Una volta conclusasi la Seconda Guerra Mondiale, il mondo intero avrebbe potuto, e soprattutto voluto, tirare un sospiro di sollievo e sperare in un’epoca migliore della precedente; invece i decenni che seguirono furono attraversati da svariate paranoie, una delle tante fu causata dalla minaccia di un nuovo conflitto ancora più devastante. Di conseguenza il cinema di quegli anni si trasformò nello specchio sulla cui superficie gli spettatori videro riflessi i propri terrori.
Negli Stati Uniti serpeggiava la paranoia causata dal “pericolo rosso” proveniente dall’Unione Sovietica. L’America si fece portavoce di una vera e propria crociata anticomunista; la guerra fredda, combattuta su più fronti, concretizzò quanto espresso dalla dottrina annunciata, nel marzo del 1947, dal presidente Harry Truman, sempre più preoccupato per l’invadenza sovietica. Presero piede l’incubo di complotti, orditi dai comunisti per impadronirsi dei paesi occidentali, e l’angoscia di un conflitto atomico. Queste ossessioni, via via sempre più radicate, ispirarono il grottesco film Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba diretto da Stanley Kubrick, interpretato da un irresistibile Peter Sellers e proiettato per la prima volta nel 1964.
Fu a questo punto che decisi di trattare la storia come una commedia-incubo. […]. Nel contesto dell'imminente distruzione del mondo, l'ipocrisia, le incomprensioni, la lascivia, la paranoia, l'ambizione, gli eufemismi, il patriottismo, l'eroismo ed anche la ragionevolezza possono evocare un'orribile risata.
Il generale Jack D. Ripper, comandante di una base aerea statunitense, invia ad un gruppo di bombardieri l’ordine di attaccare i rispettivi obiettivi presenti su suolo sovietico. Quando il presidente Merkin Muffley realizza che un eventuale bombardamento innescherebbe l’ordigno della fine del mondo, darà il via ad una surreale corsa contro il tempo per frenare i bombardieri e salvare così l’intera umanità da una sicura estinzione causata dallo sprigionamento di una nube tossica. Tramite questa farsa nerissima Kubrick si divertì a “giocare” con paure all’epoca molto comuni costringendo lo spettatore a riderne; la visione della pellicola divenne, quindi, un momento catartico che permise il liberarsi, anche se momentaneamente, da una paranoia che fu, in questo caso, esasperata e ridicolizzata. Nel Dottor Stranamore, inoltre, Stanley Kubrick dichiarò apertamente l’insensatezza delle guerre. Il vero problema, ciò di cui gli americani dovevano realmente preoccuparsi, erano gli uomini che occupavano le alte sfere del potere – generali, presidenti, scienziati ed ambasciatori – che fomentavano conflitti inumani e pericolosi. Il regista riuscì a disegnare, mediante tinte grottesche, una vasta galleria di uomini al potere con il solo scopo di ridicolizzarli: il generale Ripper che giustifica la propria impotenza sessuale con la teoria della fluorocontaminazione ad opera dei comunisti; l’imbarazzante scontro tra gli uomini di Ripper ed altri soldati americani creduti sovietici travestiti; la telefonata tra il presidente americano e quello russo, completamente ubriaco; la presenza di un nazista come il dottor Stranamore nel Pentagono.
L’oggetto reale del terrore doveva essere il potere sfortunatamente concentrato nelle mani di personaggi folli che per un nonnulla provocavano conflitti su scala globale.
La “paura rossa” fu sentita anche in Italia, legata, forse fin troppo e pericolosamente, agli Stati Uniti. In vista delle prime elezioni nazionali del 1948, l’America caldeggiò affinché non vincesse la coalizione creatasi tra comunisti e socialisti, il Fronte Democratico Popolare; addirittura, in caso di vittoria, sarebbe stato necessario un intervento militare. Nel 1964 il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni de Lorenzo, predispose il Piano Solo che prevedeva, tra i molteplici obiettivi, di internare in Sardegna dirigenti del PCI e della CIGL, socialisti, giornalisti ed intellettuali; questo piano di emergenza fu, probabilmente, appoggiato dal presidente Antonio Segni, sempre più insoddisfatto e preoccupato del governo di centro-sinistra presieduto da Aldo Moro e con vicepresidente il socialista Pietro Nenni. Questa vicenda, come tante altre, ancora oggi, non risulta del tutto cristallina. Nel 1970 il principe Junio Valerio Borghese, fondatore di un partito di estrema destra, con la collaborazione del governo degli Stati Uniti, di affiliati della mafia siciliana e della loggia massonica P2, predispose un colpo di Stato, passato alla storia come il golpe Borghese, che però, all’ultimo minuto, a causa di una misteriosa telefonata, venne annullato. Anche di questa vicenda permangono molte congetture ma poche certezze. In questo clima paranoico, nel 1973, il regista MarioMonicelli diresse uno dei suoi film meno conosciuti, Vogliamo i colonnelli, con protagonista uno straordinario Ugo Tognazzi.
L’onorevole Giuseppe Tritoni, coadiuvato da alcuni loschi militari nostalgici fascisti e da sgangherati criminali, predispone il piano Volpe nera che prevede il rapimento del presidente della Repubblica (nel film l’attore è somigliante ad Antonio Segni) e l’occupazione degli studi della RAI. La realizzazione del golpe, però, si rivelerà un totale fallimento che spianerà la strada, inconsapevolmente, ad uno Stato militarista. La pellicola Vogliamo i colonnelli riprende un espediente che la collega ad altre di Monicelli quali I soliti ignoti e L’armata Brancaleone: infatti il film si concentra su una scalcagnata banda che tenta un’impresa straordinaria fallendo miseramente. I golpisti, uomini potenti, vengono presentanti come figure grottesche e terribilmente sciocche: dal rimbambito e sempre fuori luogo tenente colonnello Ribaud, al colonnello Barbacane che condisce il suo veneto con espressioni romane perché più «virile». Anche il loro primo incontro in una villetta isolata, per definire il piano d’azione, svela tutta la loro dabbenaggine ed inettitudine. Eppure questo manipolo goffo, il cui tentativo di colpo di Stato viene perfino deriso dal presidente una volta scoperto, rivela il lato debole della Repubblica italiana. “Giocando” con quella tensione che caratterizzò gli anni di piombo, Mario Monicelli rifletté sulla fragilità dell’Italia minacciata quotidianamente da forze anti-democratiche, permesse ed appoggiate soprattutto da coloro che erano al potere e desideravano rovesciare l’assetto statale per dare vita ad un nuovo ordinamento. Anche in questo caso la reale minaccia per il regista erano quelle personalità di spicco che sfruttavano la propria posizione per realizzare i propri interessi a danno della nazione.
Dire al cittadino di fare attenzione, di essere vigilante, di non lasciarsi abbagliare solo da episodi clamorosi.
Come la maschera di Giano, anche queste due pellicole hanno una doppia faccia: si ride di gusto della paura, della tensione, della paranoia di quegli anni; ci si preoccupa prendendo consapevolezza del pericolo e della minaccia del potere, sempre più ipocrita, sempre più corrotto.
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