Sembra assurdo scrivere un’autobiografia a trentadue anni. Quali eventi si possono aver vissuto a quell’età? Può capitare però di conoscere giovani uomini la cui vita è talmente intensa da far rabbrividire un ottantenne. E non è la quantità di eventi esterni che merita di essere raccontata ma il travaglio esistenziale di queste persone. È il caso del fiorentino Giovanni Papini (1881-1956), scrittore e filosofo oggi dimenticato per via della sua adesione al Fascismo.
Io non son mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza. Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell'innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell'universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento.
Così inizia il libro, narrando la solitudine del bambino acuita ma anche mitigata dai libri. Viene da paragonare il Papini bambino al giovanissimo Leopardi. Entrambi infatti nella prima fase della vita conoscono l’isolamento e iniziano un percorso di erudizione che li porterà ad avere una cultura sconfinata. Anche se lo scrittore fiorentino si caratterizza per il desiderio intenso di sviluppare fin da subito un’opera, la sua opera, universale e definitiva.
Cosa volevo imparare? Cosa volevo fare? Non lo sapevo. Né programmi né guide: nessuna idea precisa. Di qua o di là, est od ovest, in profondità o in altezza. Soltanto sapere, sapere, saper tutto. (Ecco la parola della mia rovina: tutto!). Fin d'allora sono stato di quelli per cui il poco o la metà non contano. O tutto o nulla! E ho voluto sempre il tutto — e che niente manchi o sfugga o resti fuori! Completezza e totalità — più niente da desiderare, dopo! Cioè la fine, l’immobilità, la morte! Allora volevo saper tutto e non sapendo da che parte incominciare sfarfalleggiavo attraverso la conoscenza, coll'aiuto di manuali, dizionari, enciclopedie. L’enciclopedia era il mio sogno più alto, l’ideale più caro — il libro massimo e perfettissimo.
In questo passaggio, tratto dal capitolo Dal tutto al nulla, si evince l’attitudine superomistica di Papini, tipica di inizio Novecento, che non scomparirà mai del tutto. Infatti, dopo non essere riuscito a scrivere nulla di totale, il nostro inizia a concentrarsi sul vivere la filosofia. Appaiono barlumi del pensiero dell’azione che lo porteranno ad abbracciare poi la corrente del pragmatismo americano.
…Ma l’idealismo resisteva. Mi pareva la sola tesi logica — e perché logica non si fermò in me alla solita eguaglianza tra esterno e interno. Il mondo è rappresentazione, sì, ma io non so d'altre rappresentazioni fuor delle mie. Quelle degli altri mi sono ignote come l'essenza dei fenomeni inanimati. La mente degli altri esiste soltanto come ipotesi della mente mia. Il mondo è dunque la mia rappresentazione — il mondo è l'anima mia — il mondo son io!
Anche tale fase è destinata in breve tempo ad esaurirsi per essere sostituita da una sorta di pessimismo ironico, che di primo acchito potrebbe somigliare, in maniera del tutto erronea, al nichilismo odierno. Le idee di Papini sono infatti entrate in crisi ma posseggono ancora l’obiettivo finale tipico del Superuomo: diventare Dio.
Divenni una specie di Gorgia da caffè, che per vendicarsi della certezza perduta e della superbia fiaccata, si divertiva a dissolvere e disseccare le fedi degli altri; a rovesciare i loro tentativi di teoria, di affermazione, valendosi non solo della loro debolezza e ignoranza ma anche della propria malafede e pessima volontà. Provavo gusto a metter i dubbi in testa ai dogmatici; a far tacere gli ardenti; a ridicoleggiare i fanatici ; a umiliare i chiacchieratori. Era un piacere amaro, cattivo, sterile — ma ci provavo gusto. […] Si fabbricano le filosofie per giustificare i nostri pregiudizi, i nostri sentimenti, le necessità, anche basse, della nostra vita. […] L'unica realtà è il presente, la sensazione: ognuno viva il suo presente e mandi al diavolo le formule e le fedi. Bisogna liberarsi da codeste croste di vecchie malattie: ognuno liberi sé stesso, viva sé stesso, e creda in sé stesso e nel momento che fugge ma ch'é bello appunto perché fugge.
È chiaro che Papini sia approdato all’anarchismo stirneriano, l’unico in grado di fornire all’intellettuale l’occasione di sviluppare una sua filosofia attiva e concreta.
Incontrai Max Stirner in quel tempo e mi parve di aver trovato finalmente il solo maestro del quale non potessi fare a meno. Dal solipsismo conoscitivo passai al solipsismo morale. Non vi fu altro Dio dinanzi a me al di fuori di me. […] Niente fu più sacro per me: gli stessi tentativi e programmi rivoluzionari e umanitari, che mi sembravano, prima, qualcosa di grosso, s'eran mutati a' miei occhi in stupide fanciullaggini di credenti laici e inesperti. Ben altro ci voleva per me. La liberazione interna, ideale, radicale, di tutti gli uomini e se mai, qua e là, per aiutare il futuro, qualche barile di vera dinamite. Pensavo, insieme ai pochi a' quali m''ero accostato, a un colpo di mano per impadronirci della città; mi preparavo alla rivolta universale; avevo voglia di scappare, di viaggiare ogni paese, di urtarmi coi corpi di tutti i popoli, di stomacarmi nelle esalazioni d'oriente, di sperdermi tra i fumi del nord.
Il desiderio di azione si realizza nel fondare un giornale, uno dei più importanti della prima metà del secolo in Italia: il Leonardo. Chiamata così in onore del grande eclettico di Vinci, la rivista era guidata da Papini e dal suo caro amico Giuseppe Prezzolini (1882-1982) altro intellettuale del periodo che la critica ricorda con più attenzione. Con i loro scritti, in prevalenza filosofici, miravano a svecchiare la cultura italiana, creando dibattiti con al centro le più importanti novità del pensiero, allora poco conosciute nella Penisola. L’inizio di questa avventura, destinata a concludersi nel 1907, viene descritta così nell’autobiografia:
Si voleva fare un giornale assolutamente diverso dagli altri e che fosse per tutti i versi, anche nella veste, inattuale. Carta a mano scura e scabra invece di carta bianca e liscia; incisioni in legno fatte da noi medesimi invece dei meccanici zinghi e degli impersonali reticolati; figure e simboli invece di firme; nomi poetici e sonori invece de' nostri cognomi oscuri e disarmonici. E tutti quanti d'accordo si lavorava perchè il giornale uscisse fuori bello, ricco, originale, sorprendente in ogni sua parte. Non c'era più divisione del lavoro: si videro poeti che scrissero di filosofia; filosofi che cominciarono a incidere il legno; eruditi che esposero liricamente le loro metafisiche; pittori che si dettero alla critica e alla teoria. V'era un rimescolio gioioso, un capovolgimento instabile, una furia nervosa come se tutta la vita di ognuno e di tutti stesse per ricominciare; come se l'umanità uscisse allora da un sonno di secoli o da un castigo divino e tutto fosse da ricostituire e da fare.
Il racconto poi continua, come al solito, tra nuove idee del protagonista e altrettanti ripensamenti, fino al momento della crisi vera e propria, con la comprensione dell’insensatezza del suo obiettivo superomistico.
Non son riuscito perché non volevo né sapevo seriamente riuscire: ecco la pura, nuda e semplice verità. Non son riuscito perché non ho avuto forze abbastanza e perché non ho avuto neppur la forza di voler trovare e creare le forze che mi mancavano e perché non ho avuto sempre in me, in ogni momento, come asse della mia vita, come fuoco centrale della mia anima, il sogno eh'io dicevo e magnificavo a parole. […] o credo d'essere spesso uno dei più gesuitici poltroni d’ Italia. Dormo dieci ore filate, senza svegliarmi, senza sognare. Mi sveglio colla testa pesa e la bocca pastosa; esco fuori per non far nulla; ritorno a casa per riposarmi; mangio voracemente come un ragazzo che si masturbi tutte le notti; sorseggio una gran tazza di caffè. Siamo approdati al nichilismo puro, senza speranze. Voglio una certezza certa — anche una sola! — voglio una fede indistruttibile — anche una sola. Voglio una verità vera, anche piccola, anche meschina, — una sola! Ma una verità che mi faccia toccare la sostanza più interna del mondo; il sostegno ultimo, il più solido; una verità che s'impianti da sé nella testa e non faccia più concepire ciò che a lei contraddice
Questo è il punto più basso di Papini. Ma proprio gli ultimi capitoli sono i più sorprendenti. L’autore accetta e supera il nichilismo, anticipando la soluzione per questo problema proposta nel Mito di Sisifo di Camus (1913-1960), scritto trent’anni dopo. In particolare, si concentra sulla libertà acquisita dall’uomo di fronte alla caducità del tutto. In maniera paradossale, chi è consapevole dell’insensatezza della vita riesce ad agire senza impedimenti. Egli è il solo fautore di sé stesso. E forse, senza rendersene conto, Papini riesce a raggiungere la scintilla divina dell’indifferenza e dell’apollineo.
Albert Camus
Finché l'uomo si aspetta qualcosa dall'universo non è che un negoziante che va per ricevere, che scambia e baratta, e che si arrabbia se fallisce e si uccide se la restituzione non avviene, se la cambiale non è pagata, se il profitto è minore della spesa. Ma l'uomo che ha rinunziato a ogni compenso e lavora per ciò che sarà disfatto sapendo che sarà disfatto, è l'unico uomo degno, veramente degno di abitare serenamente l’universo. […] Egli fa e non pretende che nessuno faccia per lui; dà sapendo che non riceverà mai; aspira alle cime sapendo che non le raggiungerà; offre tutto sé stesso e sa che nessuno lo pagherà al suo giusto prezzo. Ma in questo consiste giustappunto la sua tragica grandezza; in questo la sua disumanità che lo mantiene ancora fra gli uomini. Ed altre gioie gli son negate: egli non ha come i credenti nella vita, nell'umanità e nella verità consolazioni promesse e miraggi che lo sostengano e gli rendano meno dura ed aspra la via. Non può contare che sopra la sua forza ed è questo sentimento di esser tanto forte da poter fare a meno di tutto il resto che gli riempie l'animo di amara e sana voluttà. Che coraggio c'è a vivere quando si creda fermamente che i nostri ideali diventeranno realtà e che un qualsiasi paradiso, terreno o celestiale che sia, ci aspetta per ristorarci de' nostri travagli? Ma la vera nobiltà dell'uomo, il suo massimo eroismo consiste nel saper viver anche quando tutte le ragioni di vivere son distrutte in lui, quando le bende e le stampelle che rendono possibile la vita di tutti sono state buttate dapparte.
La differenza con Camus risiede nell’esaltazione dell’eroismo combattivo in quanto vitale; la libertà è dell’individuo che compie le stesse azioni ogni giorno senza che gli importi di un fine superiore. Lo scrittore francese invece può essere interpretato in chiave più possibilista, in quanto l’emancipazione dell’uomo può essere raggiunta non soltanto pensando diversamente ma anche agendo diversamente. Se Papini pensa che il destino sia immutabile, Camus ritiene che, tranne la fine, la vita possa aprirsi ad infinite strade. Egli infatti scrive:
L’ultimo sforzo per questi spiriti fra loro parenti, conquistatori o creatori, è saper liberarsi anche delle proprie azioni: arrivare ad ammettere che l’opera stessa, sia essa conquista amore o creazione possa non essere; consumare così l’inutilità profonda di ogni vita individuale […] Quanto rimane è un destino di cui solo la conclusione è fatale […] tutto è libertà , e rimane un mondo, di cui l’uomo è il solo padrone.
Perché, quindi, bisognerebbe leggere Un uomo finito? Le idee contenute all’interno del libro, unico nel suo genere in Italia, sono certo interessanti ma colpisce soprattutto l’umanità di chi scrive. Papini è nudo davanti al lettore: non ha paura di mostrare i suoi fallimenti. Nonostante la verve retorica, tipica anch’essa del periodo, è umile. Perché sa di essere un uomo in cammino.
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