Cosa ci rimane di Pier Paolo Pasolini? Qual è il suo lascito? Il più inflazionato è certamente quello riguardante la provocazione, in tutte le sue forme, dalle più estreme alle più diafane. Quello che però sfugge ormai dalla concezione odierna che abbiamo delle sue opere, è quella di portavoce del messaggio rivoluzionario proclamato a gran voce da Gramsci: la rivoluzione intellettuale.
I tempi però sono cambiati, non assistiamo più a lotte di classe, il neocapitalismo non genera più né movimenti operai né studenteschi, se non qualche raro caso. Non c’è più un uomo in camicia nera da stigmatizzare o un Agnelli da affrontare. Il proletariato si è trasformato in massa consumistica omogenea. Il mercato ha vinto. Una vittoria schiacciante che ha determinato il rapido declino del grado di attenzione (contenuti sempre più brevi e facilmente fruibili) e la decimazione del linguaggio e di contenuti validi a mo’ di vero e proprio stillicidio. Uscirne, mi rendo conto, è alquanto impossibile e ciò può condurci verso un ovvio stato di rassegnazione.
Gramsci ammoniva:
Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri […]
Questa è l’arma della rivoluzione che l’élite intellettuale dovrebbe brandire. Dovremmo innestare il principio della cultura (intesa come inarrestabile ricerca) nella massa uniforme di oggigiorno che ha smarrito ogni fine, persa in un incessante nichilismo, ebbra di gioie effimere derivanti dal consumo. In Pasolini i romanzi di Ragazzi di vita e Una vita violenta ci mostrano inequivocabilmente un avvicinamento al sottoproletariato, fatto di linguaggi famigliari, silenzi da ascoltare tra gesti forti ed emblematici, un odio verso il vile conformismo ed un disincantato amore per la semplicità.
La chiave da riscoprire sta proprio qui, non nel banalizzare i contenuti per uniformare la massa con il fine ultimo di vendere un prodotto, ma nel semplificare gli stessi senza spogliarli dell’aspetto umano più forte: dalla tragedia all’estrema umanità. Emblematici in questo ambito sono i film Medea e Il vangelo secondo Matteo.
Lo scopo è sempre il medesimo, arrivare agli ultimi per elevarli, per consegnare loro il dubbio che, come diceva Borges, è uno dei nomi dell’intelligenza. Scardinare i pregiudizi, lo status quo dell’esistenza umana soggiogata da un potere invisibile, il mercato.
Pasolini cercò altresì di generare disgusto per il potere e rendere il proletario cosciente dello scempio che viene perpetrato nei lori confronti, auspicando che l’umanità ambisca a una presa di possesso della propria personalità e alla conquista di una coscienza superiore. Non tramite maieutiche indecifrabili ma con opere d’arte scandalizzanti: Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Togliamo il velo della boria e dell’intellettualismo insondabile da Pasolini e riconosciamogli il merito di aver voluto propalare un messaggio volto a cambiare l’umanità dalle radici, cercando di scongiurare questa società liquida che goccia a goccia si riversa sempre nello stesso identico mare.
Manuele Vetere
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