Qualche anno fa ho intervistato donne e uomini di ogni età, con cui ho un rapporto di conoscenza, per comprendere meglio il loro pensiero su alcune tematiche: tra gli altri, la parità e il futuro. Sono scaturite riflessioni importanti, talvolta scomode, che meritano di essere lette e discusse. E, nonostante il passare del tempo, attuali. La forma che ho scelto per l’articolo è quella dell’intervista collettiva: ho pensato alle conversazioni che, magari in famiglia, si possono fare su questi argomenti.
Per me la stessa parola “emancipazione” è fuorviante, poiché presuppone che la donna debba inserirsi in un sistema non costruito per lei. Parlerei, piuttosto, di uguaglianza di genere e la definirei come quella cosa che, quando c’è, non si vede: in una società (per ora quasi ideale) in cui la donna non va incontro a discriminazioni sul lavoro, in cui è difesa nel libero arbitrio del proprio corpo (non parlo solo dell’aborto, ma anche, per esempio, dello sfruttamento della prostituzione), in cui ognuna è libera di camminare da sola di notte senza rischiare niente, in cui ogni bambino possiede il cognome di entrambi i genitori, se essi lo desiderano, o anche solo della madre, il concetto stesso di discriminazione diventa solo un ricordo. In altre parole, viviamo in un sistema che non è costruito sulla base dell’integrazione, ma cerca di “aggiornarsi” per permettere a più persone possibili di adattarvisi e, il più delle volte, di illudersi di aver raggiunto la parità con coloro che l’hanno creato. D’altronde, l’uguaglianza è uno dei principi fondanti dell’ordinamento italiano, ma come si può negare che il nostro Paese sia quotidianamente vessato da differenze sociali a tutti i livelli? Emancipazione, per me, significa non essere costretta ad alzare la voce per farmi sentire, poiché essa è considerata pari alle altre.
Pensi che in Italia, la donna sia discriminata? (Eleonora, 16 anni)
Essendo una studentessa, in ambito scolastico non credo che ci siano differenze tra maschi e femmine, penso che tutti abbiano pari diritti e vengano trattati allo stesso modo. Fortunatamente non mi è mai capitato di assistere a scene in cui una ragazza venisse discriminata poiché, appunto, donna. Nel mondo degli adulti penso invece che ci siano ancora molte discriminazioni di questo tipo: spesso capita che in ambito lavorativo una donna venga considerata inferiore all'uomo, in alcune situazioni capita che non venga considerata "abbastanza in gamba" per svolgere un determinato mestiere. Avendo una sorella minore, mi capita spesso di guardare dei cartoni animati insieme a lei, sia quelli più recenti, che quelli più vecchi, e ho notato la presenza di alcune differenze: nei film animati più vecchi, la figura femminile è sempre rappresentata come debole e bisognosa di un uomo al suo fianco per vivere la sua vita. Nei film più recenti, invece, la figura femminile inizia ad essere rappresentata sempre di più come "guerriera", capace di vivere la sua vita e di affrontare le difficoltà da sola, senza bisogno di un principe (come nella maggior parte dei film per bambini) che la salvi e la renda felice.
La parità di genere si lega anche al diritto di aborto. Perché è ancora ritenuto un tabù? (Sara, 19 anni)
Penso che l’aborto possa essere considerato un tabù per vari aspetti. Da un punto di vista più generale lo è per via della scarsa informazione al riguardo, come avviene purtroppo anche per altri temi importanti e sui quali sarebbe altrettanto necessario educare, come ad esempio l’educazione sessuale. Penso che questo sia sintomo di un sistema ancora legato al passato e, nel caso specifico dell’aborto, che avvenga per non generare attriti con la mentalità pro life, ancora purtroppo molto diffusa. A ciò si aggiunge che l’aborto è un argomento difficile da trattare anche e soprattutto per le stesse donne che lo vivono e questo, secondo me, non deriva tanto dalla paura di essere giudicate, quanto dal fatto che loro stesse preferiscano tenere per sé una scelta così personale e combattuta. Spesso, quando si discute sulla legalizzazione dell’aborto, ci si dimentica dei sentimenti di una madre che si ritrova, per vari motivi, a non poter tenere un bambino. Si tende perciò a pensare che una maggiore informazione sulla possibilità di abortire possa portare a prendere una simile scelta a cuor leggero, mentre al contrario rimarrà sempre dolorosa e pesante per qualsiasi donna.
A questo proposito, tempo fa ha creato scandalo il cimitero dei feti di Roma. Cosa ne pensi? (Giacomo, 29 anni)
Personalmente ritengo che la vicenda proponga due ordini di problemi etici e normativi molto diversi, che non possono stare sullo stesso piano. Da una parte, quello normativo, è il problema della riservatezza, del diritto all’anonimato delle persone che hanno deciso di abortire. La scelta di apporre il nome della madre sulle croci del cimitero dei feti, da poco venuto a conoscenza del pubblico nazionale, è una violazione di questo diritto. È un diritto che il nostro paese e anche tutta l’Unione Europea garantisce anche in casi molto meno delicati; tanto più in un evento così delicato, personale, causa di dolore. C’è stato poi il sospetto da una parte dell’opinione che quei nomi siano stati apposti come ad indicare una “colpa”. Questo sarebbe un giudizio etico gravissimo da emettere nei confronti di una tale scelta. Qualunque approccio etico o religioso di fronte all’aborto in sé non può permettere ad alcuno di emettere un giudizio sulla persona che, per libera scelta o per costrizioni derivanti dal contesto, decida di abortire. La propria visione del mondo non può essere imposta a tutti; il proprio giudizio non deve ‘marchiare’ tutti. L’altro livello del problema ha a che fare con la sorte dei feti stessi. Personalmente ritengo importante e toccante che qualcuno abbia deciso di dedicare loro uno spazio e una cura. Non riesco a capire come vi siano persone - ho letto tali opinioni - che preferirebbero vedere i feti assieme ad altra materia organica e non. Piuttosto che il nome della madre, dovrebbero forse esserci dei dati che permettano di identificare il feto senza identificarne la madre. Sono tantissimi i dati che gli archivi di ospedali, archivi di stato e altri tipi di archivi devono immagazzinare - dati sensibili come quelli dei bambini dati in adozione, dati che non potranno mai essere rivelati o che potranno essere rivelati solo in determinate circostanze - perché anche questi dati non possono essere custoditi nel segreto? Non per incolpare alcuno, non per divulgare quella scelta. Spero che questa vicenda possa portare a una riflessione più ampia su questo tema - anche se temo che ciò non accada, perché queste riflessioni viaggiano alla velocità del giornalismo, che ha già dimenticato, fino al prossimo scandalo almeno.
Andando tranquillamente in giro (quindi non su un luogo di lavoro, ad esempio) ti è mai capitato di subire "apprezzamenti" per strada, o anche peggio? (Veronica, 19 anni)
È capitato sia a me sia alla maggior parte delle amiche, parenti e conoscenti non solo di ricevere apprezzamenti non richiesti (che, per inciso, si tratta di catcalling ed è anche questa una forma di molestia) ma anche di venire seguite, fermate, di aver ricevuto contatto fisico non richiesto e purtroppo anche di avere avuto relazioni tossiche e violente…
Ti senti tutelata dalle istituzioni? (Michelle, 16 anni)
No, personalmente non mi sento per nulla protetta dalle istituzioni. Sicuramente sono in grado di aiutare e sostenere molte donne in difficoltà e/o pericolo, ma per lo più a cose fatte. In quanto donna, nonostante la mia giovane età, dopo aver assunto un minimo di consapevolezza della realtà in cui tutti noi viviamo, ho imparato ad assumere certi comportamenti e ad evitarne degli altri per non ritrovarmi in situazioni spiacevoli. Trovo sia una cosa molto triste da dire, ma ho fatto in modo di adattarmi ai tempi. E cerco, per quanto possibile, di stare (metaforicamente parlando) all’interno del mio guscio d’uovo, quindi al sicuro, almeno fin quando le cose non cambieranno, cosa che spero avvenga presto e soprattutto per il meglio. Ci tengo a specificare che la mia non è una rassegnazione, anzi...ma ad esempio non approvo il fatto di mettere in evidenza il corpo femminile per cercare di “normalizzarlo”, quella secondo me è già la fase successiva. Per ora un corpo esposto viene solo oggettificato, quindi prima bisognerebbe far assumere consapevolezza alla popolazione, e parlo in generale perché purtroppo non è una cosa valida solo per i ragazzi nei confronti delle ragazze. Ci sono ancora molte ragazze, forse anche più dei ragazzi, che tendono a dare della poco di buono a un’altra donna, solo perché scopre e mette in mostra parti del proprio corpo.
Sei stata insegnante per una vita. Come può comportarsi la scuola per combattere la misoginia? (Giuseppina, 67 anni)
Nella mia esperienza di lavoro, mi è capitato di aver a che fare con atteggiamenti maschilisti che generalmente attengono ad una forma culturale diffusa, meno con forme di misoginia che si caratterizzano come atteggiamenti individuali e come tali, credo, abbiano una matrice nel vissuto della persona che li esprime. Ritengo che la scuola debba, in merito a queste tematiche, essere sostenuta da figure esperte in grado di indirizzare l’intervento formativo del docente al quale non si può chiedere di essere “tutto”, e cioè: docente della propria disciplina, esperto di tematiche adolescenziali, psicologo, sociologo… e chi più ne ha, più ne metta! Il buon senso mi porterebbe a dire che il punto di partenza di un intervento dovrebbe prendere in considerazione la “rabbia” che sottende ad un comportamento misogino per comprendere chi la esprime e per quale motivo… ma il buon senso qualche volta non basta! In tutti i casi, ritengo che all’interno della comunità scolastica i docenti debbano, con i propri comportamenti improntati al massimo rispetto di genere, non perdere mai di vista la valenza del proprio ruolo educativo. I messaggi che passano attraverso i nostri modi di fare nel relazionarci con gli altri, sono certamente più efficaci delle parole.
Da uomo, ormai in la con gli anni, come è cambiata la percezione della donna, rispetto a quando eravate giovani? (Andrea, 58 anni)
Aver vissuto la seconda metà del 1900 e l'inizio degli anni 2000 mi ha dato un'idea di come sia cambiato il modo di rapportarsi alla figura femminile, sia in ambito familiare che in campo sociale, anche se (ovviamente) da un punto di vista del tutto soggettivo. La situazione economica generale ha facilitato (ma anche obbligato per ovvi motivi) il passaggio da una figura prettamente materna ad un ruolo notevolmente diverso (o più vario). Mia madre ha voluto rinunciare al suo impiego per occuparsi a tempo pieno dei figli. Anche questo ha fatto sì che da piccolo la mia immagine della donna non potesse essere tanto diversa da quella. Il rapporto con le figure femminili che ho incrociato durante l'infanzia, evidentemente nelle donne più grandi di me, aveva quindi come riferimento la 'mamma'. Durante l'adolescenza, ovviamente, rapportarsi con l'altro sesso aveva cambiato connotazione, la figura materna aveva lasciato il posto ad un’altra più 'interessante' sotto certi punti di vista. Anche nel mio ambiente, essendo musicista, la frequentazione di tante figure femminili di tutto rispetto con cui ho condiviso esperienze musicali mi ha reso cosciente di quanto sia cambiato il modo di rapportarsi con loro, ferma restando la incapacità di alcuni musicisti (pochi fortunatamente) nel riconoscere l'assoluta parità nelle capacità, nei metodi e nei meriti. Per concludere, se nel tempo l'elemento femminile si è smarcato, a ragione, dalla visione a senso unico donna/mamma è innegabile che ancora oggi una sacca di 'benpensanti' fatica a riconoscere, vuoi per una formazione cattolico/conservatore vuoi per una semplice forma di invidia/paura, l'accettazione dei cambiamenti nella società. Restano da risolvere vari punti, tra cui la disparità in ambito salariale, il riconoscimento in ambito aziendale a tutti i livelli della mamma/lavoratrice. Solo a quel punto potremo riconoscerci in una vera ed efficiente società civile.
Hai vissuto in Germania vent’anni fa. Era presente la percezione del problema della violenza sulle donne? (Mara, 46 anni)
Premetto che quanto riporto è frutto di un’elaborazione meramente personale, legata al mio vissuto in un contesto famigliare prima e studentesco in seguito. L’impressione che io ho riportato è che in quel periodo, in Germania, ci fosse un maggior grado di consapevolezza rispetto al problema della violenza sulle donne che in Italia. Atteggiamenti che nel nostro Paese erano considerati “normali”, si pensi al dibattito attuale sul catcalling, nella quotidianità della Germania di allora non esistevano: per molte studentesse della mia età era quasi una sorpresa il fatto di non essere oggetto di apprezzamento, come succedeva invece spesso nelle strade di casa nostra. Le “galanterie” cui eravamo abituate, come il fatto che l’uomo, tanto per fare un esempio, si offrisse di saldare il conto di un caffè al bar, o di portarci un ”peso”, senza che magari ce ne fosse veramente bisogno, non esistevano. Era ben chiaro il confine tra la gentilezza di un gesto dettato dalla cortesia e quella di uno dettato dal retaggio maschilista, per cui l’uomo è colui che si fa “carico” della donna (dal saldare un conto, all’offrire aiuto anche quando palesemente non necessario, ecc.): infatti i giovani tedeschi venivano considerati “freddi”, poco inclini alla galanteria; in realtà vivevano il rapporto fra i due sessi in maniera più paritaria rispetto a noi. Mi ricordo che un giorno mi capitò in mano un manuale di preparazione ad un viaggio, che forniva alle donne tedesche delle raccomandazioni sui comportamenti da tenere in alcuni paesi dell’area Mediterranea: vi si affermava che determinati atteggiamenti delle donne, che in Germania erano normali, in alcuni Paesi potevano essere fraintesi e interpretati come indice di scarsa moralità, per cui le si esortava ad essere particolarmente attente agli usi e costumi dei luoghi meta del viaggio, onde non incappare in situazioni spiacevoli. Inizialmente fui indignata da quanto letto, interpretando alcune affermazioni come razziste e dettate da una sorta di senso di superiorità rispetto ad altri Paesi. Col senno di poi, leggo una grande cognizione di causa rispetto ai tanti stereotipi, che allora a casa nostra non venivano neanche percepiti come tali, legati ai comportamenti delle donne. Naturalmente ciò non significa che nella Germania di allora la condizione muliebre fosse ottimale: in molte famiglie c’era ancora una netta suddivisione di ruoli, con l’uomo che lavorava e portava a casa lo stipendio e la donna che badava all’educazione dei figli e alla casa, e le molestie erano anche lì all’ordine del giorno. Però, come detto, c’era una maggior acquisizione di coscienza rispetto ai temi fondamentali della condizione femminile, che si rifletteva nella vita di tutti i giorni in atteggiamenti e rapporti fra i due sessi improntati generalmente alla parità.
Tu invece hai fatto un anno all’estero da poco, in Perù… (Sara, 18 anni)
In Perù ho riscontrato, rispetto alla mia quotidianità in Italia, una differenza nei tempi: c’è ancora una visione della donna dedita alla casa, che cucina, che accudisce i figli. Magari anche della donna che lavora, ma non fa carriera. Poi, mi ha colpito il pudore riguardo la figura della donna: tra madri e figlie non si parla tanto del corpo, dell’educazione sessuale. Secondo me è un errore, perché le ragazze si ritrovano incinta a quindici, sedici anni. Insomma, possiamo dire che il Perù di oggi sia più o meno come l’Italia degli anni ’80. Il maschilismo (che si chiama machismo, forse rende meglio l’idea) è molto forte.
Ritieni che la Chiesa sia aperta per l'emancipazione della donna? (Maria Teresa, 72 anni)
Premetto che non frequento molto la Chiesa. Prima nei confronti delle donne la Chiesa era molto chiusa, perché non si dava ad esse nessuna responsabilità. Mi ha sempre dato l’impressione che venissero adoperate solo per fare le pulizie e per il catechismo. In generale venivano trattate come persone che dovevano obbedire, a mio avviso. Ora invece, noto un cambiamento: la Chiesa si sta prodigando per tutelare le donne che sono in difficoltà, come le prostitute. Però questi atteggiamenti sono perlopiù di iniziativa dei singoli, e non tanto dell’intera comunità ecclesiastica. Un’altra cosa: tempo fa un sacerdote era venuto a benedire la mia casa. E gli chiesi perché le donne non possono celebrare le messe. Ha cominciato a elencarmi le “regole” del Vangelo, per cui appunto le donne non potessero celebrare. Secondo me invece dovrebbero avere parità di diritti anche in questo campo.
Cosa speri per il futuro? (Monica, 29 anni)
Anche se alcuni avvenimenti cui assistiamo quotidianamente rendono difficile tenerlo a mente, abbiamo la fortuna di vivere nel periodo storico più favorevole alla figura femminile. Per secoli e millenni sarebbe stato quantomeno anacronistico anche solo immaginare una donna economicamente e moralmente indipendente, che viva del proprio ingegno, libera di scegliere se formare una famiglia o no, e che prima ancora abbia avuto la possibilità di studiare e formarsi a tutto tondo; una donna con diritti, opinioni, e perché no, il potere e il benessere cui qualsiasi uomo potrebbe aspirare. E in alcune realtà questa purtroppo è ancora utopia. Mi piace pensare che questo lento, lentissimo processo possa proseguire, crescere, espandendosi anche alle zone più remote, continuando a raffinarsi giorno per giorno. Occorre presenza di spirito e un gran senso di responsabilità, ma non è più possibile rimandare.
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