Non mi preoccupa quello che scrivono di me, basta che non dicano la verità
Dal 1927 al 1933 recensì con regolarità su «The New Yorker» nella sua rubrica fissa denominata Constant Reader, con il suo solito tono aspro e provocatorio. Nel primo anno della sua collaborazione con la rivista, scrisse una recensione entusiastica e provocatoria su Ernest Hemingway che venne pubblicata il 29 ottobre:
Lo stile di Hemingway, la sua prosa scarnita fino all’ossatura giovane e salda, è assai più d’impatto, assai più commovente nei racconti che non nel romanzo. E, a pare mio, Hemingway è il più grande autore vivente di racconti; e, sempre a parer mio, non è il più grande romanziere vivente […] Hemingway è un genio perché dispone di un infallibile senso selettivo. Elimina i dettagli con munifica prodigalità; tiene le parole al piccolo trotto. Come ogni lettore sa, è un’influenza pericolosa. Le semplici cose che fa sembrano così facili da imitare. Ma guardate un po' come se la cavano quei tizi che ci hanno provato.
Paradossalmente, nonostante il suo spirito schiettamente democratico e il sangue ebraico che le scorreva nelle vene, ebbe una fugace relazione anche con l’editore e sociologo statunitense Seward Bishop Collins, laureato a Princeton; un losco figuro, collezionista di materiale erotico, bon vivant, depravato ed erotomane, politicamente schierato all’estrema destra, peroratore convinto della causa nazionalista e fascista, sin dagli anni Venti. Nella sua pubblicazione più importante «The American Rewiew», elogiò, in un delirante saggio, i dittatori Benito Mussolini e Adolf Hitler, definendo assurde menzogne le atrocità commesse dai nazisti che, comunque, anche se fossero state vere, si sarebbero dovute considerate come del tutto trascurabili, a fronte di un evento così epocale e straordinario come il terzo reich, che aveva il merito di aver schiacciato, per sempre, la minaccia comunista. Inoltre, in un’intervista rilasciata a un periodico filo-comunista dichiarò: “Sono un fascista. Ammiro molto Hitler e Mussolini. Hanno fatto grandi cose per i loro paesi” (sic!) e più avanti, in merito alla persecuzione degli ebrei: “Non è persecuzione. Gli ebrei creano problemi. È necessario segregarli” (sic!). In sostanza un essere ripugnante a tutto tondo!
La vita della Parker dunque, fu costellata di amanti, giovani (di preferenza) e meno giovani, che si succedettero, negli anni, con una sempre più sistematica frequenza nel suo letto accogliente, colmo di petali di rosa, ma senza lasciare traccia. Sebbene lei amasse trafiggerli, come un’abile spadaccina, con il suo fioretto avvelenato. La sua esistenza venne caratterizzata dal disordine psichico e fisico e dal vuoto sentimentale, e lei la accolse come una grande illusione, in modo del tutto disincantato, come se non le appartenesse, perfettamente in sintonia con quella verità, citata nel romanzo Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald che si sublima nella frase: “A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere”.
Francis Scott Fitzgerald |
Nonostante l’insanabile travaglio interiore, in quei ruggenti anni la sua creatività fu assai prolifica; nel 1926 pubblicò Enough rope – Abbastanza corda - un volume di versi e nel 1928 Sunset gun – Pistola al tramonto - un volume di poesie. Nel 1929 vinse il premio letterario O. Henry Prize Award, per la novella Big Blonde (pubblicata sulla rivista «The Bookmann») considerata il suo capolavoro. Purtroppo, preda indifesa della depressione, tentò ancora (seppur svogliatamente) il suicidio; scampata alla morte, ironizzò sull’evento nella poesia Rèsumé:
I rasoi fanno male
i fiumi sono freddil’acido lascia traccele droghe danno i crampile pistole sono illegalii cappi cedonoil gas ha un odore nauseabondo…Tanto vale vivere.
Il decennio tra il 1920 e il 1930 fu molto prolifico per la Parker, che in quel periodo scrisse circa trecento poesie. Nel 1930 seguì un’altra pubblicazione, Laments for the living – Lamenti per i vivi – nel 1931 Death and taxes – Morte e tasse – e nel 1933 After such pleasures – Dopo tali piaceri. Raccolte di racconti scarni e incisivi, a volte spiritosi ma più che altro agrodolci e sardonici. Opere che fecero di lei la regina (o l’ape regina) dei salotti letterari newyorkesi, in cui ostentava (avvolta nel suo boa di piume di struzzo, con il barboncino Lilly al seguito, circondata dal fumo di una Chesterfield) un esistenzialismo degenerato, la precarietà e la vanitas vanitatis dei piaceri umani, intervallandoli con sostanziosi bicchieri di gin tonic, o martini e qualche pasticca di Seconal (un barbiturico con proprietà sedative e ipnotiche). – mi si perdonerà l’amenità ma, per ironia della sorte, negli States, ancor oggi, è in vendita il Dorothy Parker American Gin, prodotto esclusivamente a New York City che, per quanto riguarda il suo contenuto, riporta sull’etichetta: “Alcool di segale ridistillato tre volte in pot still. (un alambicco a doppia distillazione) Affinamento in botte per tre mesi. Prodotto con sambuco, anice stellata, ginepro, hibiscus, pompelmo, limone, arancio, miele, cardamomo e cannella”. Un prodotto di assoluta qualità… Chissà se Dottie, da fedele consumatrice e navigata umorista dalla scorza dura, ne andrebbe fiera -.
Lo scrittore britannico e bisessuale William Somerset Maugham, autore, nel 1915, del romanzo Schiavo d’amore che umanamente condivideva con lei il dramma per la perdita della madre, avvenuto in tenera età (che per entrambi rappresentò un mai sopito trauma esistenziale) amava moltissimo le sue opere e in più occasioni espresse, al riguardo, giudizi lusinghieri:
Dorothy Parker ha scoperto una verità grave e salutare al tempo stesso: in quasi tutte le nostre più sentite disgrazie, si annida qualcosa di irreversibilmente assurdo, se non addirittura comico
e ancora:
Nelle poesie, effimere come un batticuore, rapide come una rapina, illuminanti, piene di aghi, si rivela la quintessenza del suo talento.
Uno dei suoi più illustri estimatori fu certamente Rudyard Kipling, il gentile scrittore e poeta britannico autore de: Il libro della giungla, nel 1894 e di Capitani coraggiosi nel 1897, che leggeva, con interesse, le critiche sferzanti di Dottie, divertendosi moltissimo. Al contrario, la scrittrice statunitense, originaria dell’Ohio, Dawn Rowell, quasi coetanea di Dottie, fu la sua più acerrima nemica e nutrì per lei una viscerale antipatia. Non la si può certo biasimare se usò termini molto duri e veementi, annoverandola tra le fila dei distruttori: quegli individui crudeli (più demoni che esseri umani) tendenzialmente infelici, perennemente insoddisfatti e privi di rimorso, che si nutrono, come parassiti insaziabili, delle loro frustrazioni e ambizioni infantili, distruggendo le ambizioni e la felicità altrui. Il ritratto, dipinto a tinte fosche, di una donna e di una scrittrice ribelle, intelligente, libera, istrionica, ironica, pungente, disperata e soprattutto dalla complessità devastante; parimenti cruda e lacerata, spiritosa e disincantata. Un ritratto realizzato con estrema (e forse eccessiva) animosità, da un’altra donna e scrittrice, più coerente ed equilibrata nelle scelte personali, che si sentì oltraggiata nella sua natura femminile e reagì di conseguenza (la guerra fra due donne determinate e senza scrupoli è sempre all’ultimo sangue) senza riuscire a suscitare particolare risentimento nella Parker (che se ne fregava delle chiacchiere altrui).
Rudyard Kipling |
Del 1936 pubblicò il volume di poesie Not so deep as a well – Non così profondo come un pozzo a cui si potrebbe associare (come una sorta di pensiero consolatorio) You might as well - Potresti anche vivere -. È datata 1936 la raccolta Here lies - Il mio mondo è qui – una sorta di zibaldone di opere conosciute e di opere inedite, che le conferì la fama internazionale ed ebbe il privilegio di essere tradotta da uno dei massimi Poeti italiani e suo ammiratore, Eugenio Montale, che alcuni anni dopo ottenne il premio Nobel per la letteratura. Un importante riconoscimento ufficiale lo ricevette nel 1958, dall’Accademia Americana di Letteratura, che le riconobbe il premio delle arti e delle lettere, direttamente dalle mani del direttore Malcom Cowley. Si racconta che quando salì sul palco tutti i presenti si alzarono in piedi e Dorothy, che non se lo aspettava, rimase attonita e turbata. A chi le fece notare che era la prima volta, nella storia dell’istituzione, che veniva tributata una così entusiastica standing ovation a un premiato, rispose, tra l’ingenuo e il faceto: “Davvero si sono alzati per me? Credevo si fossero alzati per andarsene”. Come dicevano i saggi “Il talento non è acqua”.
Nonostante le dissolutezze e gli atteggiamenti frivoli della sua vita, Dottie nutrì nell’animo un sincero senso etico (dimostrando di non essere solo una donna scintillante e mondana) che la spinse a partecipare alla vita sociale e politica del suo Paese. Fu un’attivista e una suffragetta molto efficiente che, con spirito di onestà e di solidarietà, lottò a favore della libertà e contro ogni forma di diseguaglianza: l’apartheid, le guerre, il razzismo, l’emarginazione delle minoranze e ogni altra discriminazione fisica e intellettuale, e a favore dei diritti delle donne, dimostrando un’encomiabile nobiltà d’animo. Non ebbe timore a manifestare le sue simpatie di sinistra, tanto da appoggiare e patrocinare la nascita della Lega antinazista di Hollywood. Nel 1927, insieme alla giornalista femminista Ruth Hale (associata alla tavola rotonda dell’Algonquin) e allo scrittore John Dos Passos, si recò a Boston, per protestare contro l’esecuzione di Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, condannati a morte, con una falsa accusa di omicidio. Purtroppo, nonostante le veementi proteste di buona parte dell’opinione pubblica, schierata in loro favore, i due infelici vennero giustiziati, il 23 agosto di quel fatidico anno, sulla sedia elettrica, nel penitenziario di Charlestown, presso Dedham sul confine con la città di Boston. In quella circostanza Dottie e i suoi compagni subirono l’umiliazione dell’arresto ingiustificato, da parte delle autorità, con la ridicola accusa di vagabondaggio.
Nel 1936 allo scoppio della guerra civile in Spagna, si recò, coraggiosamente sul posto, come reporter di guerra, al fianco dei volontari statunitensi del Battaglione “Lincoln” (in difesa della causa repubblicana lealista). Scrisse articoli appassionati, sulla rivista di sinistra «The New Masses», contro la repressione e la dittatura franchista, biasimando la squallida figura del generalissimo Francisco Franco uomo crudele, pruriginoso e insignificante (dimostrandosi, in questa sua foga antimilitarista, una sorta di ante litteram della grande giornalista italiana Oriana Fallaci, sua epigona, anni dopo, nelle guerre del Sud Est asiatico). In questo modo riuscì a guadagnarsi l’ostilità del governo degli Stati Uniti che, una volta rientrata in patria, le revocò il passaporto per l’Europa. Come se ciò non bastasse, nei controversi anni ‘50, in piena guerra fredda, a causa delle sue simpatie di sinistra, cadde nella trappola del maccartismo, sebbene non si fosse mai iscritta a nessun movimento politico. Venne inserita nella lista nera di Hollywood, con gravi ripercussioni per il suo lavoro, pertanto indagata dal Federal Bureau of Investigation, come un pericoloso criminale (al pari del gangster Dillinger) che le tenne gli occhi addosso per alcuni anni, per ordine del tenebroso, ridicolo e depravato capo del dipartimento investigativo J. Edgar Hoover, un essere miserabile e senza vergogna.
Questa vita, ti giuro, questa vita non è stata idea mia.
Nella poesia Inventario scrisse:
Quattro cose conosco molto beneOzio, dolore un amico e un nemicoDi quattro cose avrei poi fatto senzaAmore, curiosità, lentiggini e dubbioTre cose non potranno mai essere mieSoddisfazione, invidia e champagne a sufficienzaTre cose avrò finché rimango in vitaRiso, speranza e un pugno nell’occhio.
All’età di 38 anni si invaghì di un certo John McClain, e generosamente gli offrì la sua alcova: era un ragazzo di 23 anni, conosciuto per caso a una cena, un modesto giornalista, alle prime armi, che furbescamente cercò di facilitarsi l’ascesa professionale esprimendole, con atteggiamento smaccatamente cerimonioso, tutto il suo ossequio. Quando la conobbe, sorridendole le dichiarò con enfasi: “Ho letto tutto quello che ha scritto, è bellissimo” e lei sarcastica, gli rispose: “Grazie è gentile. Sa anche leggere?”. A 50 anni (l’età del disarmo) scese ancora più in basso, scegliendone uno di 27, suscitando nel suo entourage di pettegoli, divertiti e maliziosi commenti. Quod volebat demonstrandum, acta est fabula!
Ma è nel 1932 che conobbe Alan Campbell, un giovane di 28 anni (nato nel 1904) bello, biondo con un fisico perfetto e soprattutto di undici anni più giovane di lei. Nato a Richmond in Virginia, era un ebreo tedesco-scozzese matrilineare, cioè uterino*. Alan era un uomo del sud, dal sangue caldo e con tendenze bisessuali ma pazienza, a lei piacque subito e se ne innamorò, sebbene lo trovasse “queer come un caprone” cioè strano e particolare (ovviamente). Era un attore senza talento che si barcamenava in piccole e insignificanti particine, sbarcando il lunario come poteva, ma era anche un aspirante sceneggiatore e con Dottie riuscì ad esprimere una certa apprezzabile creatività, comportandosi sempre da gentiluomo, da marito premuroso e riconoscente, sebbene fedifrago, con entrambi i sessi. La felicità pareva finalmente aver arriso alla Parker e due anni dopo si sposarono a Raton, nel New Mexico, quindi si trasferirono a Hollywood, formando un sodalizio vincente per molti anni, fino al 1963 (anno della morte di Alan). Ottennero dei lucrosi contratti dalla Paramount Pictures, riuscendo a guadagnare anche 5000,00 dollari a settimana (una cifra straordinaria, soprattutto se si considera che era il periodo della Grande Depressione) lavorando inoltre come freelance nella sceneggiatura di molti film di successo. Nel 1937 vinsero l’Oscar, insieme al loro collega e attore Robert Carson per la sceneggiatura del film A star is born - È nata una stella -. Con Alan la vita non fu sempre rose e fiori, ci furono molti alti e bassi. Nel 1944 Alan era in Europa, arruolato nell’esercito degli Stati Uniti e Dottie viveva sola e sconsolata a New York; i tempi della passione erano lontani e la donna, consapevole dei ripetuti tradimenti del marito, in un malinconico moto di gelosia gli dedicò alcuni versi molto intensi:
Solo ti chiedo per le notti che furono,
Soldato e per le aurore che vennero,
Quando nel sonno ti giri verso di lei,
Chiamala con il mio nome.
Nel 1947 ottenne la nomination per la co-sceneggiatura di Smash-up – The story of a woman – La storia di una donna. Nello stesso anno Dorothy e Alan divorziarono, per poi risposarsi qualche anno dopo, nel 1950 (un vero tira e molla) in seguito vissero separati dal 1952 al 1961, e la Parker, in quel periodo, soggiornò una prima volta, all’Hotel-residence Volney di New York, per poi ritornare a Hollywood e riprendere l’infelice convivenza:
Si potrebbe pensare che ci si abitua, in sette anni, ci si rende conto che le cose stanno così, e ci si rassegna. Ma non è vero. Una cosa simile ti logora i nervi. Non era uno di quei silenzi intimi, pieni di familiarità, che di tanto in tanto si stabiliscono tra persone vicine. Ti fa sentire come se dovessi fare qualcosa per rimediare, come se non stessi compiendo il tuo dovere.
In quegli anni, tra il 1957 e il 1962 collaborò, come critico letterario, con la prestigiosa rivista maschile statunitense «Esquire», fondata nel 1933. Un periodico che annoverò, tra i suoi collaboratori, figure di spicco della cultura internazionale, basti ricordare: Ernest Hemingway, William Faulkner, John Steinbeck, John Dos Passos, Truman Capote, Francis Scott Fitzgerald, Alberto Pincherle-Moravia, André Gide… e su cui la Parker, nell’ottobre del 1958 recensì il romanzo Lolita di Nabokov:
Lolita, come senza dubbio sapete, ha passato un bel po' di guai, scatenando un pandemonio infinito. Non credo che Lolita sia un libro sudicio. Non riesco a considerarlo come pornografia, pura, senza limiti, o di qualsiasi altro genere. È la storia coinvolgente, angosciata di un uomo, un uomo di gusto e cultura, che riesce ad amare solo le bambine. (sic!) Devono avere un’età compresa tra i nove e i quattordici anni, e lui le chiama nifette.[…] È un libro angoscioso, ma a volte sfrenatamente divertente, come nella saga del viaggio del protagonista per tutti gli Stati Uniti, con la bambina, in cerca di un luogo che possa piacerle; e nel resoconto di quel pellegrinaggio ci sono descrizioni del retroterra americano che Sinclair Lewis non avrebbe mai raccontato. […] È nella scrittura che Nabokov ha creato un’opera d’arte. Nabokov, sapete, lo stesso tizio che ha scritto i racconti delicati in Pnin, ha iniziato a scrivere in inglese molto dopo aver passato la prima giovinezza. La sua padronanza della lingua è assoluta, e Lolita è un bel libro, un libro che si distingue. E va bene: un grande libro.
Un romanzo scandaloso, una storia di pedofilia che Dottie apprezzò e difese, con una certa morbosità, come poteva essere altrimenti? Ma la questione più scabrosa, emersa in tempi recenti, riguarda l’originalità del romanzo che a quanto pare venne saccheggiato o addirittura copiato integralmente; in parole semplici, si trattò di una questione di plagio letterario. A suscitare un vero vespaio di sospetti riguardo la storia di Lolita, fu il critico letterario tedesco Michael Maar che, nel 2004, sostenne che la trama del romanzo fosse ispirata a un racconto di un misconosciuto giornalista di nome Heinz von Eschwege, pubblicato postumo, nel 1916, con lo stesso titolo: Lolita.
Ormai i protagonisti della vicenda sono tutti scomparsi, da molto tempo, quindi è perfettamente inutile rinvangare gli aspetti imbarazzanti di una critica che non solo non aveva voluto sanzionare il contenuto scabroso e discutibile del romanzo (in fondo anche in lei albergava una certa morbosità) ma ne aveva avvallato, seppur inconsapevolmente, la paternità di Nabokov, omaggiandolo con un lusinghiero giudizio di uomo di gusto e cultura. Per quanto concerne la pedofilia o meglio l’efebofilia (vista l’età della fanciulla precisata nel romanzo) possiamo concludere pensando che, in quell’occasione, la Parker, forse per distrazione, stanchezza o vecchiaia, si fosse dimenticata dei sacrosanti diritti delle donne, soprattutto se minorenni.
Alan Campbell morì il 14 giugno del 1963 a West Hollywood, in California, all’età di 59 anni. Fu la stessa Dottie a trovarlo, raggomitolato nel letto, con un sacchetto di plastica legato intorno al collo e un mozzicone di sigaretta tra le dita. A terra, un tubetto vuoto e alcune capsule del barbiturico Seconal, detto Red Devil o Reds. Il referto autoptico, redatto dal medico legale precisò: “Avvelenamento acuto da barbiturici” “Probabile suicidio”. Un’altra tragedia... una delle tante, nella sua fragile e assurda vita; la goccia che fece traboccare il vaso. Dottie, esausta e sopraffatta dal dolore – percorrendo il suo viale del tramonto – si ritirò definitivamente a New York, all’hotel Volney, in paziente attesa del definitivo congedo.
Anni prima, il 21 dicembre del 1940, era morto il suo caro amico/nemico Francis Scott Fitzgerald (mostro sacro della letteratura internazionale) all’età di 44 anni, a causa di un attacco cardiaco. Al funerale, che si svolse nel piccolo cimitero di Rockville, nel Maryland, parteciparono poche persone, a dimostrazione che i grandi spesso lasciano questo mondo insulso in perfetta solitudine. La Parker, commossa davanti al feretro, con il viso contratto nel dolore, ricordando una frase del romanzo Il Grande Gatsby (il terzo scritto da Scott Fitzgerald) esclamò a mezza voce: “Povero vecchio bastardo” suscitando l’imbarazzo e lo sconcerto dei presenti.
A proposito dei partecipanti alla tavola rotonda dell’Algonquin, (con cui interagì per un decennio) la Parker, negli ultimi anni della sua vita usò, nei confronti di molti di loro, un tono denigratorio, sminuendone (e non a torto) il presunto ruolo intellettuale.
Questi non erano giganti. Pensa a chi scriveva a quei tempi: Fitzgerald, Faulkner, Dos Passos, Hemingway... Quelli erano i veri giganti. La tavola rotonda erano solo un sacco di persone che raccontavano barzellette e si dicevano l’un l’altro quanto fossero bravi e divertenti. Solo un mucchio di chiacchieroni che si esibiscono, conservando le loro gag per giorni, in attesa di un’occasione per farli scattare... Non c’era verità in quello che dicevano. Era il terribile giorno della battuta, quindi non doveva esserci alcuna verità
“Non è che partecipassi spesso” dichiarerà, mentendo, in un’intervista, “Costava troppo”, dimenticando, forse, che fu lei a fondare il cenacolo e a coinvolgere proprio quelle fatue e maligne persone e aggiunse:
...Comunque la gente della tavola rotonda, molto spesso, non sapeva un accidente di nulla. Credeva che alcuni di noi fossero degli scemi perché partecipavano alle dimostrazioni per Sacco e Vanzetti.
Più che assomigliare ai cavalieri di re Artù questi buontemponi avevano maggiori affinità con le allegre comari di Windsor. Tra le battute, le freddure e gli aneddoti più irriverenti, che si sarebbero potuti ascoltare, durante le bambocciate all’Algonquin, promosse dalla, sempre ben nutrita, schiera degli sciocchi a cui provvidenzialmente facevano da contrappasso considerazioni intellettualmente più argute, costruttive e pregnanti da parte dei Vrais Sages; incidentalmente se ne ricordano alcune:
- La scrittrice Margaret Leech, mentre era al ristorante con alcuni amici, vide entrare un suo conoscente di nome Frank (che non le era particolarmente simpatico) reduce da una partita di tennis. Notò che aveva la camicia solo parzialmente abbottonata e che dallo scollo spuntava un ciuffo di peli arricciolati. La donna, dopo averlo squadrato, esclamò ridendo: “Frank, vedo che oggi hai la patta dei pantaloni insolitamente alta”. L’uomo, fermandosi e sorridendo cordialmente, le rispose: “L’ho fatto per te, mia cara, così, finalmente, potrai succhiarmelo senza doverti inginocchiare”.
- Un noto scrittore americano (che chiameremo John) un giorno incontrò una sua collega (che chiameremo Jeane). Entrambi indossavano una giacca a doppio petto. “Sai che sembri quasi un uomo?” Le disse ridendo il buontempone e Jeane replicò secca: “Anche tu”.
- Un giorno chiesero a Bob perché avesse sposato Samantha e lui rispose senza esitare: “Perchè è una donna che ha sempre ragione”. Allora chiesero a Samantha: “Perché hai sposato Bob?” E lei rispose: “Perchè è un uomo intelligente”.
La morte la colse il mercoledì del sette giugno 1967, poco prima di sera, verso il tramonto, a causa di un infarto, all’età di 73 anni. Da tempo viveva in una modesta stanza dell’hotel Volney di New York, quasi cieca, con pochi mezzi, spesso ubriaca e perennemente avvolta dal fumo delle numerose sigarette consumate quotidianamente, circa tre pacchetti di Chesterfield. Nell’hotel era circondata da una folta clientela di anziani, come in una casa di riposo, le giornate si susseguivano identiche e vuote, scandìte dalla malinconia, dai ricordi e dal menù fisso, in attesa della Nera Signora. I defunti, in quella squallida residenza, erano trasferiti nel seminterrato, in una specie di Morgue, con il montacarichi e quando questo era rotto (evento che si verificava con frequenza) veniva utilizzato l’ascensore, avendo l’accortezza di tenere le salme in piedi, a causa dello spazio angusto. I suoi ultimi anni furono caratterizzati da una profonda infelicità, acuita dalla solitudine e dal senso di abbandono “Non piangete troppo quando morirò. Sono morta già da tanto tempo”. Sperava di morire in un giorno di pioggia; lei adorava ascoltare il tintinnìo delle gocce sul davanzale della finestra, in quelle giornate particolarmente uggiose, in cui il cielo grigio, gravido di nuvole, bagnava abbondantemente la Grande Mela, dandole un aspetto poetico e dolcemente malinconico, in cui le anime nobili potevano cullare la propria sofferenza. Quei momenti le ricordavano il giorno in cui era morta la sua adorata madre e il cielo, insieme a lei, piccina, smarrita e delicata Dottie, piangeva sconsolato.
Oh fa che sia una notte di poetica pioggia e di fruscianti brezze, quando suonerà la mia campana. Ho così amato la pioggia che vorrei restasse nel mio orecchio il suo amichevole, tenue ritornello.
Lasciò la sua modesta eredità al Grande Martin Luther King che, dopo il suo assassinio, passò al N.A.A.C.P. - National Association for the Advancement of Colored People – fondata nel 1909. Dorothy Parker venne cremata e le sue ceneri messe in un’urna e sepolte nel giardino dedicato alla sua memoria, presso la sede di Baltimora del N.A.A.C.P.
Il suo epitaffio riporta questa frase: “Scusatemi se faccio polvere” l’ultima, ironica freddura di una donna terribile e straordinaria.
Se non vado a passeggio per il parco,
nelle alte sfere potrò aprirmi un varco.
Se ogni sera alle dieci vado a letto,
non dovrò consumare il mio belletto.
Se gli stravizi riuscirò a evitare,
qualcuno forse potrò diventare.
Ma rimarrò quel che sono al presente,
perché non me ne importa un
accidente.
* secondo la legge ebraica un individuo di sangue misto è considerato ebreo, a tutti gli effetti, se la propria madre, e non il padre, è giudea, nel caso contrario, come per la Parker, il soggetto non è riconosciuto come appartenente alla comunità ebraica.
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