Natalia Ginzburg in un bellissimo articolo intitolato Discorso sulle donne pubblicato nel 1948 sulla rivista «Mercurio» decise di smascherare senza reticenza le false certezze di progresso e di ottimismo che avevano accompagnato l’entusiasmo della liberazione. Lo fece affrontando in modo diretto il tema della condizione femminile e parlò senza infingimenti di maternità, di cura, di figli, di paure e di sensi di colpa. Lo fece mettendoci la sua faccia e il suo cuore confessando proprio le sue paure più intime e profonde nonché la sua difficoltà nel conciliare la dimensione del privato con quella dello spazio pubblico del lavoro e dell’impegno professionale.
Vedova giovanissima del marito Leone Ginzburg ‘morto di cuore e di botte’ nel carcere di Regina Coeli perché ebreo e antifascista, aveva allevato da sola i suoi figli senza nascondere a loro il motivo della morte del padre; in nome di quella verità fatta di grandi e piccoli eventi cui il suo credo morale e artistico si ispirava.
Natalia e Leone Ginsburg |
Sempre in nome di quella verità aveva scritto questo saggio sulle donne mettendo a nudo le sue apprensioni e il suo continuo disorientamento di donna e di madre nella gestione dei figli. La paura di cadere nel pozzo per esempio, abbiamo detto, l’accompagnò per tutta la vita benché l’intensa attività di scrittrice e i prestigiosi riconoscimenti fossero fonte di gratificazione e stimolo a credere in se stessa.
Nonostante la sua passione per la verità Natalia aveva anche un segreto. Un segreto doloroso che custodiva gelosamente e che occupava molti dei suoi pensieri. Le era nata dal secondo matrimonio una figlia gravemente disabile e bisognosa di cure e assistenza quotidiana. Erano gli anni 50’. L’Italia si avviava alla ricostruzione dopo la tragedia della guerra ma il tema della disabilità e dell’accesso democratico alle cure era ancora lontano dall’essere affrontato in maniera seria e organica.
Oggi indubbiamente molto è cambiato. Il diritto alla cura per tutti è stato riconosciuto dal Sistema Sanitario Nazionale e ribadito dalle varie riforme ad esso afferenti che hanno sottolineato l’importanza della continuità tra ospedale e territorio affinché il malato non sia seguito e curato non solo nella fase acuta del bisogno ma anche in quella del quotidiano.
Eppure le donne continuano a custodire segreti e spesso altrettanto segretamente continuano a cadere nei pozzi neri. Non c’è nessuno a salvarle perché le donne sanno che spesso è inutile chiedere aiuto. Perché la destrutturazione dei meccanismi di subordinazione della donna al potere patriarcale, tra cui rientra certamente l’attività di cura dei propri familiari, è ancora ben lontana dall’essere, non solo raggiunta, ma persino compresa e riconosciuta.
Occorre prima una presa di coscienza interiore che non trova categorie linguistiche e ideologiche disponibili perché tale presa di coscienza possa avvenire in modo completo.
Riscrivere e ripensare il concetto di maternità e di cura, affrancandoci almeno parzialmente da una serie di attitudini e di mansioni declinate da secoli al femminile, ci sottoporrebbe automaticamente a un giudizio severo e pesante in primis da parte di noi stesse; giudizio che non riusciremmo a sopportare a causa dei sensi di colpa e di inadeguatezza ancora maggiori di quelli che proviamo ogni giorno. Meglio la lotta spesso impari dentro gli ingranaggi di un quotidiano che ci stritola, senza che la comunità neppure si accorga di noi; meglio tutto, ci sussurriamo dentro ogni giorno, piuttosto che sfuggire alle nostre responsabilità e lasciare da solo, o in mano ‘di altri’, chi soffre ed è sempre stato dipendente da noi.
Proprio per questo la politica del nostro welfare ha lasciato fuori le donne. Confidando nel loro senso di responsabilità e nelle catene invisibili che le tengono inchiodate al loro posto con la forza che solo il potere simbolico stratificato da millenni può esercitare. Le donne scelgono infatti ‘spontaneamente’, ogni giorno, di stare dentro ai recinti soffocanti del loro ruolo di cura e accudimento. Senza che nessuno si accorga delle ferite che portano dentro per tutto il tempo che sono rimaste in trincea a fronteggiare inermi il fuoco avversario di una società iper-performante che non permette l’integrazione di coloro che iper-performanti non sono e che risultano quindi inadeguati e persino di intralcio per gli standard degli obiettivi da raggiungere.
Succede spesso che le donne, queste donne, abbiano tanti figli segreti che esistono solo per l’anagrafe. Figli di un Dio minore che le famiglie, e spesso le donne, da sole, continuano a gestire. Sono i figli portatori di una malattia psichiatrica più o meno grave che la comunità non riesce ad accogliere perché non esiste una vera politica dell’accoglienza e dell’integrazione che riconosca e sappia farsi carico della ‘diversità ‘in tutte le sue sfumature, spesso troppo scomode e complesse per essere riconosciute e curate.
Rimangono le madri a combattere in prima linea. Per amore e per necessità. Perché non c’è attualmente un’alternativa valida ed efficace al loro impegno e alla loro abnegazione non solo nell’accudimento ma anche nel coordinamento di interventi complessi da parte di medici e operatori sanitari che presuppongono sempre la presenza e il coinvolgimento in prima persona della madre.
Le ho viste, queste donne, queste madri, spegnersi, consumarsi e morire a poco a poco. Nel silenzio dei giorni sempre uguali, recidendo i legami amicali per mancanza di tempo e di energie, in un alternarsi di speranza e devastazione per le battaglie perse senza mai una vera tregua. Sospese tra il desiderio della fuga e quello di donarsi ancora. Per poi precipitare nuovamente nel buio del pozzo. Talvolta senza più risalire alla luce.
Maria Cristina Alberti
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