È il 1995 quando presso l’aula Nervi del Vaticano, il cantautore italiano Amedeo Minghi, assieme a duecento elementi tra orchestra e coro, canta davanti a Papa Giovanni Paolo II il brano Un uomo venuto da molto lontano. Il testo della canzone, realizzato dal musicista romano con la collaborazione del collega Marcello Marocchi (il creatore di Perdere l’amore), viene apprezzato dal Pontefice a tal punto da autorizzare Minghi ad inserire in esclusiva le sue immagini per il videoclip del brano, che sarà poi inserito nell’album Decenni del 1998.
Tra l’oramai Santo Giovanni Paolo II e Amedeo Minghi, da quella straordinaria dedica musicale sorge un rapporto particolare. Ne è prova la commissione che lo stesso Pontefice, in occasione del Giubileo del 2000, indirizza al cantautore con la composizione del brano Gerusalemme, eseguito da Minghi davanti a Sua Santità presso la Santa Sede e successivamente cantato nella Città Sacra, assieme a Orit Gabriel, mezzosoprano israeliana di fede ebraica e Hakeem Abu Jaleela, cantante palestinese musulmano, sorta di chimerico augurio per la pacificazione delle tre grandi religioni monoteiste.
Mentre sta per tramontare il XX secolo, diviene lapidaria e indimenticabile la prima strofa del brano.
Un uomo venuto da molto lontano,
negli occhi il ricordo dei campi di grano,
il vento di Auschwitz portava nel cuore,
e intano scriveva poesia d’amore,
amore che nasce dentro al cuore dell’uomo,
per ogni altro uomo.
Minghi e Marocchi aprono la canzone riprendendo le prime parole che il 16 ottobre 1978, Karol Wojtyla, appena assunto al soglio pontificio nel nome di Giovanni Paolo II, pronunciò umilmente all’intera folla di fedeli e al mondo intero, definendosi letteralmente giunto “di un paese lontano”. Segue poi la pittoresca raffigurazione poetica dell’indimenticabile infanzia trascorsa nell’agreste Wadowice, segnata dai campi di grano; il terribile ricordo delle deportazioni ebraiche perpetrate a seguito dell’invasione nazista della sua amata Polonia; e la sua inarrestabile passione per la lirica, espressa quotidianamente sino agli ultimi giorni della sua esistenza, come massima forma d’amore interiore nei confronti dell’umanità, che, nonostante le nefandezze da essa scaturite, è stata dal Santo perennemente adorata.
La poesia diviene così strumento d’amore nei confronti del prossimo, nella quale viene rappresentato il più importante messaggio della fratellanza cristiana.
La splendida canzone dona poi un’altra poetica immagine del pontefice, immerso tra la cruda realtà delle storture umane e la speranza di un miglioramento spirituale.
Un uomo venuto da molto lontano,
stringeva il dolore e un libro nella mano,
qualcuno ha sparato ed io quel giorno ho pianto,
ma tutto il mondo gli è rimasto accanto,
quel giorno il mondo ha ritrovato il cuore,
la verità non muore.
Giovanni Paolo II stringe nella mano sia il dolore, metafora del peccato umano, sia un libro, simbolo allegorico della conoscenza, della poesia d’amore miglioratrice già prima menzionata.
Minghi dipinge il pontefice in un quadro chiaroscurale, di luci ed ombre, di terribile consapevolezza e lieta volontà, strette compagne psico-sentimentali nel ruolo che ricopre.
La peccaminosa brutalità umana è citata nell’attentato subito nel 1981 in Piazza San Pietro, ad opera del killer professionista turco Mehmet Ali Ağca, poi perdonato da Sua Santità.
Tuttavia, dopo quell’evento nefasto, l’intero mondo, piangendo e pregando, si è stretto intorno alla figura del Pontefice, sperando nella sua guarigione. Ancora una volta quindi, l’oscurità della colpa umana si affianca ad una verità che non muore, quella dell’attenzione amorevole verso l’altro.
Ripiomba improvvisamente però nella terza strofa lo scenario ambascioso, frutto di un’epoca di conflitti sociopolitici, in cui il Papa negli anni del suo lungo pontificato si è reso evidente protagonista.
Un uomo che parte vestito di bianco,
per mille paesi non sembra mai stanco,
ma dentro i suoi occhi un dolore profondo,
vedere il cammino diverso del mondo,
la guerra e la gente che cambia il suo cuore,
la verità che muore.
Viene evidenziato lo spirito avventuriero del Vicario di Cristo, noto per la sua invidiabile tenuta fisica e il suo stimabile poliglottismo. L’energia fisica dell’uomo vestito di bianco viene messa a dura prova nel suo lungo girovagare geografico senza esserne intaccata, a differenza dello stato emotivo interno, scosso invece dai conflitti bellici, dalla morte dilagante e da quella verità religiosa che stavolta sembra morire.
È nell’inciso tuttavia che il canto di Minghi, sorta di vellutato violoncello, si mescola all’imponente coro di voci maschili e femminili ed unito alla inimitabile, melodrammatica, tensione musicale dell’artista conduce l’ascoltatore ad una inevitabile commozione.
Va’ dolce e grande uomo va’,
parla della libertà,
va’, dove guerra fame e povertà,
hanno ucciso anche la dignità,
va e ricordo questo cuore mio,
che Caino sono pure io.
Dal racconto musicale in terza personale caratterizzante le strofe precedenti, si passa nell’inciso ad un gentile e speranzoso esortativo, come se l’intera umanità scaturita dalle voci del coro e di Minghi incitasse l’uomo portatore del messaggio cristiano, a parlare della libertà, lì dove guerra e povertà regnano, là dove persino la dignità umana è stata soppressa.
Nel dolce imperativo, lo stesso musicista invita Giovanni Paolo II a non dimenticarsi di lui, essendo nel cuore, come tutti noi, un peccatore, cosi come lo fu Caino.
Prima del secondo e ultimo ritornello, la quarta strofa evidenzia un chiaro episodio storico, di sconvolgimenti, tensioni e speranzosi mutamenti.
Dall’Est è arrivato il primo squillo di tromba,
il mondo si ferma, c’è qualcosa che cambia,
un popolo grida noi vogliamo Dio,
la libertà è solo un dono suo,
tu apri le braccia e incoraggi i figli,
ad essere fratelli.
Nel videoclip dell’album Decenni la strofa in questione è accompagnata dalle immagini dell’abbattimento del Muro di Berlino del 1989, evento storico che il messaggio del Pontefice, nemico dell’ideologia comunista ha contribuito a realizzare.
Il 1900 sta per finire, l’Unione Sovietica sta per crollare, i popoli inneggiano alla Fede, a Dio, a quel suo messaggio di speranzosa libertà per cui il Papa si fa veicolo.
Ritorna nella chiusura del brano il precedente incitamento.
Va’, dolce e grande uomo va’,
va’ parla della libertà,
va’ dove l’uomo ha per sorella,
solo lebbra e mosche sulle labbra,
va’ e ricorda questo cuore mio,
che Caino sono pure io.
Il Santo Padre viene invitato nuovamente dal coro e da Minghi a professare la libertà in nome di Dio, nei luoghi più remoti, dove regna la fame, dove incombe la malattia, dove la più cruda e veritiera immagine della situazione è quella del ronzio delle mosche sulle labbra.
E, dato il peccato originale, il discorso viene ultimato con l’esortazione-preghiera, ripetuta in chiusa, di non dimenticarsi del musicista stesso, nel cuore Caino come tutti gli esseri umani.
Il brano, l’idea da cui è scaturita, il personaggio a cui è dedicato sono stati portatori di speranza, forieri di un’epoca migliore. Un’epoca che noi stiamo vivendo, senza sapere fino in fondo se questo miglioramento sia avvenuto, in un mondo dove continuano a imperversare guerre, carestie, morti bianche e nette crudeltà. La speranza, però è sempre l’ultima a morire; d’altronde, che senso avrebbe l’Inferno se i dannati non avessero la speranza di poter un giorno vedere il Paradiso?
Damiano Gasperini
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