A volte la storia bussa alle porte e sembra chiederci di essere ascoltata, meditata, rivisitata in quanto occasione di crescita e volano per il futuro. É quello che mi sento di fare io oggi, in un tempo che ha accolto simbolicamente e politicamente, a distanza di pochi mesi, la sfida di una leadership femminile che guida sia il governo che l’opposizione. In nome di questa sfida, cui afferiscono tensioni e istanze di rinnovamento, pur nell’appartenenza a schieramenti diversi, nella consapevolezza che le grandi battaglie a favore della civiltà debbano compiersi in nome di ideali non divisivi di giustizia e libertà, mi sento di riproporre le parole di una grande giurista e femminista non allineata, Tina Lagostena Bassi, che lottò sempre a fianco alle donne per creare i presupposti di una società più giusta e più civile.
All’apertura del famoso processo per stupro del 1979 Tina iniziava così la sua arringa:
Presidente, Giudici, credo che innanzitutto io debba spiegare una cosa: perché noi donne siamo presenti a questo processo. Intendo prima di tutto Fiorella, poi le compagne presenti in aula, ed io, che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c'interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa. Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia, come donne? Noi chiediamo che anche nelle aule dei tribunali, ed attraverso ciò che avviene nelle aule dei tribunali, si modifichi quella che è la concezione socio-culturale del nostro Paese.
Lagostena Bassi, già nota nel 1975 come avvocato di Donatella Colasanti contro gli stupratori del Delitto del Circeo, parlando poi a nome di Fiorella, la diciottenne violentata da quattro uomini, aveva centrato perfettamente la questione. Che occorreva non soltanto cambiare il codice Rocco che derubricava il reato di stupro a reato contro la morale. Occorreva cambiare anche il codice culturale dominante, fatto di maschilismo, grettezza e ipocrisia.
Donatella Colasanti recuperata dall'auto in cui venne ritrovata |
In quel processo, colei che sarebbe diventata famosa come l’avvocata delle donne, stava rivendicando non solo l’applicazione della legge ma anche la giustizia e non solamente per Fiorella ma anche per tutte le donne che le stavano accanto e che sentiva di dover rappresentare. Perché la legalità è fatta di norme, sanzioni e condanne ma la giustizia è una cosa diversa, E la legalità, la legge spesso non sono evidentemente sufficienti per dirimere questioni che riguardano la condizione femminile e certi tipi di violenza contro le donne che sono un fenomeno strutturale della nostra società in quanto profondamente ancorata alla cultura patriarcale. Tina stava chiedendo accoratamente, disperatamente, di cambiare la cultura del nostro paese, perché quella cultura filtrava dall’aria viziata di pregiudizio di quei tribunali dove si facevano i processi di stupro; processi durante i quali la donna diventava due volte vittima perché anche imputata e costretta a difendersi e giustificarsi per legittimare la sua rispettabilità agli occhi non solo del maschio ma anche agli occhi delle madri, delle sorelle e delle mogli che quel maschio lo difendevano come intoccabile nei suoi privilegi, nelle sue divagazioni e persino aberrazioni sessuali. Ed è esattamente quello che avvenne nel caso di Fiorella quando la moglie di uno dei suoi violentatori si scagliò duramente con tutta la sua arroganza contro la giovane perché il suo uomo era “un buon padre di famiglia” e “si sa gli uomini come sono” mentre “certe donne, sono loro, la rovina degli uomini”.
Il reato di stupro: da reato contro la morale a reato contro la persona
Anche oggi, dopo che il reato di stupro nel 1996 è diventato un reato contro la persona, anche oggi che disponiamo di un corpus normativo estremamente ricco per proteggere le donne dalla violenza, anche oggi dicevo, respiriamo un’aria viziata dal pregiudizio e dagli stereotipi di genere. E lo sguardo fatto di prevaricazione e di presunzione di colpevolezza di certi uomini ce lo portiamo dentro. Uno sguardo giudicante e impietoso che pesa sul vissuto delle donne e della loro libertà come un macigno.
Basti pensare che l’Istat registra che il 39,3 per cento degli uomini italiani ritiene che lo stupro possa essere evitato se veramente una donna lo vuole e il 23,9 per cento ritiene che le donne provochino violenza col loro modo di vestire. La cosa veramente triste è che anche noi donne spesso pensiamo la stessa cosa. Il corpo femminile è ancora percepito come oggetto di un desiderio pericoloso per l’uomo, in grado di scatenare istinti ancestrali e irrefrenabili. Questa è la legge che i padri ci hanno tramesso anche attraverso l’azione educatrice delle madri.
E tra quelle madri magari ci siamo anche noi perché restare sempre in trincea a combattere per cambiare il mondo stanca. Perché destrutturare il pensiero patriarcale è molto difficile.
Ecco perché è ancora necessario fare fronte comune e recuperare la storia attraverso l’esempio di chi, come Tina Lagostena Bassi, si mise al servizio della causa delle donne senza mai pensare di poter essere strumentalizzata da un partito o da una corrente ideologica. Sapeva che quella era una causa giusta e per quella voleva battersi contro la discriminazione e i condizionamenti di genere che mortificavano le donne dalla sfera domestica sino alle aule dei tribunali.
Il delitto del Circeo: quando “essere maschi può essere una malattia incurabile”
Era il 29 settembre del 1975 quando venne consumato il delitto del Circeo da parte di tre giovani che avevano appena finito una delle scuole più prestigiose della capitale, il San Leone Magno, e provenivano da famiglie abbastanza benestanti. Fu un evento che, come uno spartiacque, segnò la memoria degli italiani, turbò le loro coscienze e da quel giorno “nulla fu più lo stesso”. Parola di Edoardo Albinati, vincitore del premio Strega nel 2016 attraverso l’opera monumentale La scuola cattolica che dal delitto del Circeo prende spunto per ricostruire con caustica lucidità e precisione i retroscena e il contesto culturale che avevano reso possibile un tale orrore.
Attraversando con gli strumenti dell’antropologia e della sociologia il disagio del maschio colto nel tentativo continuo di sconfiggere le sue paure e la sua fragilità per mostrarsi all’altezza di ciò che la società si aspetta da lui, Albinati riesce, con grande maestria, a restituirci il disagio della società patriarcale cogliendo e decostruendo i meccanismi che possono generare violenza ogni volta che l’uomo si sente offeso, messo in discussione, minacciato dal cambiamento. E Tina Lagostena Bassi, con le sue battaglie a fianco delle donne, era parte integrante di quel cambiamento. Furono anni di rappresaglie, quegli anni settanta, anni intrisi di violenza politica e lo stupro, come in guerra, era simbolicamente legittimato, da certe correnti politiche di destra estrema, come rivendicazione di superiorità contro un nemico da combattere e sottomettere. Donne come prede, donne che si meritavano una lezione per la loro intraprendenza, per la loro voglia di vivere e affermare se stesse.
Così Albinati spiega il delitto del Circeo e lo fa in modo che la narrazione diventi uno straordinario atto di autocoscienza e di smascheramento della presunta innocenza del maschio. Così possiamo spiegare le sopraffazioni che ancora le donne subiscono in termini fisici o psicologici tutte le volte che vengono ritenute scomode, pericolose o inutili alla sopravvivenza della logica androcentrica.
La sorellanza come fronte comune oltre gli steccati ideologici
Per questo il tema della sorellanza al di là degli steccati ideologici è quanto mai attuale. A partire dagli anni ’70 il concetto di sorellanza, in quanto sentimento di solidarietà e di appartenenza a una condizione comune, ha attraversato il movimento femminista sino ad arrivare ai giorni nostri come presupposto per poter incidere nella storia rimuovendo gli ostacoli imposti dal patriarcato. Per questo ogni leadership femminile deve porsi il problema del dialogo e del perseguimento di obiettivi condivisi a favore delle donne, da parte delle donne.
Lagostena Bassi lo aveva fatto indicando un cammino fatto di unità di intenti concentrandosi soprattutto nella tutela dei diritti delle più svantaggiate. Lei, che si considerava una privilegiata, perché aveva potuto studiare e avere qualcuno che accudisse le sue figlie, si era messa a servizio delle “altre”, quelle diverse da lei, sia per censo che per appartenenza ideologica. Ecco allora che il femminismo non può essere mai di destra o di sinistra. Può e deve rimanere, invece, sempre una battaglia, forse la più significativa, per il progresso dell’umanità a favore della persona, affinché la persona, appunto, donna o uomo che sia, possa crescere davvero libera di trovare la possibilità di esprimersi e realizzarsi sfidando ogni condizionamento imposto dalla società.
Maria Cristina Alberti
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