Trasferitosi dalla Grecia Roma alla fine degli anni 50, Jannis Kounnellis è uno dei protagonisti dell’arte povera che alla fine degli anni 60 reinterpreta oggetti prelevati dal quotidiano, investigando il ruolo nella creazione artistica rivestito da materiali e processi sia fisici che intellettuali. A partire da questo momento l’originaria pratica della pittura si espande nella terza dimensione dello spazio tempo espositivo che Kounnellis investe in un’energia epica esplorando l’eternità eroica e iconica di archetipi rinvenuti nella solidità della materia, degli oggetti e delle creature. L’opera realizzata per il museo di Capodimonte è costituita da orci in terracotta di varia foggia, dimensione ed epoca recuperati tra Lazio e Campania, esplicito richiamo alle matrici greco romane della città partenopea. La loro ritmica disposizione sul pavimento scandisce la sala in senso orizzontale, mentre le lastre di ferro alle pareti contrappongono a questa orizzontalità il proprio orientamento verticale. Un ulteriore contrasto è quello tra il carattere artigianale degli orci e le materie industriali delle lastre, che sorreggono coppie di sacchi pieni di carbone.
La descrizione è ineccepibile e precisa, chi ha scritto questa didascalia ha descritto chiaramente l’opera che rientra nello stile dell’arte povera e richiama al rapporto con la città e la sua storia. Vista dal vivo, a parte la disposizione degli oggetti, l'opera francamente dice molto poco. Come fruitore non emoziona e non induce ad alcuna riflessione. Per capire se questa mia posizione fosse il frutto di un mio pregiudizio o meno, ho guardato un'intervista all'artista fatta da Philippe Daverio.
Nel servizio Kounnellis parla di tante cose, anche interessanti. Ma se notate non emerge nulla di ciò che egli pensa e vuole dire attraverso l’arte. Nulla che sia codificabile a parole e dunque nulla che un critico o l'intervistatore stesso possa far emergere della sua arte. Sembra che questi sia costretto a chiacchierare con l'artista senza giungere a nulla di rilevante.
Veniamo adesso a un’opera di Ettore Spalletti (1940-2019), intitolata Stanza bianca, oro del 1995. Questa è composta da un impasto di colore e foglia oro su tavola.
Ettore Spalletti lavora sin da gli anni 60 a composizioni astratte, forme geometriche costruite in modo da stimolare i processi di percezione. Il doppio monocromo del museo di Capodimonte, dall’aspetto compatto e poroso e profilato in oro lungo tutto il bordo, è il risultato di un lento e accurato lavoro manuale, con il quale l’artista stende e leviga il pigmento pittorico, precedentemente mescolato ad un impasto materico, come se il colore suggerisce la possibilità di espandersi nell’aria e fondersi con lo spazio espositivo e il respiro dello spettatore. Il lieve aggetto della parte centrale delle due tavole da cui è composta l’opera rompe la tradizionale bidimensionalità del quadro e lo trasforma in un’apparizione a metà tra pittura e scultura, che modifica lo spazio in cui l’opera è posta. Stanza bianca, oro faceva parte di un’istallazione composta da più quadri realizzata nel 1995 in occasione di una mostra temporanea dell’artista al museo di Capodimonte.
Queste due opere prese in esame mostrano come nel sistema dell'arte contemporanea, i messaggi di buona parte degli artisti siano delle sensazioni provate da questi e riportate sotto forma di espressione artistica. Tuttavia quelle sensazioni, al di là della elaborate parole di un critico d'arte, non risuonano nella percezione del fruitore finale che a parte qualche suggestione, lascia poco spazio ad una reale interiorizzazione.
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