La costruzione dell’identità americana ha profonde connessioni con le retoriche di deumanizzazione nei confronti di alcune identità subalterne e principalmente non bianche, ragion per cui ancora oggi vengono messe in atto discriminazioni circa quali identità possano essere considerate americane e quali no. Partendo da una breve considerazione riguardo i padri fondatori degli Stati Uniti d’America e la nascita del discorso attorno al cosiddetto american dream, mi focalizzerò su come viene dipinta l’identità nel romanzo No-No Boy di John Okada, con particolare riferimento alla minoranza asiatica nota anche come model minority.
Molto spesso la costruzione retorica ha posto le sue basi su elementi di deumanizzazione, processo che consiste nel privare un individuo delle sue caratteristiche e dei suoi diritti in quanto essere umano, così da rendere più facile l’applicazione di potere nei suoi riguardi. Come si legge nelle parole di John Winthrop, considerato uno tra i pochissimi membri dell’eccezionalismo americano, tali uomini dovevano essere un modello per il mondo, “una città costruita sulla sommità di una collina” affinché tutti potessero ammirarla e prenderla come esempio. Questo comportava però che alcuni vivessero soggiogati a suddetto potere e fossero impossibilitati a mettere in atto la loro autentica identità.
Questo concetto della costruzione dell’identità è particolarmente delicato e complesso, specialmente quando si tratta di soggetti a metà tra due mondi, perché si corre il rischio di non appartenere totalmente né a un mondo né ad un altro. Abdelmalek Sayad a proposito si esprimeva in termini di doppia assenza, come condizione dei migranti di non appartenenza interale né al luogo di partenza né a quello di arrivo: questo rende complicata la propria affermazione identitaria. La minoranza asiatica anche è stata oggetto di questa complessità, nonostante fosse definita come model minority in America per l’atteggiamento tendenzialmente pacato e non incline alle rivolte, la spinta al duro lavoro e la scarsa tendenza a ribellarsi. Tuttavia, spesso sono stati messi in atto tentativi di degradazione, deumanizzanti nei confronti di soggetti asioamericani. Questo dilemma interiore che non sembra trovare una conciliazione è rappresentato bene da John Okada in No-No Boy, in cui vengono raccontati i tentativi di Ichiro Yamada di risolvere il suo passato traumatico, senza grandi soluzioni. L’esperienza dei quattro anni di internamento per non aver servito l’esercito americano sicuramente è un residuo traumatico non indifferente, nonché un esempio di comportamento deumanizzante, già presente dalle prime righe del romanzo.
La frattura identitaria che riflette il personaggio di Ichiro offre spunti di riflessioni non solo sull’esperienza asiatico-americana, ma anche il divario generazionale all’interno della sua stessa famiglia tra migranti di prima e seconda generazione. Il fatto di essere un Nissei lo rende diverso dagli Issei per la sua propensione a parlare inglese piuttosto che un buon giapponese, nonché a trovarsi stretto tra due poli – quello dell’America e quello del Giappone – con una grande difficoltà ad appartenere esclusivamente ad uno.
Ichiro “felt like an intruder in a world to which he had no claim as if he were in a small room whose walls were slowly closing on him” (tr. “si sentiva come un intruso in un mondo in cui non aveva nessun diritto” p. 3-5). Questo fardello ha risvolti pratici evidenti sul senso della propria identità e svariate volte viene reiterato nel testo il suo senso di inadeguatezza nel cercare una risposta a tale dilemma interiore, per il quale “there is, I am afraid, no answer” (tr. “non c’è, temo, nessuna risposta” p. 76).
Nel corso della storia Ichiro tenterà comunque di trovare una risposta, nel tentativo di risolvere tale conflitto cercando una forma di appartenenza al Giappone o all’America, arrivando ad affermare “I am not Japanese and I am not American” (tr. “Non sono Giapponese e non sono Americano” p. 16). Sono domande che sebbene non trovino una risposta concreta né una soluzione fattuale, continueranno a tormentarlo per il resto della vita. I residui del sogno americano continuavano a farsi sentire, specialmente nel caso delle seconde generazioni che a differenza dei loro genitori avevano voglia di rimanere in America e farsi una loro vita, non di fare più soldi possibili per poi tornare a casa. L’unico tentativo, seppur a tratti vano, sembrerebbe il perseguimento di quel sogno illusorio, in nome di quel tale perseguimento della felicità presente nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (4 luglio 1776), che parrebbe quasi dare a tutti quantomeno la speranza di farcela e avere il proprio successo. Così vediamo Ichiro Yamada, sul finale del romanzo, intento a camminare inseguendo una promessa, come forma di conciliazione con la propria vita nella sua interezza, consapevole della diversità della nazione che offrirebbe a tutti la possibilità di trovare il proprio posto nel mondo.
“this country is different […] try, if you can, to be equally big and forgive them and be grateful to them and prove to them that you can be an American worthy of the frailties of the country as well as its strengths” (tr. “questa nazione è diversa […] cerca, se puoi, di essere ugualmente grande e perdonarli ed essergli grato e dimostrargli che puoi essere un americano degno delle fragilità del Paese così come dei suoi punti di forza" p. 88) […] “he walked along, thinking and probing, and, in the darkness of the alley of the community that was a tiny bit of America, he chased that faint and elusive insinuation of promise as it continued to take shape in mind and in heart” (tr. “ha passeggiato, pensando e sondando, e, nel buio del vicolo della comunità che era un pezzettino di America, ha inseguito quella insinuazione di promessa debole e sfuggente come continuava a prendere forma nella mente e nel cuore” p. 221).
Giada Salvati
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