Sento ancora lo sciabordio lento e inesorabile delle algide acque. La notte nera e silenziosa si staglia sulla superficie lucida di un gigante di ghiaccio. È lui il vero titano. Ha reso ridicola la presunzione dell’uomo, rimasta irretita nelle strette maglie dell’orgoglio ferito. E tale orgoglio non può avere che un nome, destinato a diventare leggenda, condannato a mutarsi in un mito dal sapore drammaticamente doloroso: Titanic. È l’aprile del 1912. Primavera, una primavera calma, contenuta, testimone di una storia nota, che si ammanta, nel ricordo collettivo, di tragicità e segna la fine di un’età luminosa, presto ottenebrata dall’incedere mortifero della prima guerra mondiale. La Belle Epoque ha indotto alla speranza, ha illuso con il luccichio delle sue vetrine, le gonne corte e leggere, la sognante incredulità del cinematografo, i boulevard affollati. La Belle Epoque, nella sua smania di ottimismo, ha siglato la sua maestosa fama con il sigillo di una nave considerata inaffondabile, che reca nel suo stesso nome l’ambizione dei suoi costruttori: il Titanic. E’ qui che comincia la nostra storia.
Viaggiare sul Titanic è un sogno, ma non un sogno irrealizzabile: i biglietti di terza classe costano da due sterline, corrispondenti a due settimane di salario, fino a un massimo di sei sterline; i biglietti di prima classe vanno dalle ventisei alle cinquecentododici sterline per una suite (circa ventottomila dollari attuali). Il favoloso transatlantico è una sorta di città sull’oceano: è stato pensato per lo stupore dei suoi ospiti, per assecondare capricci, soddisfare vizi, suggerire stravaganze e ostentazione. E così, nel nostro tour sulla nave, è possibile imbattersi in un incantevole giardino d’inverno, in diverse sale per ascoltare musica, in una piscina, bagni turchi, un ospedale e una palestra, parrucchieri e una fornita biblioteca, un compartimento per i cani dei passeggeri di prima classe. Le cabine di prima classe sono posizionate al centro della costruzione, per evitare agli ospiti sgraditi rumori. Dalla nave si possono inviare telegrammi: i due marconisti sono John George Phillips e Harold Sidney Brown. I passeggeri di prima e seconda classe sfilano, con i loro abiti migliori e le tinte cangianti delle stoffe più o meno pregiate, tra il ponte e le sale da mille e una notte: qualche nome sembra esserci noto, perché scorre nella nostra memoria tra le pieghe ormai quasi trentennali della pellicola di James Cameron. Forse, la più esuberante è la signora Margareth Mollie Brown, quarantacinque anni, diventata ricca con i proventi delle miniere del marito, divorziata. E tra gli snob passeggeri di prima classe, scorgiamo, nelle loro fattezze altezzose e sprezzanti, John Jacob Astor IV, fondatore e direttore della catena di hotel “Astoria”; Isidor Strauss, proprietario di una catena di grandi magazzini; Benjamin Guggenheim, appassionato d’arte e fondatore della Solomon R. Guggenheim Foundation, con la sua signora. Il capitano Edward John Smith, con le mani dietro la schiena e il mento impercettibilmente alzato, passeggia, ma con il piglio scrupoloso di chi ha una brillante carriera marittima alle spalle. È ignaro della sua imminente morte, non presagisce neppure remotamente il naufragio, al quale – come una vittima sacrificale sull’ara divina – concederà il suo spirito di abnegazione e il suo zelo di comandante negli abissi di quella dannata notte di primavera. E non sa neppure che la Storia lo ricorderà per sempre, celebrandone lo stiff upper lip, l’iconico atteggiamento, squisitamente britannico, di stoicismo ed autocontrollo in situazioni di emergenza.
Ma il nostro uomo è William Thomas Stead, giornalista, scrittore, padre fondatore del giornalismo investigativo (è lui che introduce le interviste nella pratica giornalistica), fautore e promotore della pace, candidato al Premio Nobel. È un uomo intelligente, sagace, sensibile e conosciuto per la sua straordinaria generosità. Si trova sul Titanic, prima classe, per una visita negli Stati Uniti d’America per partecipare ad un congresso sulla pace, su richiesta del Presidente Taft. Le sue non ordinarie doti affabulatorie tengono con il fiato sospeso, praticamente ogni sera, i commensali, che ascoltano rapiti i suoi racconti e i suoi aneddoti, nello scenario di un mare calmo e denso di latenti presagi. La nave, come una vecchia balena d’acciaio, solca le acque di una rotta appositamente studiata dal capitano Smith: una rotta più a Sud, proprio per evitare i ghiacciai… ma l’inverno è stato malauguratamente caldo e molti iceberg si sono spinti, giganti irriverenti, lungo la linea meridionale, alcuni di essi posizionandosi sul tracciato dell’imbarcazione. Ma, dopotutto, il Titanic reca in sé una potenza inaffondabile: il suo metallo è di altissima qualità, con doppio fondo, con sedici compartimenti a tenuta stagna. Tuttavia, la parte superiore di ogni compartimento comunica con quello attiguo. E le scialuppe – nota l’arguto William – sono solo venti. Ciascuna può contenere fino a circa sessantacinque persone, ma i passeggeri sono circa 2224. I conti non tornano… ma l’allegria, il lusso, il buon vino e le facezie dissipano i dubbi aritmetici. Sarà la Storia a doversi confrontare con le funeste cifre di quella strage. William, acuto osservatore di cose e persone, si reca in biblioteca; fa un breve giro e tra le mani gli capita un libro davvero singolare… Il suo titolo è Futility di Morgan Robertson, un racconto del 1898. Ne è affascinato, lo prende tra le mani e… si parla del naufragio di un enorme transatlantico, il Titan. Ne resta turbato, non solo per le incredibili coincidenze tra la dettagliata descrizione della nave e l’aspetto del Titanic, ma anche perché lui stesso, il 22 marzo 1886, ha pubblicato How the Mail Steamer went down in Mid Atlantic by a Survivor, una breve storia il cui tema centrale è lo scontro di un battello a vapore con un'altra nave. Nella sua storia, il risultato dell'incidente è un considerevole numero di morti, dovuto a un'insufficiente scorta di giubbotti di salvataggio per i passeggeri. In calce al testo, è presente un commento dell'autore, che, quasi profetizzando la tragedia del Titanic, recita:
Questo è esattamente ciò che potrebbe succedere, e succederà, se i transatlantici verranno spediti in mare a corto di scialuppe.
Veggenza, premonizione, caso, coincidenza, beffa del fato… Ciò che è indiscutibile è che non una, ma due opere letterarie – di trascurabile pregio cionondimeno – predicono, in una specie di roulette del destino, la terribile strage del Titanic. E così, lungo la cortina d’avorio che separa realtà e letteratura, dove ragione e immaginazione giocano a dadi con la sorte, la finzione diventa cronaca e la cronaca si veste di Storia.
Si resta atterriti, di primo acchito, dinanzi ai nomi dati alle due navi: Titan e Titanic. La mente vortica sull’immensità delle certezze che questi nomi sprigionano, come se tutti avessero dimenticato la fine balorda e drammatica dei Titani. Eppure, ne sentiamo la forza, ne assaporiamo la resistenza, indomite signore dei mari: è l’uomo che sfida Dio, ma guai a farlo arrabbiare…
Morgan Robertson è uno scrittore che, probabilmente, senza il disastro del Titanic, sarebbe rimasto ignoto, sepolto sotto dita di polvere in qualche dimenticata biblioteca di provincia. È un uomo dall’aspetto distinto, molto british, sebbene sia statunitense. Il suo racconto, una novella, ha una trama semplice: il protagonista, John Rowland, è un ex ufficiale della Marina degli Stati Uniti d'America, alcolizzato e caduto in disgrazia, che lavora come marinaio sul Titan. In una notte di aprile, la nave colpisce un iceberg e naufraga. Dopo essere salito sull'iceberg insieme alla figlia della donna da lui precedentemente amata, e dopo aver superato una serie di rocambolesche peripezie, fra le quali un combattimento con un orso polare, Rowland ritrova una lancia di salvataggio e viene tratto in salvo da una nave. La sua vita sull’iceberg – lo percepiamo immediatamente – rappresenta simbolicamente la sua rinascita: sfidando impavido le dure leggi della sopravvivenza in mare, sfama la bambina con la carne dell’orso, la tiene riparata nella carcassa dell’animale e la cura obliando se stesso…e questa volta senza alcol nello stomaco. Il senso di sbigottimento e il lieve, anzi, più che lieve disgusto provocato dalla narrazione sembrano anticipare, in un immaginario almanacco del futuro, le imprese spesso nauseabonde del conduttore britannico Bear Grylls, nel suo spettacolare match “Uomo versus Natura”; o le sfumature dal gusto sapientemente introspettivo, in un’intricata trama di volti e vendette, della pellicola Revenant, con Leonardo Di Caprio, stavolta nelle vesti mature di un cacciatore di pelli, ormai lontano dal ragazzo spensierato e senza soldi, vincitore di scommesse, del Jack Dawson del Titanic di Cameron. Le descrizioni corrono veloci, talvolta approssimate, sull’ordito semplice e senza pretese della storia; sappiamo poco del protagonista, pochissimo degli altri personaggi. Tutti si aggirano all’interno di location solo abbozzate, come se l’autore avesse fretta di finire e di far giungere il lettore nel locus tanto agognato, quello del lieto fine, dove Rowland ritrova la sua dignità e la cassa degli alcolici viene definitivamente relegata nella cantina chiusa a chiave. Robertson non indugia sul tempo del novellare: come in una danza orgiastica, si susseguono spiacevoli incontri, collisioni con iceberg, duelli con orsi e creature del ghiaccio, mentre un uomo e una bambina, per uno strano tiro mancino, si sono ritrovati a vivere l’uno per l’altra, l’uno con l’altra. E si arriva fino in fondo con il fiatone, in quell’aula di tribunale in cui il protagonista deve mostrare, in un’incessante corsa ad ostacoli, di non aver rapito la bambina e di non averle fatto alcun male. E d’improvviso, atteso e sperato, il lettore può rilassarsi e godersi il finale felice, dove un nuovo ordine si è costituito, e, sebbene a noi contemporanei possa sembrare banale, al lettore ottocentesco questo equilibrio piace e lo rimette in pace con se stesso. L’incedere della novella, seppure un po’ scontato, assume i tratti più o meno marcati del racconto di formazione: Rowland cambia, matura, si immola quasi per un’anima innocente; ed ha un tratto velatamente eroico il suo mutamento, che lo vede vincente, sull’iceberg come durante il processo. E chi lo ha osservato, in questa pseudo-ascetica redenzione, ne rimane compiaciuto.
Tuttavia, quando il quattordici aprile del 1912, alle ore 2.20, il Titanic si inabissa alla velocità di venti nodi e molti naufraghi muoiono lentamente di ipotermia e il comandante Smith non tenta nemmeno di mettersi in salvo e l’orchestra continua a suonare sull’immane catastrofe, rendendo ancor più drammatico l’evento e 1490 anime – passeggeri di terza classe e membri dell’equipaggio – muoiono… Futility diventa un libro premonitore. La vicenda di John Rowland passa in secondo piano e tutti notano la sconcertante somiglianza tra letteratura e realtà. Il filo che le divide si è assottigliato a tal punto che le due navi appaiono del tutto simili nella struttura; sono entrambe “inaffondabili”; hanno dimensioni simili; viaggiano alla stessa velocità; partono entrambe ad aprile e percorrono la stessa rotta; colpiscono l’iceberg sul lato di dritta a circa 400 miglia da Terranova. Persino i morti si richiamano e si inseguono. Il Titano ha perso, in ogni caso. Presunzione, maledetta superbia, solo il caso, la sfortuna, chi può dirlo… E se ci fossero state più scialuppe? E se il comandante Smith avesse scelto un’altra rotta? E se quell’inverno fosse stato più rigido? E se le vedette avessero avuto i binocoli? E se la notte fosse stata illuminata dalla Luna? Dopotutto, la Storia è fatta anche di “se”. William Thomas Stead ha riposto Futility nel suo scaffale in biblioteca. È un po’ sconvolto. Ha intravisto brandelli di verità nella suggestione letteraria. Forse. Oppure no. Si affaccia sul ponte e alza gli occhi al cielo. Il sereno si confonde con la bonaccia. La mano di Dio ha utilizzato lo stesso blu tenebroso. Solo, ogni tanto, si intravedono alcune stelle che solcano il firmamento più veloci di altre: sono le stelle vagabonde, che errano in cerca di mondi immortali. È il suo ultimo viaggio. Ma lui non lo sa.
2 commenti:
Linda Ciano, è sempre un piacere leggere ciò che scrivi. Hai la capacità di farci calare nei panni dei personaggi. Ogni parola è un’emozione. Complimenti
Grazie di cuore!
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