Hanslick | Wittgenstein |
La musica è, forse più delle altre arti, soggetta a numerosi problemi di natura filosofica. Il più cocente riguarda l’estetica musicale: perché un brano è bello? Non è affatto una questione di lana caprina. Questa domanda racchiude infatti molte tematiche relative al rapporto tra la musica e il pubblico cui si aggiunge, se c’è, il contributo dell’interprete-esecutore. La risposta a un simile interrogativo potrebbe essere banale: è bello ciò che piace. In realtà, l’argomento è molto più complesso e articolato. Nessuno si sognerebbe di dire in pubblico che la Divina Commedia è brutta; alcuno, d’altro canto, la leggerebbe di sera come fiaba della buonanotte: è difficile, pesante, lunga. Eppure, conoscerla vale la pena.
Per questo può essere utile risalire al pensiero di Eduard Hanslick (1825-1904), musicologo viennese. Con il suo Del Bello musicale, edito nel 1854, si inizia per la prima volta a parlare di estetica in musica. Anzi, il libro fornisce ancora oggi agli studiosi numerosi spunti cui attingere.
Il saggio inizia con una critica della critica: fino a quel momento, dice Hanslick, invece di descrivere la musica stessa i filosofi si sono occupati dei sentimenti generati dall’arte dei suoni. Quindi, ci si trova davanti a un problema innanzitutto di tipo linguistico, e non ontologico. V’è una divisione netta, e a parere di Hanslick ingiusta, tra le regole teorico-grammaticali e le ricerche estetiche, che sono quasi sempre sentimentali. In realtà per sviluppare una critica oggettiva della musica, bisogna partire proprio dallo studio delle sue leggi formali trasposte in chiave estetica. Il sentimento discosta il fruitore dalla contemplazione della bellezza. Ma quindi cos’è il Bello? In musica, è pura forma. Attraverso una spiegazione empirica, l’intellettuale viennese chiarisce quest’aspetto: Mozart era considerato molto più passionale rispetto all’antico e pacato Haydn; focoso venne poi ritenuto Beethoven, che “relegò” il compositore della Marcia alla Turca nel ruolo del predecessore apollineo, e così via. Ne consegue che il sentimento provocato dalle musiche, oltre a essere soggettivo, è anche storicamente relativo. Nel terzo capitolo del libro poi, H. si trattiene su una classificazione degli elementi che compongono la musica (eufonia, ritmo, melodia e armonia). Questi elementi, assieme, esprimono delle idee musicali in movimento. In maniera azzeccata, il musicologo le paragona agli arabeschi pittorici, che si sviluppano non attraverso un’emozione, cui sono del tutto slegati, bensì grazie a delle visioni raffigurative. In sintesi, la musica esprime delle idee musicali, mentre il Bello le discerne e giudica. Interessante è notare il fatto che nonostante l’estetica hanslickiana ricerchi l’oggettività, non lo faccia dal punto di vista matematico. Il critico lo vuole proprio specificare: nella composizione di un brano non subentra il calcolo, bensì la fantasia e la creazione libera.
Giunti a questo punto del libro, il lettore non può non chiedersi se la musica sia un linguaggio. Per rispondere a una simile domanda, più che lecita, Hanslick fa notare una palese differenza, relativa all’elemento più intimo della musica, ovvero il suono: in un codice linguistico, esso diviene segno, cioè un semplice mezzo espressivo; in musica, il suono è importante in sé. Ne consegue che le musiche che hanno una forma aperta, ovvero che vogliano significare altro rispetto a quello che sono già, siano linguaggio. Le composizioni di Wagner (1813-1883), sempre tese verso l’unione con la parola e l’azione, ne sono l’esempio perfetto. Il critico, che non nasconde una certa disapprovazione verso il musicista teutonico, preferisce invece i brani “a forma chiusa” di Brahms (1833-1897), considerato più conservatore ma soprattutto più tendente a ragionare soltanto sulla musica in sé.
Wagner |
Il saggio di Hanslick, nel corso dei secoli, ha avuto enorme fortuna, avendo avviato il cosiddetto formalismo musicale. Ed esiste una interessante correlazione, su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro, tra il suo pensiero e quello di un altro filosofo, non musicista ma assai dentro queste tematiche: Ludwig Wittgenstein. Nato nel 1889 nella Vienna del Finis Austriae, Ludwig veniva da una nota famiglia di industriali, appassionati di arte. Casa Wittgenstein era frequentata da importanti artisti, tra i quali il già citato Johannes Brahms, Gustav Mahler e Klimt. Difficile riassumere in poche righe la vita del filosofo austriaco: iscrittosi prima alla facoltà di ingegneria aeronautica a Manchester, passa poi a seguire i corsi di logica Bertrand Russell (1872-1970) a Cambridge; nel 1913 abbandona tutto per trasferirsi in Norvegia; allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, torna nel Paese d’origine, dove si arruola volontario; dopo la guerra (dove sarà anche catturato dalle truppe italiane), diventato maestro elementare, torna ad occuparsi di filosofia, e scriverà la sua opera più famosa: il Tractatus Logico-philosophicus (1921). Inizia poi ad insegnare filosofia a Cambridge, che abbandonerà di nuovo per auto esiliarsi in Irlanda. Infine torna a Cambridge, dove morirà nel 1951.
Brahms |
Allo stesso modo della sua biografia, anche la filosofia di Wittgenstein è molto densa ed enigmatica. I contenuti del Tractatus, unica opera pubblicata in vita, destinati a cambiare la storia del pensiero occidentale, sono stati rivisti o addirittura rinnegati negli ultimi anni di vita del filosofo. Semplificando, nel Tractatus può essere individuata la conclusione della prima parte delle sue ricerche, mentre la seconda nelle Ricerche filosofiche, pubblicate postume. In entrambe le opere, la riflessione è sempre sul linguaggio. Con W. Si sviluppa in maniera definitiva la filosofia analitica.
Per W., la filosofia ha il compito non di chiarire il significato (o i significati) del mondo, ma deve agire sul linguaggio per renderlo il più possibile aderente e corretto rispetto alla realtà. Egli stesso scrive: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”; questa espressione sottolinea il concetto per cui tra l’uomo e l’universo non ci potrà mai essere una conoscenza esclusiva: infatti, essa verrà sempre mediata dal linguaggio, che fornisce soltanto degli elementi interpretativi. La stessa matematica è una rappresentazione delle cose. Senza scendere nel dettaglio, il Tractatus si regge sulla certezza, scardinata poi dallo stesso autore con la teoria dei giochi linguistici, che ogni proposizione sia un’immagine di ciò che rappresenta. Della proposizione bisogna poi verificare il suo valore di verità, ovvero la sua correttezza logica, a prescindere dal fatto che si riveli vera o falsa.
A proposito della musica Wittgenstein nell’asserzione 3.141 del Tractatus: “La proposizione non è un miscuglio di parole, come il tema musicale non è un miscuglio d note. La proposizione è articolata”. Alla luce di quanto scritto in precedenza, si capisce che W. considera la musica come un linguaggio, in particolare come un rapporto strutturato e logico tra i suoni che lo compongono. Negli altri suoi scritti il filosofo citerà più volte la musica, senza tuttavia sviluppare un pensiero organico. Forse proprio per questo le interpretazioni sulla sua vicinanza (o lontananza) al formalismo di Hanslick sono le più svariate. È comunque palese, sia nel primo che nel secondo Wittgenstein, la tendenza a considerare la musica come un linguaggio logicamente organizzato; il pensatore austriaco, nell’ultimo periodo, pare però interessato alla musica non come linguaggio che esprime il mondo, ma come linguaggio del mondo. Questa disposizione però non deve ingannare: W. è anche in questo caso molto lontano dal Hanslick: infatti, a differenza di quest’ultimo, presta minore attenzione al suono in sé, concentrandosi sull’espressione finale dei suoi rapporti con altri suoni; ma soprattutto, non considera la musica dal punto di vista estetico, ma esclusivamente linguistico. Il Bello, nelle sue riflessioni, è del tutto assente.
Qual è la verità quindi? Può darsi che entrambi i filosofi abbiano ragione. L’aspetto logico e l’aspetto estetico non si escludono a vicenda. Ma andare oltre queste discussioni elevatissime è molto complesso, quasi impossibile. Chissà se in futuro si riuscirà a sviluppare un pensiero diverso sulla musica. Per il momento, onde evitare di scrivere sciocchezze, conviene prendere come monito l’ultima asserzione, la settima, del Tractatus: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.
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