Non posso parlare per gli altri, ma per quello che mi riguarda nulla mi ha fatto diventare saggio. Certo, siccome alcune cose mi sono già capitate, quando si ripresentano mi dico: ci risiamo. Ma non mi pare di nessun aiuto. Secondo me, io semmai sono diventato più stupido, anzi divento sempre più stupido: è un fatto.
«L’illusione del talento è spesso oscurata dalla realtà del genio». Basterebbe questo vecchio adagio per esprimere il profondo senso d’inadeguatezza e gratitudine di chi, coltivando timidamente velleità di scrittore (e credendosi magari anche bravo), ha la ventura di accostarsi per la prima volta alle opere di Christopher William Bradshaw-Isherwood.
Anatomia di un risveglio
L’opera ha una struttura circolare e si sviluppa all’interno di un arco narrativo di ventiquattro ore (il riferimento ad un altro capolavoro della letteratura inglese, Mrs Dalloway di Virginia Wolf, è fin troppo esplicito per ritenersi casuale). È il 1961, Santa Monica, California. Sullo sfondo l’America bianca e puritana di John Kennedy e la crisi dei missili di Cuba. George è nella sua camera da letto, si sta svegliando; la sua coscienza lo informa di essere un corpo immerso in uno spazio, di essere un io e un ora. Lo informa, soprattutto, di essere di un altro giorno più vicino a ciò che prima o poi, inevitabilmente, dovrà accadere.
Il risveglio comincia con due parole, sono e ora. Poi ciò che si è svegliato resta disteso un momento a fissare il soffitto, e se stesso, fino a riconoscere Io, e a dedurne Io sono Ora… Ma Ora non è semplicemente ora. Ora è anche un freddo promemoria; un’intera giornata più di ieri, un anno più dell’anno scorso. Ogni ora ha un’etichetta con una data che rende obsoleti tutti gli ora passati finché, prima o poi, forse – no, non forse, di sicuro – succederà.
Si alza George, si trascina in bagno; di fronte allo specchio, la sua figura ingrigita riflette il dramma del tempo che tutto divora, il volto nel volto di altri uomini che si sommano al suo come fossili su strati di una roccia. La mente comanda, il corpo esegue, ed è un’economia di movimenti quasi involontaria, una gestualità ritualizzata che non prevede alcuna vera partecipazione, nessun reale coinvolgimento.
E poi succede, ed è «come trovarsi su un limitare scosceso, frastagliato, brutalmente interrotto – come se il sentiero fosse scomparso sotto una frana»: uno spasmo improvviso, la sensazione onnivora di un vuoto assoluto, di un niente incolmabile. George la sente arrivare. Il tempo di scendere le scale e attraversare lo studio, il tempo di raggiungere la familiare intimità di quegli spazi troppo angusti, di quella cucina troppo stretta, dove la prossimità di due corpi che si scontrano evoca emozioni impossibili da sopportare: Jim è morto.
L'uomo e la maschera
È dalla violenza intrusiva di questo scontro con la realtà che ha inizio la giornata di George, una routine di abitudini alienanti fatta di corse in autostrada, impegni universitari e stati di ebbrezza discontinui. Catapultato nell’utopia del sogno americano, con il suo portato di ipocrisie perbeniste e paure per il diverso, George reciterà il proprio ruolo nel grande gioco delle parti, accettando di conformarsi all’esigenze del suo pubblico senza mai lasciarsene contaminare. Vestirà i panni dell’intellettuale raffinato e dell’amico comprensivo, del ribelle indomabile che con la sua condotta indecorosa sfida la morale e il senso comune; sarà il vicino da evitare e il nemico da distruggere, il diamante pubblicamente offerto per un nichelino. Straniero in ogni luogo e in ogni luogo incompreso, George è un esule della vita che ha riconosciuto nel dissolversi dell’attimo il tratto distintivo della precarietà dell’esistenza umana, del suo eterno mutare ed estinguersi, uno stato d’impermanenza in cui solo il presente ha significato e dove ogni cosa, perfino l’esperienza, viene destituita del suo valore formativo.
In mezzo a tutto questo c’è Jim, la cui assenza si reifica nelle piccole omissioni quotidiane e nelle storie uomini e donne che con le loro parabole distorte e spesso fallimentari contribuiscono a creare quell’atmosfera di abbandono e incertezza che non può non colpire per la sua capacità di essere dimensione esperienziale comune.
Quello che rimane quando più niente rimane
Un uomo solo è una storia di disincanto e resistenza, un romanzo che penetra nella carne viva del lettore invitandolo a partecipare senza tuttavia mai offrirglisi completamente. Una prosa essenziale, a tratti lapidaria, capace di sradicare la parola dal suo significato originario e trapiantarla sulla pagina con la terra ancora attaccata alle radici. Isherwood affronta il dramma della perdita senza infingimenti, con un pudore che è la misura stessa della sua volontà di sottrarsi ad ogni forma di compassione. La solitudine di George non desidera mostrarsi, non vuole essere blandita. È uno spazio esclusivo, personale e a un tempo universale, un non-luogo dello spirito che trova in se stesso le ragioni per andare avanti. Nessuno potrà sostituire Jim, nessuno potrà riempire l’enorme vuoto lasciato dalla sua scomparsa. Eppure, tra le pieghe del dolore che lacera e distrugge, oltre la fredda materia del lutto impossibile da elaborare, affiora il vitalismo di un uomo che non cessa di commuoversi e amare, un difensore della speranza sopravvissuto alla brutalità del mondo che si aggrappa ai propri istinti con un’ostinazione che è quasi devozione. Ci sarà sempre un motivo per non arrendersi, sempre qualcosa per cui valga la pena lottare, che sia per la bellezza, per la grazia o per il semplice gusto della rivolta. Non ha importanza. A discapito di tutto, lui è qui ed è ora.
Ed è vivo.È vivo…
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