9 settembre 2022

Dorothy Parker, la fustigatrice viziosa (prima parte)


Scusi lei è Dorothy Parker?
Si, perché le dispiace?

Dorothy Parker, pseudonimo di Dorothy Rothschild (il ramo povero dei mitici banchieri ebrei di etnia aschenazita, privo di qualsiasi titolo nobiliare o, semplicemente, un caso di omonimia) nacque la sera del 22 agosto del 1893, alle 21,50, a Long Branch nel New Jersey al 74th Street East e crebbe nell’Upper West Side, sull’isola newyorkese di Manhattan, che unisce Central Park con il fiume Hudson, un quartiere residenziale e commerciale, situato nella parte alta dell’isola (la parte nobile) in cui un numero significativo di lavoratori risultava impiegato, all’epoca, in ambito culturale e artistico, una sorta di ipotetica sedes sapientiae metropolitana, dove si trovano il Lincoln Center e il New York Philarmonic. 

Ultima di quattro figli, due maschi e due femmine: Herry, Bert, Helen e Dorothy, la sua nascita avvenne durante il soggiorno estivo della famiglia, a Long Branch, una pittoresca località di villeggiatura, dove la buona borghesia di New York trascorreva l’estate per sfuggire al caldo torrido di Manhattan, frequentata anche dai facoltosi Guggenheim e da altri ricchi ebrei, tanto da essere soprannominata la Montecarlo d’America. La famiglia Rothschild possedeva un elegante cottage sulla spiaggia, al numero 732 di Ocean Avenue, e Dorothy nacque, prematura e inattesa, quasi per dispetto, in una sera di tempesta, con lampi e tuoni inquietanti. Fu forse un evento profetico; la premonizione di quella che sarà una vita travagliata e costantemente infelice per la piccola infanta. Le cronache riportarono che, la mattina successiva, il paesaggio era devastato: non era rimasta, sulla spiaggia, una sola cabina intatta e un pontile di ferro, di notevoli dimensioni, era stato divelto dall’uragano e portato via dal mare, chissà dove, come un granello di sabbia. Una nottata di autentico furore.

Il padre si chiamava Jacob Henry Rothschild ed era un ebreo benestante di origine prussiana, nato nel 1852  a Montgomery in Alabama. Sempre molto elegante, garbato, rigido e signorile; attivo, insieme al fratello Martin, nell’ambito commerciale, il cui cognome era omonimo dell’illustre dinastia di banchieri. La madre Eliza Annie Marston, in Rothschild, nata nel 1851, aveva origini scozzesi ed era di religione protestante e concepì Dorothy già avanti negli anni (per l’epoca), a quarantadue primavere, morendo a quarantasette, a causa di una malattia incurabile, dopo una lunga e devastante sofferenza. Dorothy, alla morte della madre, avvenuta un mese prima che lei compisse i cinque anni (nel luglio del 1898), rimase molto scossa e in lei si consolidò un ricordo struggente e un indelebile senso di colpa, che l’accompagnò per tutta la vita, motivati dalle credenze dell’epoca, che consideravano i quarant’anni come un limite fatale per le partorienti. Un giudizio erroneo, dovuto a una conoscenza medica all’epoca ancora piuttosto labile. Nel ricordo continuò a rivederla: sdraiata, immobile sul suo letto, astenica, smagrita e irriconoscibile, consumarsi lentamente, giorno dopo giorno, fino a quando non la vide più e la fatidica frase - pronunciata solennemente dal marito Henry (suo padre) davanti ai figli riuniti, chiuse definitivamente il cerchio della speranza - “Eliza, la mia cara moglie, la mia adorata, vostra madre... purtroppo è morta” - “morta... what means morta?”. Parole tragiche e lapidarie che, sebbene non comprendesse del tutto, accentuarono in lei, ancora bambina, piccolo essere delicato, indifeso e vulnerabile, quel senso di colpevolezza che le devasterà il cuore, suscitando un dubbio amletico, un turbamento così intellettualmente raffinato, coerente e profondo da riuscire a stimolare, nel suo cervello infantile, una rabbia razionale. Circostanza davvero inattesa per  una creatura di cinque anni: 

Come ha potuto, mia madre, farmi uno scherzo così cretino? La gente non ha diritto di essere stupida non parliamo poi di morire senza prima avvertire. 

Di quell’improvviso abbandono non riuscì mai a farsene una ragione.

L’autopsia dell’infelice defunta, redatta da un inetto cerusico, non poté essere più insulsa e ridicola in merito alla causa della morte: “diarrea e coliche seguite da debolezza cardiaca”.
In base ai suoi ricordi, Dorothy trascorse un’infanzia infelice, nonostante ce la mettesse tutta, a suo dire, per essere una ragazzina adorabile, sebbene, con molta probabilità, ricordasse volutamente solo gli aspetti negativi di quel periodo; le ferite che dovette subire, le sofferenze patite, a iniziare dal trauma per la perdita della madre, a cui si aggiunsero la severità e l’indifferenza del padre (un uomo razionale, privo di empatia) e l’ insofferenza, sempre manifesta, nei confronti della sua matrigna, una mite maestra di quarantotto anni, di nome Eleanor Francis Lewis, che il padre sposò nel 1900; una donna di buon cuore, sempre indulgente, tollerante, affettuosa e solidale con la piccola, che però Dorothy continuò a detestare, sistematicamente, evitando con lei qualsiasi confidenza e intimità, continuando a chiamarla, con distacco, “Mrs Rothschild” e a volte, con una certa arroganza, semplicemente “ehi tu!” o “la governante”. Donna sfortunata che comunque non visse a lungo; morì all’età di cinquantadue anni, nel 1903, lasciando alla bambina, nonostante tutto, una piccola somma di denaro in eredità. Quasi certamente, Dorothy (chiamata con il diminutivo di Dottie o Dot) esagerò gli aspetti critici della sua vita famigliare, esasperandone i contenuti (in famiglia visse dei gratificanti momenti di serenità insieme ai suoi fratelli) ma non si può escludere che il cinismo del padre potesse averle creato un certo indelebile disagio, soprattutto quando, durante le gite domenicali in cui l’appuntamento fisso era costituito dal pellegrinaggio, di tutta la famiglia, sulla tomba della defunta consorte Eliza, il vedovo, con smaccata teatralità, ne invocava il nome, abbandonandosi a un pianto dirotto, davanti agli sguardi allibiti e attoniti dei congiunti. Ciò contribuì a radicare in lei una profonda sfiducia affettiva nei confronti del genitore e un senso di disgusto per tutte le forme di ostentazione. Nonostante l’origine ebraica del padre e quella protestante della madre, all’età di sei anni venne mandata, insieme alla sorella Helen, a studiare in un collegio cattolico gestito dalle suore: Il Santissimo Sacramento, situato anch’esso nell’Upper West Side, sulla West 79th. Street, a poca distanza dalla magione famigliare, con grande disappunto della piccina, che iniziò, sin da subito, a odiare l’olezzo delle vesti delle ancelle di Gesù (che odoravano di sapone di Marsiglia), la loro ossessione per la pulizia e l’ordine, le ottocentesche aule di quell’austero istituto, la liturgia soffocante, i digiuni obbligatori prima della Comunione e le continue preghiere che le venivano imposte, per la salvezza della sua anima. Una vera tortura, un insopportabile tormento per la giovanissima ribelle.


Nell’istituto religioso frequentò la scuola elementare cattolica romana ma venne espulsa, ancora adolescente, per aver definito l’Immacolata Concezione, con improntitudine e graffiante ironia, una combustione spontanea, scandalizzando tutta la comunità delle consorelle e suscitando l’ira della madre superiora (e quello fu un piccolo assaggio della sua naturale verve denigratoria). In seguito, si iscrisse alla Miss Dana’s School a Morristown nel New Jersey, diplomandosi nel 1911, all’età di diciotto anni. L’anno successivo lo zio Martin morì tragicamente, in seguito all’affondamento del Titanic su cui si era imbarcato e nel 1913 morì anche il padre, lasciandola priva di risorse, a dimostrazione di quanto fosse un uomo irragionevole e imprevidente. A vent’anni dunque, Dottie dovette reinventarsi la vita, per cui iniziò a lavorare come pianista in una scuola di ballo, certamente non ne fu entusiasta (non guadagnava molto) ma ciò le consentì di ottenere una certa, moderata, indipendenza. Era una ragazza minuta, intelligente, di bassa statura, abbastanza carina e chic, fragile e dai lineamenti delicati, con i capelli bruno-castano, un bel sorriso gentile e accattivante, occhi scuri molto intensi e una accentuata miopia ma, essendo altrettanto vanitosa, disdegnò sempre di portare gli occhiali da vista, sebbene sapesse vedere cose che altri non erano in grado di notare: “Di rado gli uomini fan complimenti alle ragazze che portano le lenti”, dichiarò. Le sue grandi passioni erano i vestiti, i cappelli e la moda in generale, ma le piaceva soprattutto scrivere poesie e short stories, che inviava fiduciosa ai giornali e alle riviste newyorkesi. Nello stesso anno «Vanity Fair» pubblicò una sua poesia dal titolo Any Porch riconoscendole, una tantum, la somma di dodici dollari. Dottie ne fu decisamente gratificata, ciò la indusse a perseverare, con rinnovato entusiasmo, nella scrittura, dando sfoggio del suo talento creativo  e, colpo di scena, l’anno successivo, il 1914, le venne offerto un posto come assistente editoriale nella rivista «Vogue» (consorella di «Vanity Fair») direttamente dal direttore di quest’ultima, dal nome impossibile, Mr. Crowninshield conosciuto come Crownie, un signore alquanto insolito e particolare, dall’esistenza  morigerata che, come un frate trappista, trascorreva la sua vita in claustrale astinenza, aborrendo Bacco, tabacco e Venere, dedicandosi, come un missionario laico, esclusivamente al suo lavoro (si diceva che i convegni carnali di ogni genere lo disgustassero – vade retro satana). Il compenso era di dieci dollari alla settimana, e il lavoro consisteva semplicemente nello scrivere le didascalie delle foto di biancheria intima femminile, che venivano pubblicate nell’apposita sezione della rivista. Certamente un’attività non troppo gratificante, in cui comunque la giovane Dottie si impegnò moltissimo, affidandosi alla sua verve pungente, nella ricerca di spunti per rendere le diciture insolite, spiritose e divertenti, applicando, con acutezza, il suggerimento di William Shakespeare: “Brevity is the soul of wit” - La sintesi è l’anima dell’umorismo -. I suoi commenti arguti e scioccanti, spesso apparentemente insensati, suscitarono, in breve tempo, l’ilarità dei lettori e la giovane ci prese gusto a sbizzarrirsi, con sempre maggiore disinvoltura, suscitando il disappunto della direttrice  del giornale Edna (omen nomen) Woolman Chase, che indispettita, la redarguì in numerose circostanze, invitandola a una maggiore serietà “...dall’imbecillità umana nemmeno gli dei più generosi potranno salvarci...” Non ci si poteva aspettare una reazione diversa da una donna all’antica, formalista, acida, maniacale, zitella insoddisfatta (l’esatto contrario del significato del suo nome, che in ebraico vuol dire piacere e delizia), di cui si diceva che neppure i capi intimi più provocanti e osé, se indossati da lei, avrebbero suscitato gli interessi maschili, riuscendo a stimolarne la libidine. La signora Edna (la puritana) pretendeva che le sue impiegate e le giornaliste della redazione si presentassero al giornale in abbigliamento impeccabile, con cappello, guanti bianchi e calze nere. Per questa ragione l’impenitente Dottie affilò su di lei le taglienti armi della satira di cui disponeva in abbondanza, dandole il soprannome di Miss Eager Puritan (la puritana vogliosa) trasformandola, a sua insaputa, in una ridicola macchietta, per divertire le colleghe d’ufficio. Dopo un paio di anni di quel baldanzoso calvario, miss Parker venne chiamata da Vanity Fair per sostituire il critico teatrale della rivista, che stava per trasferirsi a Londra, il celebrato Pelham Grenville Wodehouse, scrittore e umorista inglese, molto prolifico e apprezzato, soprannominato “La pulce ammaestrata della letteratura inglese” per la sua riconosciuta maestrìa nell’utilizzo della lingua e dello stile anglosassone, un vero purista che sapeva usare, con eleganza, un linguaggio sofisticato ma anche un ebreo massone, membro accreditato della Jerusalem Lodge numero 197 di New York, che non eccelleva per creatività e ancor meno per immaginazione. Per Dottie questa opportunità rappresentò il suo grande balzo, che le permise di far conoscere, erga omnes, il suo temperamento e l’estro creativo, caustico e mordace. Il primo articolo (la presentazione ai lettori) fu una sorta di pamphlet che, di fatto, aveva tutti i crismi di una dichiarazione di guerra, il cui titolo era: “I hate women. They get on my nerves” - Odio le donne. Mi danno sui nervi – Naturalmente Dottie si riferiva alle donne tutte casa e chiesa, con l’hobby delle ricette e dei pranzetti squisiti; dedite alla cura del particolare e ai generosi maritini, meritevoli di coccole, sempre sorridenti e grate al sistema, per aver dato loro tanta grazia di Dio e tanta deliziosa abbondanza(?). Iniziò ovviamente a farsi qualche nemico, in quanto, con quell’articolo provocatorio, aggredì sfacciatamente il modello standard della tipica famiglia americana. Per nulla turbata dalle critiche coniò un’altra battuta irriverente: “Odio le donne, mi annoiano, coi loro pranzetti, i loro marmocchi, i loro mariti da compiacere”. In quel nuovo ruolo, così blasonato e rispettabile, acquisì un significativo potere sanzionatorio, che le diede il privilegio di parlar male di chiunque, con facilità, esprimendo giudizi categorici, senza possibilità di replica, la cui efficacia distruttiva era esaltata dalla qualità di una scrittura puntualmente micidiale e chirurgica, nelle valutazioni. Con geniale intraprendenza, adottò un metodo di giudizio assai esclusivo, spesso dissociato dalla rappresentazione da recensire, concedendosi arbitrari voli pindarici, per realizzare piccole creazioni autonome, in cui sublimò il suo piacere dissacratorio. Di una commedia, ad esempio, scrisse: “È una splendida occasione per esercitarsi nel lavoro a maglia e per chi non vi è portato si consiglia di procurarsi un libro”. Una profusione di battute feroci, di perfide derisioni e implacabili maldicenze. In più occasioni, definì il teatro americano di quegli anni ruggenti “Un’autentica schifezza”. La milionaria americana di Cincinnati Sara Sherman Murphy, musa ispiratrice di Francis Scott Fitzgerald per il personaggio di Nicole Diver nel romanzo Tenera è la notte, intima amica di Dottie, che spesso ospitava nella sua villa di Cap d’Antibes, sulla Costa Azzurra (denominata Villa America) disse di lei, con un certo spietato umorismo: “Dorothy era divertente come è divertente cadere dalla finestra e ritrovarsi vivi”. 

Arguta, sarcastica, fustigatrice dei fenomeni di costume americani, cinica analista e indagatrice dell’epoca d’oro dei vizi e delle false virtù di quella società edonista e degenerata, si affermò con il suo spirito autodistruttivo, mai indulgente verso se stessa, maturando la passione per gli uomini belli, dannati e fragili come il cristallo, che si innamorarono di lei e la sposarono, rivelando ben presto le loro nefandezze, i vizi, le turpitudini e l’immaturità da cui erano afflitti. Grazie a queste figure umanamente vuote e inconsistenti si consolidò nel suo animo il disprezzo per l’umanità maschile: “Quanto sono orribili gli esseri umani, specialmente il maschio della specie”. Nel 1916 conobbe un coetaneo di nome Edwin Pond Parker II, detto Eddie, un giovane bellissimo, allegro, elegante, alto e ricco, che svolgeva l’attività di broker alla borsa di New York, e se ne innamorò perdutamente. Alla fine di giugno del 1917 si sposarono a Yonkers, nell’elegante contea di Westchester e Dottie da quel momento decise di utilizzare il cognome Parker, con cui iniziò a firmare i propri lavori, abbandonando definitivamente il suo, in quanto il cognome Rothschild non le era mai piaciuto, trovandolo insulso e ridicolo, rappresentativo del mondo arrogante e senza scrupoli dell’alta finanza, come d’altronde odiava essere ebrea. Proprio in quel periodo, il 6 aprile del 1917, gli Stati Uniti entrarono in guerra e Eddie venne arruolato e inviato in territorio francese, come autista di ambulanza, assegnato alla quarta divisione di sanità. La giovane sposa, amareggiata e triste commentò: “sono stata una moglie solo per cinque minuti”, ma la sua ironia si trasformò rapidamente in delusione; nel corso di quel temporaneo e necessario distacco, emerse e si concretizzò, profeticamente, la fugacità di un matrimonio sbagliato. Sebbene lei gli scrivesse, quotidianamente, lettere appassionate e amorevoli Eddie, caratterialmente troppo sensibile, sconvolto dalla visione delle spaventose ferite che dilaniavano i corpi dei suoi commilitoni, dalle sconvolgenti lacerazioni della carne umana e dalle scene di inaudita sofferenza, di panico e follia di cui era, suo malgrado, impotente  testimone. Tormentato dalle grida selvagge dei feriti, dal sangue e dai rantoli disumani dei moribondi, devastato dall’angoscia che, senza requie, lo assillava costantemente, le inviò, da quell’inferno, solo poche cartoline, con messaggi freddi e laconici, riversando tutta la sua attenzione sull’alcool, tanto da essere spesso ubriaco durante il servizio e privo della necessaria consapevolezza. In tali condizioni, rischiò di causare degli incidenti mortali, correndo, a tutta velocità, con il suo Ford Model T, sulle strade dissestate dei campi di battaglia, trasportando mutilati e morenti verso gli ospedali. Un altro aspetto che ne segnò in modo tragico la mente e il fisico fu il frequente utilizzo di morfina (la cui funzione è quella di lenire i dolori fisici) Eddie, lavorando nella sanità, aveva libero accesso alle scorte della sostanza e la utilizzò soprattutto per anestetizzare i dolori della sua psiche che, gradualmente, lo stavano avvicinando alla follia. Nel dicembre 1918, al suo rientro in patria era di fatto un drogato e un alcolizzato irrecuperabile, ormai solo più il fantasma del giovane brillante, partito per la guerra un anno prima; un personaggio tragico e maledetto, imprigionato nel tunnel della disperazione e della dipendenza, che entrò subito in conflitto con la giovane moglie, confusa e incapace di comprendere e accettare le laceranti ferite di una mente devastata. Dottie, riversò tutta la sua delusione nella poesia Too bad - Che peccato – stigmatizzando le miserie di un matrimonio disfunzionale, in cui non c’era più nulla da dire. Fu la triste fine di un amore perduto. I due si separarono molto presto e divorziarono, ufficialmente, solo nel 1928. Dorothy continuò a mantenere il cognome dell’ex marito e ogni volta che qualcuno le chiedeva se ci fosse un signor Parker, rispondeva sarcasticamente: “Una volta c’era”. Eddie, dopo aver tentato una seconda e fallimentare esperienza matrimoniale con una certa Anne O’Brien, morì suicida a trentanove anni (nel 1933) nell’ospedale di Hartford, Connecticut, dove era stato ricoverato in seguito a un’overdose di sonniferi, così venne precisato nella perizia autoptica redatta dal dott. Henry N. Costello.

Giuseppe Filippo Vietti


Seconda parte

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