Il turista che visita Arborea non può fare a meno di notare la sua architettura urbana. Alla strada principale che attraversa il centro abitato confluiscono, da Est e Ovest, tante vie rurali identiche e simmetriche, come se fossero state tracciate da un righello. Non hanno nome, e sono numerate (dalla strada 0 alla 30): sono anche la disperazione degli autisti, che si perdono in esse di continuo (non importa che conoscano o meno la zona: a tutti è capitato almeno una volta di prendere la 22 credendo di essere nella 24).
Prima Arborea si chiamava Villaggio Mussolini. È stata fondata nel 1928. La sua nascita potrebbe sembrare collegata alla volontà fascista di costruire nuovi paesi nelle terre appena bonificate. La realtà, almeno in questo caso, è più complessa. Facciamo un salto nel Lazio, andiamo a Latina (sorella di Villaggio Mussolini, fondata nel ’32 col nome di Littoria), e più di preciso in Piazza del Popolo. Cosa risalta subito agli occhi? La famosa Torre Littoria, quella che a Torino chiamano il dito di Mussolini.
Per trovarla ad Arborea non bisogna passare per la sua piazza, ma spostarsi in una via più periferica. Perché nel fulcro del centro abitato non fu inserito il più noto simbolo della potenza fascista? Semplice: perché Villaggio Mussolini, più che del Duce, è stata la creatura di Giulio Dolcetta. Il dirigente della SBS, che abbiamo nominato anche nella prima parte, ha forse contribuito più di tutti alla realizzazione della bonifica in itinere. È lui che si occupa della suddivisione in centri colonici dell’area risanata; lui che all’estero crea delle imprese che venderanno i beni prodotti all’interno del territorio; e sempre lui esclude quasi del tutto i sardi dalla colonizzazione delle nuove terre. Infatti, preferirà chiamare manodopera dal Nord, soprattutto dal Veneto, ma anche dall’Emilia Romagna e dal Friuli Venezia Giulia. Questa decisione è presto spiegata in un suo scritto:
[…] Sarebbe tanto più comodo per la società di servirsi molto più largamente di famiglie sarde; contrasta però, in generale, con questa aspirazione, la scarsissima forza lavorativa che le famiglie sarde presentano. Le cause di questo fenomeno risiedono, a parer nostro, nello spiccatissimo individualismo dei sardi, che esclude l’associazione e la convivenza tra parenti, largamente praticata invece dai continentali di altre regioni […].
All’inizio i primi coloni saranno comunque terralbesi, anche se per la maggior parte di essi l’insediamento non andrà a buon fine, e lasceranno i poderi. È vero che per lavorare una tenuta è necessario viverci in pianta stabile, per le costanti occupazioni, che spesso tengono impegnati anche di notte. Altrettanto vero però è il fatto che era utopico chiedere ai locali di trasferirsi con l’intera famiglia in un posto lontano dal paese, nel quale comunque avevano la casa in cui rientravano abitualmente dopo una giornata di lavoro. Vengono quindi selezionati nuovi contadini da paesi molto distanti dal Terralbese, in maniera tale da “obbligarli” a trasferirsi definitivamente nel podere: la maggior parte provengono da Montresta e Bosa. Quest’ultima è la cittadina originaria di Andrea, che quando arriva qui nel ’26 è già avanti con l’età. Ha infatti sessantadue anni, ed è vedovo. L’ha convinto a venire il suo compare Alfonso, che lavora già in bonifica. Andrea, assieme al figlio Mosè, inizialmente è un semplice operaio, ma nel giro di qualche anno riesce ad ottenere l’ultimo podere della strada 6 Ovest. Vi si trasferisce con altre dodici persone, tra figli, nuore e nipoti. La vita è dura: i coloni, prassi comune all’epoca, vengono assunti con un contratto di mezzadria. Ciò vuol dire che il cinquanta per cento (ma a volte anche di più) dei beni prodotti spettano alla SBS. Se non consegni il dovuto, rischi di essere scacciato. I fattori, i “controllori” della bonifica, verificano che tutto sia in regola: uno dei loro compiti è anche di appurare la moralità delle famiglie. Grazie ai loro resoconti, sappiamo di diciassettenni fuggite di casa con il fidanzato, di mezzadri che vendono i loro attrezzi da lavoro per un po’ di vino. Scopriamo anche che i contadini provenienti dal Nord, di cui Dolcetta vantava le capacità, non sempre sono contadini! Infatti, diversi di loro non sanno neanche cos’è una zappa: sono, ad esempio, calzolai che, pur di scappare dalla fame che allora era comune a tutta l’Italia, mentono sul loro mestiere per partire in Sardegna. Ma che siano contadini o chissà cos’altro, tutti i continentali, arrivati nell’Isola, non si trovano di certo meglio. Come Giovanni: è partito con la moglie Maria e gli otto figli da Mortegliano, in Friuli. A causa di un grosso incendio che ha distrutto la loro casa, hanno contratto un debito che non riescono a risanare. Per sfuggire alla povertà (e ai creditori) stanno sopportando un viaggio lungo e rocambolesco che li condurrà in un deserto.
Di fatto così si presenta la piana di Terralba negli anni ’30, quando gli alberi frangivento sono ancora troppo pochi e troppo piccoli per riempire la bonifica di verde, com’è adesso. Immaginate il senso di solitudine e smarrimento che queste povere persone devono aver provato al loro arrivo nei territori della SBS.
Questo è, tra gli altri, un motivo per cui si decide di costruire il nuovo centro abitato. L’obiettivo è formare una comunità che graviti esclusivamente intorno alla bonifica, e non ai paesi vicini. Ecco perché sarebbe più corretto definire Arborea, più che città di fondazione fascista, città di bonifica.
È da essa infatti che nasce il paese, non dal regime, infiltratosi in questi eventi soltanto per contemporaneità storica. È invece decisione fascista, datata 1930, la scelta di rendere Villaggio Mussolini, che allora è frazione di Terralba, Comune autonomo con il nome di Mussolinia di Sardegna. Per i terralbesi, oltre alla perdita definitiva dei propri territori, si aggiunge il danno: i soldi utilizzati per finanziare la cassa della nuova amministrazione sono quelli che la SBS aveva dato al Comune in cambio della cessione in enfiteusi delle terre. Il denaro era rimasto bloccato fino a quel momento (dal ’19, undici anni), in una banca Comit a Cagliari. In questa operazione è evidente la volontà del regime di rendere sempre più sua l’opera di bonifica. Nel giro di qualche anno vengono edificate la Torre Littoria e la GIL (Gioventù Italiana del Littorio: progettata dall’architetto Giovanni Battista Ceas, ha tra l’altro una interessante struttura razionalista). Si cerca inoltre di sviluppare sempre di più la comunità: si moltiplicano gli eventi sportivi e il paese avrà anche una squadra di calcio. Viene dato alle stampe anche il giornale della bonifica, Brigata Mussolinia. Un evento importantissimo è l’arrivo, sempre a inizio anni Trenta, dei salesiani di Don Bosco che daranno tanto alla cittadinanza, in particolare ai giovani. Il Duce visiterà il paese suo omonimo il 9 giugno del ’35 e nel maggio del ’42.
Di quest’ultima sua apparizione abbiamo però pochi documenti: forse, per via del viaggio troppo frettoloso e per la crisi della sua immagine dovuta alla Seconda Guerra mondiale. Ed è proprio quando il conflitto ormai vede l’Italia divisa in due, in pieno '44, che Mussolinia diventa Arborea. Questo nome viene scelto perché la zona della bonifica, nel Medioevo, apparteneva al Giudicato di Arborea, ultimo Stato indipendente della Sardegna prima della conquista spagnola dell’Isola. Da qui, per la Figlia della bonifica, inizia un nuovo corso: dopo la guerra, saranno intense le rimostranze dei coloni verso l’SBS. Il desiderio di un futuro più ricco spinge i mezzadri a liberarsi dagli obblighi legati al contratto con la società. Nei primi anni Cinquanta diventano finalmente assegnatari. Decidono però, non senza dubbi e timori, di continuare uniti il percorso intrapreso: nel '56 nasce la Cooperativa Assegnatari Associati Arborea (3A), che oggi esporta in Italia e nel mondo i prodotti del paese, in particolare il latte. È uno dei fiori all’occhiello dell’imprenditoria sarda.
Potremmo concludere qui il racconto su questo grande miracolo iniziato circa cento anni fa nel Terralbese. In realtà, la sua storia continua ancora adesso: la bonifica infatti richiede impegno e manutenzione costanti, ed è viva fino a quando c’è qualcuno che si occupa di essa. Lo sforzo immane che hanno compiuto i sardi prima, e i coloni del Nord poi, è ben visibile ai loro discendenti: ogni canale, ogni casa, ogni podere riporta alla memoria una storia. La bonifica stessa, verde e bella, è l’eredità tangibile dei sacrifici dei tanti operai e mezzadri che vi hanno lavorato tutta la vita. Questo retaggio riporta alla memoria le umili origini della gente del posto, della fatica immane che è stata fatta per garantire ai posteri una vita migliore. È l’identità che ciascun terralbese e arborense, nel bene o nel male, porta dentro.
I personaggi che avete trovato in questo articolo sono realmente esistiti: Virgilio, Mosè e tutti gli altri. Molti di essi fanno parte della mia famiglia, e le loro storie, anche se ora non ci sono più, continuano ad essere raccontate. Ho parlato di miei parenti, ma ad Arborea e a Terralba potrete trovare decine di persone cui, se chiederete della bonifica, vi racconteranno aneddoti molto simili, dei loro genitori o nonni. Desidero infine ringraziare chi mi ha dato, durante la scrittura di questo articolo, molti spunti di riflessione: in particolare, Marco Pani Manca, Patrizia Martis, Alberto Medda Costella, Alessandro Rosas e Alberto Stevanato.
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