14 novembre 2022

Il rapporto dell’uomo antico con le divinità e la conquista dell’Io

Quando si approfondiscono le civiltà antiche si fatica a comprendere la ragione di certi comportamenti o il significato di certe affermazioni contenute nei documenti o nelle iscrizioni. Ad esempio era comune il fatto che i sovrani prendessero delle decisioni tramite il “suggerimento” delle divinità o seguendo i segni divini. Per l’uomo di oggi tutto ciò è considerato come il frutto di strane convinzioni, se non persino di allucinazioni, e uno psicologo potrebbe persino definirli come dei comportamenti da schizofrenici. Ma essendo in passato quelle pratiche comuni è opportuno evitare di saltare a conclusioni semplicistiche. Approfondendo meglio queste differenze, infatti, sembra emergere la possibilità che gli uomini antichi avessero delle percezioni diverse dalle nostre, tali da consentire un rapporto con le divinità. Inoltre attraverso lo studio dei documenti antichi sembra evidente il fatto che essi non possedessero un Io vero e proprio, ma una sorta di individualità di gruppo. In questo articolo approfondiremo questo aspetto. 

Cantami, o diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti lutti addusse agli achei…” questo è il famoso incipit dell’Iliade di Omero, dove il poeta esorta la divinità a “cantare” le gesta di Achille affinché egli possa riportarle per iscritto. Con il linguaggio odierno diciamo semplicisticamente che il poeta cercasse un’ispirazione tramite la musa, ma potremmo anche dire che era stata la musa a “dettare” al poeta i versi. Questa interpretazione compare in tantissimi quadri dove si vede uno scrittore con a fianco una musa che suggerisce le parole o le note musicali per un compositore.
Stando a quanto riportano i documenti storici, il racconto dei miti e della letteratura più antica ci mostra degli uomini in stretta connessione con le divinità tramite apparizioni, voci o messaggi. Questa consuetudine è rimasta viva per secoli finché questo dialogo sembra essersi interrotto, o quantomeno sarebbe diventato sempre più raro. Avviene infatti che attorno al II millennio a.C. un numero minore di testi descrive tali contatti e sempre meno uomini sembrano essere capaci di comunicare con la divinità. E con il crollo delle civiltà antiche questa comunicazione cessa quasi del tutto. Viene così da chiedersi, cosa è mutato nel corso del tempo? Perché l’uomo avrebbe perso questa capacità? Sono forse gli dei ad aver smesso di “parlare” o è l’uomo ad aver smesso di ascoltarli?
Ad approfondire tale argomento è stato Julian Jaynes, professore di psicologia della Princeton University che nel provare a fare chiarezza lancia molti spunti di riflessione sull’evoluzione della coscienza umana nel suo libro Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza.

Se si prende in esame uno dei testi più antichi in nostro possesso, l’Iliade datata tra il 900 e l’850 a.C. si riscontra come i personaggi raccontati sembrano non avere una coscienza. A riprova di ciò si evidenzia il fatto che non compaiono mai le parole che designano la coscienza, perché il linguaggio dell’epoca semplicemente non contemplava tale aspetto. La parola che più si avvicina è psyche che solo in seguito assumerà il significato di anima o mente cosciente, in quanto allora designava semplicemente le sostanze vitali come il sangue o il respiro. Sicché un guerriero morente stillava psyche al suolo o esalava psyche poco prima di morire. Il thumos ossia l’anima emozionale, designava invece il moto o l’agitazione. Pertanto quando un uomo cessava di muoversi perdeva il suo thumos. Ma il termine può anche essere identificato in un organo. Ad esempio Diomede afferma che Achille ritiratosi nella sua tenda, sarebbe tornato a combattere: “…quando nel petto il thumos gli parla e un dio lo sospinge.” (IX, 702). Un’altra parola che si avvicina è phren, localizzata nel diaframma e alle sensazioni ad asso associate. In questo caso l’emozione è quella del “fiato mozzo” per la sorpresa. Ma abbiamo anche la parola noos (che nel greco tardo diverrà nous) che significa “mente cosciente”: sarebbe interpretabile con percezione o riconoscimento.
Questi primi indizi sembrano indicare chiaramente l’assenza di una coscienza individuale a fronte del fatto che i personaggi agissero di impulso e generalmente venivano fermati o stimolati dalle divinità. Per esempio quando Agamennone si impossessa dell’amante di Achille, questi vorrebbe ucciderlo ma la sua mano viene fermata da una dea (I, 197). E poi un dio induce Glauco a scambiare le sue armi d’oro in armi di bronzo. (VI, 234). Un altro esempio è quello di Achille che ricorda ad Agamennone di averle rubato l’amante e questi risponde: «Non io fui la causa di tale atto ma Zeus e la mia parte e le Erinni che camminano nel buio. […] Che cosa dunque potevo fare? Gli dei la vincono sempre.» (XIX, 86-90) Sarebbero inoltre gli dei a guidare gli eserciti, e a spronare i guerrieri, creando contese e strategie. Jaynes tuttavia nel suo libro considera questi comportamenti come frutto di allucinazioni, le stesse di cui fu vittima Ettore a causa di Apollo che nel canto XVI si presenta sotto le sembianze dello zio materno e nel XVII come uno dei capi alleati e persino sotto le sembianze di un caro amico.
Achille e Briseide
Achille costretto a cedere Briseide, dipinto di Pompei

Spostandoci nell’area mesopotamica possiamo affermare che presso quei popoli il volere delle divinità veniva trasmetto tramite idoli. Infatti una lettera del I secolo a.C. dice: «Ho preso nota dei portenti… Li ho fatti recitare in ordine dinanzi a Shamash… L’immagine regale [una statua] di Accad evocò visioni dinanzi a me ed esclamò: “Quale portento pernicioso hai tu tollerato e nell’immagine regale?”» ecc. Similmente nell’Antico Testamento Ezechiele (XXI, 21) dice che “il re di Babilonia si consultò con vari idoli”.
Tra gli aztechi conquistati dagli spagnoli, questi avevano raccontato che la loro storia aveva avuto inizio quando una statua di una civiltà precedente aveva parlato comandandogli di andare in una certa località. E in una relazione scritta dagli spagnoli viene descritto come questi fossero convinti che la religione degli inca fosse ispirata dal diavolo:

…era cosa molto comune e approvata nelle Indie che il diavolo parlasse e rispondesse in questi falsi santuari... Era di solito di notte quando essi entravano camminando a ritroso dal loro idolo e procedevano chinando il corpo e la testa, in modo sgraziato, e così si consultavano con lui. La risposta che egli dava era di solito simile a un terribile sibilo, o a un digrignamento, che li terrorizzava; e tutto ciò che egli suggeriva o comandava loro, non era altro che la via per la loro perdizione e la loro rovina. 

Ma non era sempre la divinità in persona a parlare, a volte c’era una sorta di figura intermedia che faceva da tramite. Ciò compare in alcuni antichi sigilli dove era rappresentata una divinità seduta e un dio minore che prendeva per mano il possessore della tavoletta. Sicché è plausibile pensare a invocazioni di divinità intermedie per ottenere i favori della divinità maggiore, un po’ come oggi accade tra i credenti che invocano l’aiuto dei santi... È inoltre interessante notare come il nome della persona fosse legato a quello del proprio dio personale. Ad esempio il re mesopotamico Rim-Sin di Larsa era chiamato Rim-Sin-Ili cioè Rim-Sim è il mio dio.

Jaynes definisce questo approccio dell’uomo antico “mente bicamerale”, ossia un individuo privo di una coscienza propria e soggetto a influenze esterne. Egli inoltre valuta tali comportamenti come schizofrenici, causato probabilmente da situazioni di forte stress. I sintomi più comuni nella schizofrenia sono: allucinazioni uditive, deliri paranoidi e pensieri o discorsi disorganizzati. In questi casi il soggetto utilizza prevalentemente l’emisfero destro rispetto alle condizioni ordinarie dove viene utilizzato il sinistro. Riporto per necessità di chiarezza questa tesi, ma personalmente la considero poco credibile dato che si dovrebbe considerare la presenza di uno scompenso interiore in quasi tutta la popolazione antica del mondo. Nella tesi di Jaynes inoltre esclude in toto la possibilità che l’uomo possedesse delle facoltà sensoriali superiori: ad ogni modo entrambe le ipotesi non sono dimostrabili.

Attorno al II millennio a.C. questo approccio “allucinatorio” cambia, si diffonde inoltre la scrittura e la contabilità, determinando un rapporto più oggettivo con la realtà che a quel punto poteva essere conosciuta anche con la lettura di testi. Questo periodo coincide con uno stravolgimento delle civiltà a causa di catastrofi naturali che provocano la scomparsa di popolazioni e lo scoppio di guerre fratricide di sopravvivenza. Il mutamento di mentalità si può riscontrare in molteplici modi. Ad esempio attorno al 1230 a.C. il tiranno assiro Tukulti-Ninurta I viene rappresentato in una doppia immagine, la prima mentre si avvicina al trono e la seconda mentre si inginocchia. Ma ciò che balza all’occhio è che il trono è vuoto! Questo significa che non compare più la divinità assisa come avveniva in precedenza e essa probabilmente non comunica più, oppure è sparita. Nel documento noto come Epos di Tukulti-Ninurta vi è scritto che gli dei delle città babilonesi erano adirati col re e per questa ragione decisero di abbandonare gli uomini che perdettero così la guida divina. Una tavoletta della stessa epoca recita:

Il mio Dio mi ha abbandonato ed è scomparso,
la mia idea mi è venuta meno e si tiene lontana.
Il buon angelo che camminava al mio fianco se ne è andato.
Rilievo di Tukulti-Ninurta I, si noti l'enfasi del dito puntato

Questo testo, come tanti altri, mostrano una completa rottura con le tematiche del passato dato che in precedenza non vi era mai stata una preoccupazione per l’assenza degli dei. A fronte di ciò nelle rappresentazioni appaiono nuove figure interpretabili come angeli o esseri ibridi che dal I millennio a.C. si moltiplicano. Nello stesso periodo compaiono anche i demoni e con essi l’archeologia riscontra la presenza di amuleti per tenerli lontani. L’assenza di un contatto con le divinità induce a creare diverse forme di divinazione. Inoltre dopo il 1300 a.C. le iscrizioni guadagnano la temporalità, per cui gli eventi vengono descritti in una scala cronologica e non più atemporale. 

Anche l’Antico Testamento mostra queste caratteristiche. Se per esempio si considera il libro dell’Amos databile all’VIII a.C. e l’Ecclesiaste che è del II sec. a.C. si evidenzia il mutamento di mentalità. Nel primo libro infatti non ci sono parole che identificano un’identità soggettiva e inoltre manca un giudizio sulle cose che accadono. Nel secondo la soggettività emerge attraverso un passaggio il cui contenuto evidenzia un concetto di spazializzazione temporale, e il linguaggio è familiare quasi fosse quello di un conoscente.
Se ci spostiamo agli altri libri dell’Antico Testamento notiamo come Mosè venisse descritto come colui che possedeva la capacità di parlare direttamente con Dio: «faccia a faccia, come un uomo parla col proprio amico.» (Esodo, 33,11) ma c’è anche un’occasione in cui Mosè e settanta anziani vedono Dio (Esodo, 24, 9-10). Poi si arriva alle leggi scritte, la cui importanza evidenzia soprattutto il venir meno del contatto diretto con Dio. Nel corso dei libri infatti la voce di Dio si ritira, tanto è vero che nel Deuteronomio (34,10) è scritto che nessuno era mai stato simile a Mosè il quale aveva: «trattato faccia a faccia» con Dio. Nei libri successivi si parla del fatto che le manifestazioni degli Elohim portavano confusione, tanto da necessitare di prove sorprendenti per stabilire quali fossero valide. Ma vi sono anche diversi casi in cui questi segnali cadevano in contraddizione.

Pizia
Oracolo di Delfi

Andiamo ancora avanti nel tempo giungendo al I secolo a.C., in Grecia a Delfi dove era in auge l’oracolo della pizia. La pizia era una giovane sacerdotessa devota ad Apollo che compiendo un rituale in cui tenendo in mano un ramo di alloro e inalando il fumo delle foglie bruciate, cadeva in una sorta di trance che le consentiva di diventare la bocca di Apollo. Il Dio così tramite la pizia comunicava il suo responso.
Secondo Jaynes è possibile rintracciare una sorta di scala nel contatto con le divinità. Nel primo livello l’oracolo era associato a una località dove le condizioni proprie del luogo ne favorivano il contatto. Nel successivo i profeti o i sacerdoti facevano da tramite con le persone comuni. Successivamente gli stessi necessitavano di una forma di “addestramento” per poter possedere queste qualità. Quindi si passa alle forme di possessione ottenute tramite il richiamo di un’entità che induceva la vittima a contorsioni e deliri. Nel livello successivo la possessione diventava sempre più oscura, necessitando di un sacerdote in grado di interpretare le parole del posseduto. Infine l’oracolo saltuario, la cui pratica essendo divenuta difficile e saltuaria ne determinava l’estinzione.
Nel IV secolo d.C. Callistrato a proposito di una statua crisoelefantina del Dio Asclepio scrive: 

Dobbiamo ammettere che lo spirito divino discende in corpi umani, per esservi anche contaminato dalle passioni, e non dobbiamo credere che ciò avvenga in un caso in cui non esiste una concomitante fonte di male? [...] Vedete infatti come una statua nella quale l'Arte ha ritratto un dio si trasformi nel dio stesso! Pur essendo materia, essa emana una divina intelligenza.

Questo tipo di casi rientra nella cosiddetta possessione che nelle epoche più antiche era sconosciuta, divenendo invece comune già dal 400 a.C. Platone nel IV secolo a.C. scrive: «…coloro che sono posseduti da un dio dicono molte cose vere, ma non sanno nulla di ciò che dicono.» Si trattava di culti legati a forme di possessione ritualistica con persone che oggi chiameremmo medium ma che allora assumeva il nome di katochos. Il soggetto generalmente proveniva da ambienti semplici e privi di cultura. All’inizio del III secolo infatti Giamblico parla di: «persone giovani e semplici». Una scelta che ricorda quella delle sacerdotesse di Delfi che provenivano dalle campagne della Grecia ed erano prive di istruzione. L’esigenza di una forma di “addestramento” ebbe la conferma di Pitagora Rodio secondo cui gli dei giungevano dapprima con una certa riluttanza per poi manifestarsi sempre più facilmente man mano che si erano abituati a entrare nel corpo di una persona. Anche secoli dopo Faust, così come il katochos, evocava Mefistofele attraverso un rituale. Nello specifico egli si spalmava della stricnina sugli occhi per procurarsi visioni, un metodo simile in uso in Egitto e in Grecia per preparare l’anima ad accogliere la divinità.

Questa lunga serie di esempi dimostra come a un certo punto della storia l’uomo sembra acquisire un diverso spazio di coscienza: l’Io. Su Wikipedia l’Io viene definito come: “il momento in cui pensante e pensato sono presenti al pensiero come la medesima realtà: ossia nel momento in cui soggetto e oggetto vengono a coincidere e non hanno più una connotazione che li differenzia.” Si intende che dapprima l’uomo sembra manifestare una sorta di coscienza di gruppo, dove l’ambizione privata non esisteva e l’interesse era esclusivamente collettivo. A un certo punto avviene un mutamento antropologico e l’uomo afferma la sua individualità in tutti gli aspetti della sua vita. Pertanto a fronte di questi elementi il nostro metro di giudizio rispetto alle epoche passate è da considerarsi del tutto inadeguato. Spesso, infatti, gli studiosi tendono a proiettare la propria visione delle cose al passato, interpretando in maniera fallace. Gli elementi evidenziati da Jaynes, ad esempio, ci permettono di capire la ragione per cui gli eserciti antichi combattessero valorosamente salvo poi disperdersi alla morte del condottiero. Probabilmente non vi era il solo venir meno del comando, ma di quella figura in grado di tenere assieme la coscienza dei soldati.
Un altro esempio di questo progresso dell’Io ce lo dà il mondo dell’arte. Per noi è assolutamente normale sapere chi ha dipinto un quadro o eseguito una scultura, non solo grazie ai documenti storici, ma soprattutto dalla firma dell’artista. Ma se si va indietro nel tempo questa consuetudine diventa sempre più rara. I dipinti medievali, le sculture o le facciate delle chiese gotiche vennero realizzate da ignoti artisti che esprimevano tutta la loro devozione restando anonimi. I quadri medievali non hanno mai la firma dell’artista che comparirà solo nei secoli avvenire. E salvo alcune opere di statuaria greca, come quelle di Fidia, in genere l’artista non ci è noto.

Fin qui abbiamo tratto delle informazioni attraverso un approccio scientifico, ma è interessante notare come la medesima idea sia presente in un ambito totalmente diverso: quello esoterico.
L’esoterista Rudolf Steiner è il fondatore dell’antroposofia, una dottrina iniziatica dei primi del Novecento. L’antroposofia abbraccia una grande quantità di argomenti che spaziano dalla medicina, all’agricoltura e la pedagogia. In alcuni passaggi delle innumerevoli conferenze giunge alle stesse conclusioni suesposte. Egli suddivide le epoche passate secondo l’influenza maggiore delle civiltà del tempo cominciando con l’antica civiltà Indiana, dove l’uomo era profondamente legato alla spiritualità e al rapporto col divino ma ancora distaccato dalle cose del mondo. Si passa poi a quella paleo-persiana, egizio-caldaica e greco-romana. Il punto di snodo col discorso affrontato in questo articolo è il passaggio dalla civiltà egizio-caldaica, legata a un rapporto col divino attraverso lo studio delle stelle e del volere celeste, a quella successiva dove l’uomo discende ancor più nella materialità. I romani infatti creeranno il diritto romano con cui l’uomo diventa un cittadino che può affermare dei diritti. Col codice romano inoltre nasce il testamento che afferma la sacralità delle disposizioni di un soggetto dopo la sua morte. Ma ciò che Steiner considera come l’evento che suggella l’emergere dell’Io nell’uomo è la morte di Gesù Cristo.

Così il Vangelo di Giovanni vuole mostrarci che il Cristo è colui che dette il grande impulso all'uomo, perché potesse ricevere la forza per sentirsi in eterno quale singolo io individuale. Questa è la svolta dell'Antico Patto al Nuovo Patto: nell'Antico vigeva sempre il carattere dell'anima di gruppo, per cui ogni io si sentiva apparentato agli altri, senza sentire veramente sé stesso, né gli altri io; mentre sentiva ciò che li accoglieva in comune: l'io del popolo o della stirpe.

Ovviamente l’evento in sé assume un carattere simbolico perché è evidente come certe manifestazioni di individualità (come abbiamo appena citato nel diritto romano) fossero già presenti nell’uomo prima della venuta di Cristo. E le stesse hanno avuto bisogno di secoli per manifestarsi in maniera evidente nell’uomo e nelle società. 

Aggiungo un’ultimo spunto di riflessione fornitoci da un’interessante scoperta fatta dall’antropologo Jeremy DeSilva, il quale ha analizzato i crani degli uomini nel corso del tempo scoprendo che 3000 anni fa il cervello umano ha iniziato a ridursi di volume. La differenza tra il cervello attuale e quello del passato corrisponde a circa quattro palline da ping pong. In 3000 anni e non in 30.000, il cervello umano ha subito un restringimento significativo, più o meno dall’epoca in cui è avvenuto il cosiddetto crollo della mente bicamerale. Non possiamo dire se ciò sia un caso o se sia correlato ai discorsi testé affrontati, ma è interessante riscontrare questa coincidenza.
Ad oggi non siamo in grado di affermare con certezza che la riduzione del volume della calotta cranica corrisponda a un variazione dell’intelligenza, anche perché in natura le dimensioni del cervello non sempre evidenziano maggiori capacità cognitive. Tuttavia questa scoperta dimostra come a tutt’oggi qualcosa dell’evoluzione ci sfugga. Così è legittimo chiedersi: è possibile ipotizzare che le allucinazioni degli uomini antichi fossero in realtà il sintomo di percezioni superiori? Se ciò fosse vero si potrebbe affermare, altresì, che le famose capacità sottoutilizzate del cervello non sarebbero un falso mito; e il restringimento del volume cranico forse troverebbe una ragione plausibile. Ma siamo sempre nel campo delle mere ipotesi.

Davide Mauro

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