Nella sua ultima intervista, il giornalista Tiziano Terzani (1938-2004) racconta di aver trascorso tre mesi in un Ashram, in India. Nessuno andava a chiedergli cosa pensasse del Giappone o della Cina: aveva scelto di chiamarsi Anam, che tradotto dal sanscrito significa “senza nome”, rendendosi così un perfetto sconosciuto. A proposito della vicenda, Terzani dice:
Lo trovavo bellissimo dopo una vita passata a farsi un nome non averne uno. È stato libertà, un senso di leggerezza, di reinventarsi.
Quello che fa Terzani è tracciarsi una nuova identità, in cui il suo essere stato scrittore, giornalista e reporter di guerra non conta più e ciò che conta è solo il suo essere lì, nel presente. Anam è lui, ma è anche altro da lui.
Come definirlo, allora? Uno pseudonimo o un alter ego?
La parola pseudonimo deriva dal greco e significa letteralmente nome falso o fittizio; tutt’altro significato rispetto alla locuzione latina alter ego, che indica un altro da sé o qualcuno che convive nel proprio stesso corpo, come una seconda personalità.
Eppure, nel linguaggio comune queste due espressioni si confondono spesso, quasi a indicare, all’interno di un unico individuo, la convivenza stretta e non sempre pacifica tra il nome anagrafico, scelto da altri e proprio di una condizione sociale del vivere nel mondo, e il nome fittizio, scelto per lo più da sé stessi e capace di dare vita a un mondo altro nel proprio io.
La letteratura è piena di scrittori che hanno colto questa idea.
Spesso la loro identità di esseri umani, fatta di radici culturali, familiari e sociali e di cambiamenti più o meno radicali, non corrisponde pienamente al nome riportato sulla prima di copertina dei loro libri.
In francese nom de plume, in inglese pen name, in italiano per lo più pseudonimo.
Perché usarlo?
Le motivazioni sono svariate.
Il nome può racchiudere in sé la gloria o la disgrazia di una identità anagrafica di cui non sempre si è direttamente responsabili e che provoca la necessità di un nascondimento.
È il caso dello scrittore e pittore
Andrea De Chirico (1891-1952), che per affrancarsi dalla fama del fratello artista
Giorgio De Chirico e ispirandosi al letterato francese
Albert Savine, si diede il nome di
Alberto Savinio; o di
Amos Klausner (1939-2018), lo scrittore, giornalista e docente israeliano che, in rottura con il padre, ne prese le distanze e decise di chiamarsi
Amos Oz, che in ebraico significa “forza”.
Non sempre però il nascondimento di chi scrive avviene per scelta: nel corso dei secoli, il nome della donna, se sposata, veniva accompagnato dal cognome del marito, una consuetudine che però cancellava una traccia importante delle sue radici familiari.
È quello che è accaduto, tra le tantissime, a tre famose scrittrici inglesi: Mary Wollstonecraft Godwin (1797-1851), meglio nota come
Mary Shelley, sposa del poeta
Percy Bysshe Shelley; Adeline Virginia Stephen, moglie di Leonard Sidney Woolf (1882-1941) e da allora
Virginia Woolf; Agatha Mary Clarissa Miller (1890-1976), ben più conosciuta come
Agatha Christie, cognome che conservò sui suoi libri anche dopo il divorzio con il marito Archibald Christie.
Com’è noto, lo pseudonimo è stato molto utilizzato dalle scrittrici. Fino al diciannovesimo secolo, la letteratura pullula di donne che si firmavano con pseudonimi, per farsi spazio in un mondo che era prerogativa esclusiva degli uomini e nel quale, ognuna a modo suo, tentavano di entrare.
È la storia delle sorelle inglesi Charlotte (1816-1855), Emily (1818-1848) e Anne Brontë (1820-1849), che sulla carta si trasformarono rispettivamente nei fratelli Currer, Ellis e Acton Bell.
La stessa scelta fece Mary Anne Evans (1819-1880) quando decise di scrivere sotto lo pseudonimo maschile George Eliot, con il quale rimase nota anche dopo aver rivelato la propria identità.
Del resto nell’epoca vittoriana, in cui essere donna e scrivere non era un binomio facilmente accettabile dalla società, il falso nome era una soluzione da dover prendere seriamente in considerazione.
Come non ricordare anche l’ironia di Jane Austen (1775-1817), che si firmava semplicemente “By a Lady”; e Louise May Alcott (1832-1888), l’autrice ribelle di Piccole donne, libro che scrisse su richiesta nonostante il suo interesse per storie ben più ardite e firmate, tra i tanti pseudonimi, con quello volutamente neutro A. M. Barnard.
L’uso dello pseudonimo può anche essere, in effetti, il tentativo di fare ordine e distinguere i generi letterari prodotti dalla stessa penna, come se fossero il frutto di una doppia anima: la scrittrice di gialli Agatha Christie, se si occupava di romanzi rosa, cambiava dunque completamente nome, diventando Mary Westmacott.
In tempi più recenti, Serena Artioli, architetto e scrittrice italiana di successo, scrive sul suo sito di essersi attribuita lo pseudonimo Felicia Kingsley per separare la sua vita professionale da quella di scrittrice.
In certi altri casi, lo pseudonimo nasconde significati che rimandano alla sensibilità dell’autore, alla vita personale e alle sue radici, nel tentativo di creare una sintesi tra il nome d’origine e quello dello scrittore.
Aron Hector Schmitz (1861-1928), nato a Trieste quando il territorio friuliano faceva parte dell’Impero austro-ungarico, ha scelto di scrivere dapprima con il nome di Ettore Samigli, con cui pubblicò i suoi primi lavori, e poi con il celebre pseudonimo Italo Svevo, in ricordo della sua cultura bilingue italiana e tedesca.
Il triestino Umberto Poli (1883-1957), abbandonato dal padre e cresciuto nei primi anni di vita dalla sua balia, decise di omaggiarla con uno pseudonimo che dimostrava la sua appartenenza filiale: nacque così Umberto Saba, dal cognome della sua adorata balia Peppa Sabaz.
Ancora oggi la pseudonimia è molto utilizzata da scrittori e scrittrici di tutto il mondo, le cui motivazioni continuano a dividersi tra il nascondimento per questioni personali, sociali o politiche, e la volontà di cambiare identità, per dare voce a un’idea o un’azione che vada oltre i propri dati anagrafici.
Non mancano motivazioni puramente commerciali, che si basano sulla lunghezza del nome d’origine e la necessità di renderlo più fruibile ai lettori: lo statunitense Daniel Gerhard Brown diviene così Dan Brown, e il britannico Kenneth Martin Follett semplicemente Ken Follett.
C’è poi lo pseudonimo assegnato da altri: è quanto è successo all’italiano Giovanni Evani Giancastro, meglio noto come Gio Evan, il quale ha raccontato di aver ricevuto questo nome da un Hopi, in Argentina.
Del resto, oggi crearsi un altro nome non è poi così complicato: nel dubbio, basta usare uno dei tanti generatori di pseudonimi presenti sul web, che attraverso la sillabazione sintattica sono capaci di creare nomi e soprannomi casuali, adatti a qualsiasi scopo.
In campo letterario, però, difficilmente un autore lascerebbe scegliere ad altri l’espressione di una parte di sé.
L’arte trasforma, irrompendo nella quotidianità e richiedendo con forza uno spazio proprio. La pseudonimia fa parte di questo processo.
Wu Ming ne è un ulteriore esempio molto originale. Si tratta di uno pseudonimo usato da un gruppo di autori come nome collettivo, che in cinese significa “senza nome” o “cinque nomi”.
Nato nel 2000 dal Luther Blisset Project, lo pseudonimo racchiude i personali nomi d’arte di cinque scrittori italiani - attualmente tre -, che hanno l’intento di manifestare così la loro dissidenza nei confronti del riconoscimento pubblico.
Scrivono sul loro sito:
In varie fasi della sua storia la band ha contato quattro, cinque e di nuovo quattro membri. Dal 2015 siamo un terzetto. Come solisti ci firmiamo «Wu Ming 1», «Wu Ming 2» e «Wu Ming 4», che suona bene, è una progressione geometrica. La numerazione segue l’ordine alfabetico dei nostri cognomi: (Roberto) Bui, (Giovanni) Cattabriga e (Federico) Guglielmi
Come si vede, i nostri nomi anagrafici non sono segreti. Semplicemente, non ha senso usarli quando si scrive dei nostri libri o in vario modo ci si riferisce al nostro lavoro. Nella nostra attività letteraria e culturale, come tante e tanti prima di noi, adottiamo nomi d’arte. Nomi d’arte che fanno riferimento al progetto collettivo (Wu Ming) e sono parte essenziale della nostra poetica.
Gli Anam di oggi e di ieri continuano a vivere e a trasformarsi e la ricerca di uno pseudonimo rimane il desiderio condiviso di uno spazio tutto proprio, creativo e libero, in cui non conta chi erano e cos’hanno fatto, ma la vita trasmessa dalle loro opere letterarie.
Lo pseudonimo fa parte di questo processo creativo, in cui forse, tra le pagine scritte, possono ritrovarsi malcelati e più o meno confessati alter ego, ma in cui, di certo, provano a convivere e a pacificarsi più identità.
Sarah Esthy
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