappello con galanteria.
La Musique aux Tuileries venne esposta presso la Galleria Louis Martinet, 26 Boulevard des Italiens, nel 1863 e successivamente alla mostra postuma del 1884, su prestito del collezionista Faure e ricomparve al Salon d’Automne del 1905. Dopo essere tornata in possesso del gallerista Durand-Ruel questi la rivendette a Sir Hugh Lane che in seguito la donò alla National Gallery di Londra. Nelle opere di Manet tradizione e spirito innovativo si compenetrano e interagiscono in una dimensione singolare ed esclusiva; con La Musique aux Tuileries egli progetta il mito della vie contemporaine seguendo, come un teorema pitagorico, il programma estetico baudelairiano, per “cogliere nella moda ciò che essa può contenere di poetico nel dato storico e fissare l’eterno del transitorio”. Egli riuscì a infondere nella composizione un respiro così fresco e inedito che dovette ispirare ai suoi stessi ammiratori un sentimento di stupore e di ebbrezza, paragonabile soltanto al sentimento che quarant’anni più tardi animerà l’entourage artistico di Picasso (Pablo Ruiz y – 1881/1973) dinanzi a Les Demoiselles d’Avignon. Il merito di aver delineato in modo esaustivo la poetica di Edouard Manet e di averlo fatto con tempestiva acutezza, è da ascriversi in prima istanza al poeta Stephane Mallarmé, il cui saggio The Impressionists and Edouard Manet del 1876, per molti anni misconosciuto, costituì un vero supporto teorico all’opera del pittore, un’indispensabile arma di sostegno e di attacco. Nel saggio, in cui è evidente l’illuminante parallelismo tra due solitudini: quella del poeta e quella del pittore, Mallarmé imposta la sua esegesi su due presupposti linguistici, l’avverbio temporale la prima volta e l’aggettivo sostantivato nuovo, che costituiscono le chiavi di lettura dell’operare artistico di Manet. Infatti essi presuppongono un processo di cancellazione da attuarsi nei confronti dell’insegnamento promosso dalle scuole e dalla tradizione. Ne consegue l’oblìo del déja vu, già visto e conosciuto e la resistenza alla memoria storica, come ha osservato Alberto Boatto (1929/2017) nell’introduzione al saggio ripubblicato nel 1979. Attraverso questo processo di cancellazione, l’artista emenda il suo spirito da ogni residuo retorico, affacciandosi sulla soglia del vuoto e dell’assenza, territorio indispensabile per recuperare la “capacità dell’occhio di vedere ciò che guarda per la prima volta” attingendo al nuovo grazie al filtro neutro dell’astrazione. La neutralità appunto e la spersonalizzazione dell’arte sono i fondamenti ineludibili della nuova sintassi pittorica, la cui radice obiettiva è depositata nell’anonimia della vita moderna. Come sosteneva Martin Heidegger:
Nel pensiero contemporaneo la condizione dell’uomo e il suo modo di essere si inscrivono nella banalità del quotidiano.
Ma come potè compiersi la fondazione pittorica della modernità? Quali elementi concorsero alla sua gestazione? Sostanzialmente giocarono un ruolo fondamentale tre fattori: l’aria, la luce e il movimento, che gli artisti, a partire dalla seconda metà del XIX secolo cercarono di interpretare pittoricamente, liberando le loro composizioni dai rigidi schematismi classici. In questo processo di metamorfosi culturale e stilistica concorse inoltre un fondamentale elemento ideologico: la sociologia, intesa come valore iconografico, i cui mutamenti progressivi e irrevocabili coinvolsero ogni aspetto della società ottocentesca che, abbandonato l’immobilismo dei secoli precedenti, iniziò a dinamizzarsi con sorprendente rapidità, acquisendo ritmi frenetici e contagiosi, condizionando anche l’arte che non poté sfuggire ai cambiamenti, abbandonando i farraginosi meccanismi accademici che, nonostante il loro violento attrito, saranno resi sterili e frantumati dallo scorrere del tempo e dall’avanzare della modernità. Aria, luce e movimento, con il loro potere dissolvente e unificatore, sono dunque i traslati pittorici con i quali Manet interpreta la vita reale, in una totale e assoluta indipendenza che dissimula la solitudine tragica e il dramma esistenziale che si nasconde dietro l’apparente Joie de vivre. Tutto ha un prezzo e la libertà che l’artista moderno esige per sé e per gli altri è un frutto amaro, che non può che essere assaporato con la sofferenza, come dimostrano le parabole artistiche di molti pittori suoi contemporanei e successivi: Monet. Cézanne, Degas, Van Gogh, Gauguin, Rousseau, Modigliani, Utrillo… Naturalmente la pittura di Manet non manifesta la denuncia o la condanna, non ha velleità profetiche o apocalittiche, non nasconde (se non raramente) un messaggio politico ma rappresenta soltanto una riflessione spassionata sull’esistenza. L’artista garbatamente suggerisce e ci concede qualsiasi supposizione sul significato delle opere che realizza. Questo atteggiamento filosofico trasse in inganno anche Emile Zola, quando a proposito delle sue opere scrisse:
Non ha mai commesso la sciocchezza, commessa da tanti altri, di voler mettere delle idee nella sua pittura.
Una considerazione estremamente inesatta in quanto nella pittura di Manet è presente l’idea prima, nuova, assoluta, onnipervadente, ancor oggi attuale, del caos sociale che affligge e minaccia l’uomo moderno, per cui l’artista sente di doversi impegnare per assicurargli la separazione dal mondo, creando, come disse Malraux:
Un mondo non solo distinto dal mondo delle apparenze che definiamo realtà ma superiore a questo mondo, perché dotato di un ordine interiore, di un significato di cui il mondo dell’apparenza è privo.
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