14 aprile 2023

L’io del sottosuolo: emblema di una condizione collettiva

Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori.

Da questa presa di coscienza iniziale si avvia una delle opere del grande esponente della letteratura russa Fedor Dostoevskij, autore del celeberrimo Delitto e castigo, che più visceralmente scende nei meandri del subconscio. A parlare è l’uomo del sottosuolo, in un agognato monologo di critica sociale, che progressivamente va decostruendo i tanto esaltati valori positivistici mettendo in risalto una spinta all’autoumiliazione e alla ricerca della sofferenza, insita nella natura umana. Nel corso della sua analisi, l’uomo ripercorre i suoi ricordi passati, riflettendo un’agonia esistenziale ed un’inettitudine che lui stesso ripudia, ma dalla quale sembra non trovare via di fuga. Da qui deriva il suo allontanamento dalla vita sociale ed il suo rifugiarsi nel sottosuolo, appunto, per quarant’anni.

Nella seconda parte, l’io si confessa, raccontando apertamente delle azioni commesse in passato a prova di come anche una persona all’apparenza per bene come lui potesse compiere atti ripugnanti.

A quel tempo avevo solo ventiquattro anni. La mia vita era già allora tetra, disordinata e solitaria fino alla selvatichezza. Non frequentavo nessuno ed evitavo perfino di parlare, e mi rintanavo sempre più nel mio cantuccio. Al lavoro, nella cancelleria, cercavo perfino di non badare a nessuno, e non solo mi accorgevo benissimo che i miei colleghi mi consideravano un originale, ma avevo sempre l'impressione che mi guardassero con un certo disgusto. Mi accadeva di pensare: perché a nessuno, tranne che a me, sembra d'esser guardato con disgusto?

Questa apertura fa emergere il profondo senso di solitudine ed inadeguatezza che lo affliggeva, unito talvolta ad un’illusoria superiorità nei confronti degli altri. Ormai disoccupato all’età di quarant’anni, ritorna a riflettere su quando ne aveva ventiquattro e lavorava come impiegato. Cruciale e ricorrente è l’elemento del disgusto, che percepiva addosso tramite gli sguardi dei suoi colleghi, dai quali teneva le distanze malgrado tuttavia si sentisse inferiore. Questo sentimento va poi estendendosi, come si vedrà più avanti, anche nei confronti dei suoi vecchi compagni di scuola con cui si rincontrerà dopo anni, del suo servitore Apollon e di una prostituta di cui abuserà sfogando tutte le sue frustrazioni.

Inoltre avevo un morboso timore di essere ridicolo e perciò ero servilmente conformista in tutto ciò che riguardava l'esteriorità; con amore seguivo il binario comune e con tutta l'anima aborrivo qualsiasi eccentricità. Ma come potevo resistere? Ero morbosamente evoluto, come appunto dev'essere evoluto l'uomo del nostro tempo. Mentre tutti loro erano ottusi e simili l'uno all'altro come pecore in un gregge. Forse a me solo, in tutta la cancelleria, sembrava costantemente di essere un codardo e uno schiavo; mi sembrava proprio perché ero evoluto. Ma non solo mi sembrava, bensì era davvero così nella realtà: ero un codardo e uno schiavo. Lo dico senza alcun imbarazzo. Ogni uomo perbene del nostro tempo è e dev'essere un codardo e uno schiavo. Questa è la sua condizione normale.

 

[…] Ovviamente non resistevo all'amicizia con i miei compagni, e ben presto mi staccavo da loro e, a causa della mia inesperienza ancora giovanile, smettevo perfino di salutarli, come se volessi rompere definitivamente. Del resto la cosa mi accadde una sola volta in tutto. In generale sono sempre stato solo. A casa, in primo luogo, prevalentemente leggevo. Avevo voglia di soffocare con le sensazioni esterne tutto quel che ribolliva incessantemente dentro di me. E la lettura era l'unica, fra le sensazioni esterne, che mi fosse accessibile. La lettura, naturalmente, aiutava molto: emozionava, deliziava e tormentava. Ma a volte annoiava terribilmente. Avevo comunque voglia di muovermi, e a un tratto mi immergevo in una fosca, sotterranea, turpe - non depravazione, ma depravazioncella.

Nel corso delle sue lunghe memorie, viene fuori anche un altro aspetto interessante: uno spirito contraddittorio che ricerca conformismo per sfuggire alla ridicolezza. Sebbene odiasse i suoi compagni ed il contesto in cui si trovava circoscritto, optava per seguire il senso comune pur di evitare giudizi esterni. Non è un po’ l’istinto dell’uomo moderno? Basti pensare al vertice del sistema capitalista e a quanto si propaghino spinte al conformarsi perché l’essere diverso costa certamente di più. Sicuramente di più rispetto al seguire la direzione di massa, pur non volendo con consapevolezza.

In realtà questo romanzo sembra non narrare solo i tormenti di un io del sottosuolo, ma di un sotterraneo collettivo, condiviso dal genere umano seppur non equamente. Questa smania di evasione ostacolata dall’auto sabotaggio e dalla difficoltà di rapportarsi con gli altri è un malessere che tocca l’intera esperienza umana, in fasi e modalità differenti. Oggi più che mai, questa iper-connessione sta amplificando un’incomunicabilità che sembra spingerci sempre più verso l’isolamento, fisico ed emotivo. Questa tendenza a voler fare senza poi agire in concreto riflette un’epoca in cui nichilismo ed individualismo fanno da padroni, per lasciarci smarriti, distanti e sconnessi. E così tutti noi ci ritroviamo ad un certo punto della vita immersi in un sottosuolo: sta a noi poi risalirlo o affondarvi.

Giada Salvati

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