Documentare la realtà significa garantirne una testimonianza per il domani, dare luce a qualcosa che, altrimenti, resterebbe in ombra. La nascita e lo sviluppo di nuovi strumenti tecnologici e di nuove forme d’arte sono stati, in tal senso, di fondamentale importanza per il processo di documentazione del reale. In ambito cinematografico, l’origine della forma espressiva del documentario si fa risalire all’attività dello statunitense Robert Flaherty.
Nanook racconta la vita di un giovane, per l’appunto di nome Nanook, e della sua famiglia inuit nell’estremo Nord. Questo documentario ci mostra la natura, gli animali, i paesaggi glaciali ma soprattutto la quotidianità dei protagonisti: la costruzione dell’igloo, estrazione delle pelli, la cattura degli animali. «Nanuk sembra dimostrare come il cinema possieda una predisposizione nell’esaltare la natura non solo dei paesaggi e degli oggetti, ma anche dei gesti, dei riti sociali o dei comportamenti individuali più o meno elaborati e culturalmente stratificati».
Quattro anni dopo Nanook, Flaherty realizza Moana, girato in Polinesia, nel villaggio di Safune, nell'isola Savaii delle Samoa occidentali, che assume particolare rilevanza perché è proprio in relazione a questo lavoro che si utilizza per la prima volta il termine documentario. A farlo nel febbraio 1926 sul quotidiano «New York Sun» è lo scozzese John Grierson, che afferma:
Naturalmente Moana, essendo un resoconto visivo di eventi nella vita quotidiana di una giovane polinesiana, ha valore documentario. Ma, io credo, ciò è secondario rispetto al suo mare meraviglioso, caldo come l’aria balsamica. Moana è prima di tutto bello come è bella la natura. È bello perché sono belle le movenze di Moana e degli altri polinesiani, e perché gli alberi e gli spruzzi delle imbarcazioni e le soffici nuvole fluttuanti e gli orizzonti lontani sono belli.
Secondo Grierson, che negli anni Trenta in Gran Bretagna fa parte di una scuola di documentaristi, nel documentario che è «il trattamento creativo della realtà in atto» vi è la possibilità di «rielaborare criticamente e drammatizzare il materiale naturale».
Altra importante opera del regista statunitense è Industrial Britain (La Gran Bretagna industriale) del 1933, documentario sul lavoro nelle fabbriche del Midland prodotto proprio da John Grierson. Fatica, sudore, stanchezza è ciò che qui appare agli spettatori, oltre alle immagini della lavorazione artigianale della ceramica e del vetro, degli attrezzi e dei macchinari utilizzati dagli operai. Questo documentario è una fotografia di una Gran Bretagna, culla della Rivoluzione industriale, stanca ma produttiva.
Del 1934 è, invece, Man of Aran (L’uomo di Aran), che questa volta racconta la vita di una famiglia di pescatori nell’isola di Inishmore nell’arcipelago delle Aran, nei pressi dell’Irlanda occidentale. Nello stesso anno questo lavoro viene premiato alla Mostra del Cinema di Venezia.
Nel 1943 si realizza The Land (La Terra), commissionato dallo U.S. Film Service, organismo facente parte del Dipartimento dell'Agricoltura statunitense, che però poi ne proibisce la proiezione. Il documentario, attraverso riprese dall’alto e campi lunghi e lunghissimi, mostra le terre d’America, la natura, gli animali, le famiglie, le case, le fattorie, i macchinari per l’agricoltura e i luoghi della semina e della raccolta.
Fra le altre opere di Flaherty si ricordano: The Pottery maker (Il vasaio) del 1925, Tabù del 1931, Elephant boy (La danza degli elefanti), incompleto, del 1937, Louisiana story (Una storia della Louisiana) del 1948 e Guernica del 1949.
Oggi il documentario ha diversi volti e assume varie forme in relazione a ciò che si prefigge di raccontare: può essere storico, biografico, autobiografico, sulle città, d’inchiesta. Da tempo ormai questo genere occupa un posto di rilievo nei palinsesti televisivi generalisti, nelle piattaforme di streaming online e nei più importanti festival cinematografici ed è per questa ragione che richiamarne alla memoria la genesi risulta certamente un’azione doverosa. Ricordare Flaherty oggi significa celebrare una personalità che, secondo la rivista cinematografica FilmDoc, costituisce:
una figura cardine nell’ambito del documentario, per la potenza delle opere realizzate, [...] un modello di riferimento per tutte le generazioni di cineasti che si sono affacciati al mondo della celluloide intenzionati a realizzare prodotti diversi dalla fiction. Flaherty rappresenta il primo regista di documentari della storia del cinema, sia per l’approccio alla materia, pieno di passione e lontano dal compromesso, sia per i risultati ottenuti dal punto di vista etnologico e - soprattutto - linguistico.
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