6 marzo 2023

Intervista a Jean Paul Manganaro su Carmelo Bene


Anche nel teatro esiste un a. C. e un d. C.: per C. si intende Carmelo Bene. Quasi ventuno anni fa, all’età di sessantacinque anni, moriva il più grande uomo di teatro del Novecento italiano: molto più di Pirandello, Dario Fo e Vittorio Gassman. Ho intervistato una persona che lo apprezza e studia da una vita: Jean Paul Manganaro. Professore emerito di letteratura italiana contemporanea all’università di Lille, ha tradotto in Francia libri di Calvino, Pasolini, Gadda, Pirandello e molti altri. Oltre a questo, è stato uno dei primi ammiratori di Bene: nella nostra intervista, a volte ne parla al presente, forse in maniera inconscia, come se non fosse mai morto. Ed in effetti C. B., con la sua voce magnifica, il suo concetto di macchina attoriale, il suo lasciarsi dir l’ascolto, è vivo ancora oggi, più che mai. Come tutti i grandi classici.

Ci potrebbe raccontare la prima volta che ha conosciuto Carmelo Bene?
L’ho conosciuto da principio come personaggio-attore, vedendo nel ’69 Nostra Signora dei Turchi, in un cinema a Parigi. Questa è la prima volta che ho visto Carmelo Bene, e sono rimasto assolutamente folgorato dalla sua prestazione cinematografica e, in fondo, anche teatrale. Nel 1975 lavoravo per un istituto che si occupava di scambi culturali, inerenti al teatro, in Italia. L’ho incontrato a Roma per proporgli di fare qualche sua rappresentazione a Parigi. A quell’epoca aveva già finito con il cinema, riprendendo del tutto l’attività teatrale. Mi ricordo che il primo spettacolo di Carmelo che vidi era un suo Amleto. Possiamo quindi parlare di due prime volte: quella del ’69 e quella del ’75!


Com’era ascoltare la sua voce dal vivo?
La voce di Carmelo era una delle più inconfondibili al mondo. La si riconosce fra mille. Come quella di Maria Callas: non ci sono persone che cantano come lei; allo stesso modo, non esiste nessuno che parla come Bene. C’è quindi un riconoscimento immediato della voce di Carmelo: certo, era teatralmente esagerata, ma comunque era sempre molto naturale. Nel quotidiano aveva la stessa magnifica presenza vocale.

Rivedendo Hommelette for Hamlet, ho notato molta presenza di musica lirica, in particolare di Verdi. Bene aveva un rapporto particolare con questo compositore? Come sceglieva le musiche da inserire nelle sue opere?
Senza dubbio c’era una simpatia nei confronti di Verdi. Lo inserisce anche nel suo Macbeth. Come c’è infatti il Macbeth di Shakespeare, c’è anche quello del compositore milanese, e Carmelo nel suo spettacolo li pone a confronto. In generale però era interessato a tutta la musica operistica: non l’ha mai messa in scena, però aveva una grande passione, da me condivisa, per l’opera di Bellini. Ha usato anche il Manon Lescaut di Puccini. In effetti però, Verdi è stato adoperato molto più di altri compositori.


Dal mio punto di vista, ritengo ci sia una somiglianza tra Bene e Rossini. Anche quest’ultimo spezzetta le parole, e ha un’ironia sottile che fa emergere situazioni tragiche, nonostante il clima buffo che regna nelle sue opere. Cosa ne pensa?
Preferisco non dare giudizi su questo, non conoscendo bene la musica. Direi però che Rossini non sia sufficientemente consono per Carmelo e il suo teatro. Egli infatti usa quasi sempre musiche del periodo romantico.

Nel suo libro Oratorio Carmelo Bene fa dei riferimenti alla vicinanza di C.B. col barocco. Questo legame si nota forse di più in Hommelette for Hamlet. Com’è possibile che un uomo come Bene, così intriso nelle tematiche del Novecento, fosse così prossimo anche a quel mondo?
Il barocco non è soltanto Bernini. Nel Novecento questo si presenta, in sostanza, come una crisi del neorealismo, che, partito da un certo classicismo, è poi degenerato. Non so se metterei Hommelette for Hamlet tra le opere barocche, direi più il Riccardo III o il Macbeth. L’Hommelette è un cristallo, ha una purezza fonica e musicale estrema. Quello che c’è di barocco, tutto sommato, è il modo in cui Carmelo definisce il grottesco una volta finito il tragico. Non è un atteggiamento da intendersi alla Borromini, da barocco classico; bisogna intenderlo come espressione critica del realismo. Il fasto seicentesco viene “inserito” all’interno della tragedia.

Cosa le trasmettevano i suoi spettacoli?
Posso dirle che la prima volta che ho ascoltato la sua Lectura Dantis, ho pianto per tre quarti d’ora. È stata un’esperienza molto violenta. Questo perché aveva una voce assoluta che in quel momento si dedicava a temi che sono comuni a tanti, a molti, a troppi: Dante infatti appartiene a tutti gli italiani. Carmelo ha un modo di dirlo in cui si ha l’impressione non che lui reciti, ma che stia componendo i Canti dal vivo. È sconvolgente.


Una delle citazioni topiche che ci ha regalato Bene è: “Il talento fa quello che vuole, il genio quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”. Che tipo di genio è C. B.?
È un’intelligenza totale, versata però nel teatro. Anche se poi non fa teatro, ma qualcos’altro: ovvero [fa] tutto ciò che evita di confrontarlo con il suo presente, di astrarlo e di farne un qualcosa al di fuori della Storia, sempre però nella pienezza del suo modo.

C’è chi considera ancora Carmelo Bene soltanto un provocatore. Come rispondere alle persone che non riconoscono il suo valore?
È inutile lottare con gli imbecilli. D’altra parte, mi sembra che Carmelo oggi sia un grande classico del pensiero e dell’arte italiana, alla stessa stregua di Verdi, Leopardi e via dicendo. Ha fatto qualcosa di unico che non è mai stato ripetuto dagli altri. È impossibile replicare la sua singolarità. Non si può parlare di Manzoni, ad esempio, senza riconoscere a lui e alla sua poetica un qualcosa che va al di fuori della nostra esperienza. L’artista serve appunto a metterci in contatto con quel qualcosa, e quindi più che artista è un creatore. In quanto creatore, Carmelo Bene è perciò diventato classico.

Secondo lei, ora c’è qualcuno che sta seguendo la strada di questo grande genio?
Possiamo riconoscere alcune performance ed elaborazioni che forse Carmelo ha aiutato a sviluppare. Penso ad Ermanna Montanari che fa ricerche molto interessanti sulla voce. In generale ci sono altri attori e attrici che hanno potenzialità adatte per fare simili elaborazioni; comunque non potranno mai essere al pari suo, innanzitutto perché lui e la sua epoca sono finiti. Siamo ormai in un altro periodo. C. B., lo ribadisco, è ormai un classico passato alla Storia.

Lei l’anno scorso ha scritto “Oratorio Carmelo Bene”, che abbiamo citato anche prima. Concludendo, quanto è stato difficile parlare di C. B.?
È tutta una vita scrivere di Bene! Certo, è stato difficile, ma ormai ho le mie idee che non sono campate in aria: provengono dalla grande stima, amicizia e simpatia vissute con Carmelo.

1 commento:

  1. Parlare oggi di Bene è difficile, perché dopo la morte è andato incontro ad un oblio precoce dal quale solo gli esperti di teatro, di tanto in tanto, lo tirano fuori. Questo, unito alla innegabile verve scrittoria, fa dell'intervista un unicum. Unica pecca il paragone azzardato con Pirandello.

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