Una delle tante opportunità che ci consegna il cinema, ma più in generale la cultura, è quella di venire a contatto con altre realtà e di aprirsi a nuovi mondi, spesso lontani nello spazio e nel tempo. Grazie al lavoro di tanti cineasti è per noi possibile, ad esempio, fare un tuffo nell’Africa del passato, quella degli anni Sessanta e Settanta, e, per compiere questo viaggio, ci affidiamo alla guida di quattro importanti registi: Ousmane Sembène, Ahmed El Maanouni, Djibril Diop – Mambèty e Med Hondo.
Ousmane Sembène |
Ousmane Sembène nasce in Senegal nel 1923 in una famiglia di pescatori. Dopo aver svolto diversi lavori in gioventù, arriva in Europa, prima in Francia poi in Russia, dove apprende le tecnica cinematografica. Sembène, infatti, resosi conto dell’imperante analfabetismo presente in Africa, abbandona la scrittura e sceglie il cinema per veicolare i suoi messaggi. Nel 1963 gira il cortometraggio Borom Sarret (Il carrettiere), il cui titolo prende spunto dalla deformazione dell’espressione francese “bon homme à la charrette”, ovvero “brav’uomo con il carro”. La breve pellicola racconta, infatti, le difficoltà vissute da un giovane carrettiere che vive e lavora a Dakar, capitale del Senegal. Già da questa prima opera emerge una questione molto importante, cioè la contrapposizione tra la povertà del villaggio e la ricchezza dei quartieri cittadini.
Nel 1966 arriva il primo lungometraggio di Sembène, La noire de… (La nera di…), girato fra il Senegal e la Francia. Il film narra, infatti, la storia di una ragazza senegalese che viene in un primo momento assunta come baby sitter da una ricca coppia francese che, però, in seguito la sfrutta trattandola con distanza e freddezza. La situazione psicologica della giovane diventa talmente tanto pesante da sfociare prima in una depressione e poi nel suicidio. La pellicola è la testimonianza di una vita difficile, di un’illusione, di un sogno spezzato, con un finale terribile che scuote la coscienza collettiva.
Sembène è considerato uno dei grandi maestri del cinema africano ed è stato eletto presidente dell’associazione dei cineasti africani, la Fepaci (Fedération Panafricaine des Cinéastes). Nel 1988 ha ricevuto il Premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia per il film Camp de Thiaroye diretto insieme a Thierno Faty Sow.
Djibril Diop – Mambèty |
Il Senegal ha dato i natali ad un altro importante regista, Djibril Diop – Mambèty, classe 1945, proveniente da una famiglia musulmana, che da giovane inizia a studiare teatro e, in seguito, lavora come attore al Teatro Nazionale Daniel Sorano di Dakar. Sebbene la sua produzione artistica non sia stata numericamente molto ricca, le sue opere hanno lasciato un segno nella storia del cinema africano.
Nel 1973 il cineasta realizza il suo primo lungometraggio, Touki Bouki (Il viaggio della iena), che vince il Premio Internazionale della Critica al Festival di Cannes e il premio speciale della giuria al Festival di Mosca. Il film, montato a Roma, vede come protagonisti due giovani ribelli di Dakar, Mory e Anta, che sognano di arrivare in Francia. Contrapposizione fra tradizione e modernità e circolarità sono le parole chiave che caratterizzano l’opera. A tal proposito, l’Enciclopedia del Cinema della Treccani descrive il film affermando che:
Touki bouki è fatto di continue false partenze, è un girotondo che i due amanti vivono per le strade di Dakar (città amata e indagata da Diop-Mambéty in tutto il suo cinema, set nel quale immergersi per scoprirne sempre nuove risorse; qui bastano la panoramica sulle baracche da un ponte e il transito affollato e quotidiano delle persone per restituire la verità di un luogo) e nei suoi dintorni (la spiaggia e il mare, la piscina di un hotel di lusso, il porto, la nave in partenza). Sono spazi labirintici che non liberano, che fanno ripetere a Mory e Anta (soprattutto al ragazzo) gesti che li riportano al punto d'inizio (o, nel caso di lei, verso una nuova avventura lasciata immaginare).
Dal Senegal ci spostiamo in Marocco con il regista Ahmed El Maanouni, nato a Casablanca nel 1944. Pienamente inserito da anni nel mondo del cinema, El Maanouni non è solo regista, ma anche attore, sceneggiatore e direttore della fotografia. Interessato alle questioni storiche riguardanti il colonialismo, il cineasta è stato premiato con diversi riconoscimenti.
Ahmed El Maanouni |
Nel 1978 El Maanouni realizza Alyam Alyam (Oh i giorni!), prima pellicola marocchina selezionata al Festival di Cannes, nonché vincitrice del Gran Premio al Festival tedesco di Mannheim. Il film racconta la storia di Abdelwahad, un ragazzo che, dopo la morte del padre, deve provvedere al mantenimento della sua numerosa famiglia ma, stanco della vita in Marocco, decide di lasciare il suo paese per andare a lavorare in Francia. Ecco le parole del cineasta a proposito di questa opera cinematografica:
Volevo semplicemente mostrare i volti dei braccianti, onorare i loro suoni e le loro immagini, i loro silenzi e le loro parole, ed è per questo che ho scelto di non interferire e di contenere al massimo la composizione, i movimenti e la regia. Ho cercato di minimizzare la capacità della macchina da presa di distorcere, esprimere giudizi o discriminare. Volevo che ciascun aspetto fosse presentato equamente. Non cercavo la bellezza spettacolare, ho fatto in modo che il mondo rurale si esprimesse visivamente attraverso l’astrazione e il silenzio.
Dopo il Marocco, andiamo in Mauritania con Med Hondo, nato nel 1936 nella regione di Atar. Come molti dei protagonisti dei film precedentemente raccontati, Hondo raggiunge la Francia nel 1959, con in tasca un diploma di chef ottenuto in Marocco. In due città francesi molto importanti come Parigi e Marsiglia, il futuro regista lavora come fattorino, portuale, cameriere, sentendo in prima persona il peso dell’emarginazione e del razzismo. Decide così di affidarsi alla settima arte per raccontare, o meglio, denunciare le difficoltà e i soprusi vissuti da tante persone africane nella loro nuova vita in occidente.
Nel 1967 Hondo dirige Soleil Ô, presentato al Festival di Cannes e vincitore del Pardo d’Oro al Festival di Locarno nel 1970. Il film è uno spaccato di vita quotidiana di un uomo di origini africane, interpretato da Robert Liensol, che arriva a Parigi, cerca lavoro ma trova di fronte a sé solo tante porte chiuse. Questa storia ricalca quella vissuta da Hondo, Liensol e tanti altri artisti giunti in Francia dall’Africa, nella speranza di vivere in condizioni migliori. È lo stesso regista che, in una sua dichiarazione, spiega la genesi del suo lavoro filmico, nonché la scelta di rifugiarsi nell’arte:
Ci siamo trovati a essere artisti ‘di colore’, come si dice di solito, per puro caso insieme a Parigi sostanzialmente per le medesime ragioni, [...] Robert e io e ci siamo trovati nel bel mezzo di un paese, di una città, nella quale rimediare di che vivere, in parole povere, dove lavorare: essere un attore, un musicista, un cantante. E dove, però, ci si è subito resi conto che le porte erano chiuse […] Allora, per uscirne abbiamo deciso di fondare un gruppo teatrale e nell’attesa abbiamo realizzato un film tutti insieme, Soleil Ô [...] Tutte le scene sono ispirate alla realtà.
La visione di queste opere ci aiuta a tratteggiare la complessa situazione vissuta da molti abitanti del continente africano, che lasciano il luogo natale alla ricerca di migliori condizioni di vita. Infatti, sebbene gli stati rappresentati e gli anni di riferimento siano diversi, tutte queste pellicole hanno un filo conduttore che li unisce, un comune background, fatto di difficoltà, rinunce e allontanamenti. Ma anche sogni, speranze e illusioni. Mai, dunque, come in questi casi, il cinema diventa veicolo di conoscenza di tutto ciò che è lontano dai nostri occhi e si fa portatore di messaggi utili alla comprensione del passato, ma anche del presente.
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