Il Verbo degli uccelli è un poema di circa 4500 versi scritto dal poeta persiano Farīd ad-dīn ʻAṭṭār nel 1177. Quest’opera ha una grande importanza nel mondo islamico e non solo. Attraverso di essa Attar racconta l’impegno e la sofferenza necessari per affrontare il cammino iniziatico di ascesa verso la conoscenza e l’estinzione in Dio. Un po’ come nella nostra Divina commedia, anche questo poema è pieno di elementi che richiamano alla teologia ovviamente quella islamica, ma in particolare la teologia dei Sufi. Il sufismo infatti è una via spirituale non dogmatica basata sull’esigenza di un’evoluzione interiore che consenta di vivere le esperienze spirituali in maniera diretta.
Fu allora che l’upupa, eccitata e trepidante, balzò al centro dell’assemblea. Sul petto portava i simboli di chi conosce la via, sul capo la corona della verità. Lungo la via aveva affinato la mente, era venuta a conoscenza del bene e del male. «Amici uccelli», cominciò, «in verità io sono il messaggero del divino l’inviato dell’invisibile. Io ebbi notizia della creazione e ne conobbi i segreti. Colui che costantemente ha il nome di Dio sulla lingua, deve essere esperto di molti segreti! Trascorro la mia esistenza in pena per lui, né da altri mi curo. Poiché da tutti sono libera, ugualmente nessuno è a me legato. Io sono malata d’amore per il mio sovrano, non posso curarmi dei sudditi. So trovare l’acqua di istinto, ma conosco ben altri segreti!»
Dopo aver esposto la necessità di un viaggio alla ricerca del Simurgh vengono presentati i vari uccelli che pongono delle obiezioni connesse alla loro natura e simbolicamente anche alle caratteristiche umane che rappresentano. Il primo è l’usignolo che vanta il suo amore per la rosa e si domanda come potrebbe mai privarsi del suo amore? L’upupa lo contrasta dicendogli che il suo è amore per una bellezza che conoscerà un rapido declino e dunque un amore terreno, destinato ad estinguersi e in ciò simbolizza l’ignoranza verso Dio.
Il pappagallo vantava la sua vicinanza alla figura di Khizr, un santo islamico che in questo caso simboleggia una fede che lo ingabbia e lo rinchiude in se stesso, nel suo egoismo, rendendolo incapace di sacrificio altrui. Per questa ragione l’upupa gli risponde dicendogli che: «non è uomo autentico colui che non sa morire a se stesso.»
Il pavone, proprio come da tradizione, viene descritto come l’uccello che fa sfoggio del suo piumaggio autodefinendosi addirittura il “Gabriele degli uccelli”. Egli afferma di desiderare soltanto di ritornare nella dimora da cui proviene, il paradiso, e di non desiderare oltre. Secondo una leggenda islamica infatti il pavone era una sorta di angelo che viveva in paradiso. Questi entrò in contatto col serpente che approfittando di lui riuscirà ad aver accesso al paradiso dove poi, come noto, tenterà Adamo ed Eva. Per questo peccato il pavone verrà cacciato venendo trasformato nella creatura che conosciamo: con le zampe grandi, incapace di volare e con una voce stridula.
L’oca si considera incontaminata perché si mantiene nell’elemento dell’acqua ed è appagata di ciò. La pernice insegue tutto il tempo le gemme preziose, vaga tra le cave per ottenerne una e tutto il resto gli appare effimero a confronto. Il falco era notoriamente l’uccello utilizzato dai sovrani per cacciare, e difatti egli allude proprio al privilegio di essere un fedele cacciatore di mano regale. L’upupa in questo caso condanna la sua schiavitù alle forme esteriori e alla stoltezza del potere troppo legato al mondo.
La civetta predilige i luoghi abbandonati dove spera di trovare un giorno un tesoro, e l’upupa lo rimprovera dicendo che amare oro e tesori è da infedele. Invece il fringuello, dal cuore fragile e dal corpo sottile lamenta il fatto d’essere debole e privo di coraggio e per questa ragione incapace di cercare il Simurgh.
Come detto gli uccelli sono la rappresentazione delle caratteristiche umane volte a voler raggiungere interessi terreni piuttosto che elevarsi per cercare l’unione mistica con Dio. La ricerca del Simurgh infatti è proprio questo, un cammino di elevazione proposto all’intera comunità. L’upupa quindi parla ai presenti con parole pregne di significato:
Sappiate che quando Simurgh, come sole splendente, mostrò dietro un velo il suo volto, proiettò sulla terra ombre infinite che poi contemplò con il suo purissimo sguardo. Fece dono al mondo della sua stessa ombra, da cui sorsero incessantemente uccelli infiniti. I disparati volti degli uccelli del mondo non sono che il volto del bel Simurgh [...] Solo riconoscendo una simile verità, potrete comprendere la relazione che esiste tra voi e quella augusta presenza, ma poi guardatevi bene dal divulgare un simile segreto.
Se non hai occhio per Simurgh significa che il tuo cuore non è simile a specchio. E infatti, non potendo sguardo umano contemplare una così divina bellezza né sostenere tanto fulgore né giocare all'amore con un simile prodigio, egli nella sua infinita grazia volle creare per noi uno specchio, che ha sede nel cuore.
In questo passaggio si allude dal concetto di cuore-specchio. Ossia l’idea che il cuore umano debba aprirsi al divino e farsi specchio della divinità attraverso un sentimento profondo. È infatti la purezza del cuore a permettere il riflesso della luce divina.
L'innamorato non si cura della propria vita. Asceta o libertino, solo congedandoti dalla vita potrai divenire autentico amante. Quando sentirai il tuo cuore ostile all'esistenza, separati da lei e ti sarà cosi possibile giungere alla fine della via. Ostacolo lungo questa via è la tua stessa esistenza, dunque sacrificala! Strappati gli occhi, e guarda finalmente! E se ti verrà ordinato di lasciare la fede, se sarai esortato ad abbandonare la vita, tu liberati di entrambe! Ripudia la fede e scrollati la vita di dosso!
Qui è sempre l’upupa a parlare esplicitando il vero approccio Sufi alla divinità, un approccio sentimentale che rifugge i dogmi per mirare direttamente all’amore verso Dio.
Gli uccelli sanno anche di dover affrontare delle prove per superare le sette valli. Valli che rappresentano i sette stati di elevazione (maqām) atti a raggiungere l’ascesi mistica.
All'inizio troverai la valle della ricerca, cui segue immediatamente la valle dell'amore. La terza è la valle della conoscenza e la quarta è la valle del distacco. La quinta è la valle della pura unificazione e la sesta è la valle dello stupore. Settima ed estrema è la valle della privazione e dell'annientamento, oltre la quale non è lecito andare. Se solo tentassi di farlo, ti smarriresti: laggiù una goccia apparirebbe ai tuoi occhi oceano sconfinato.
Ognuna delle valli è una prova che fortifica l’animo attraverso un processo di superamento che conduce all’elevazione. Nella valle della ricerca si accetta l’empietà e la bestemmia degli altri, cancellando ogni giudizio. In quella dell’amore ci si impara a vedere le cose sotto l’occhio dell’amore verso il creato, ottenendo la libertà della comprensione oltre l’intelletto. Nella valle della conoscenza corpo e anima si separano consentendo di vedere finalmente la polpa e non più la buccia del frutto. Nella valle del distacco non esiste nulla di illusorio o di reale. Qui si comprende che ogni cosa che può apparire giusta può essere sbagliata, pertanto solo nel distacco si può andare oltre.
Qui centomila bimbi furono decapitati affinché Mosè, il confidente di Dio, divenisse un veggente. […] Qui centomila credenti indossarono lo zunnar [cintura che i non musulmani dovevano indossare] degli infedeli affinché Gesù potesse conoscere i santi misteri.
Nella valle dell’unificazione si vedrà una realtà unica, un’unità non numerabile, un nulla che crea confusione. Questo concetto per noi occidentali diventa comprensibile se associato al mondo quantistico, dove tutte le particelle e tutti i fenomeni risultano essere collegati.
Poiché tutto è pura unità, ogni dualità è qui inconcepibile, per cui non ha senso dire «io» e «tu». L'interminabile scala della creazione si snoda attraverso infiniti «io» e «noi» [...] se vivrai in Lui, potrai conoscere il mistero dell'unità: unità purissima, non volgare associazione.
Presso la valle dello stupore il giorno e la notte divengono una cosa sola, e persino la certezza di esistere o non esistere creano un annullamento totale. Infine nella valle della privazione e dell’annientamento ci si perde in una pace eterna (fanāʾ). E se si è puri ci si uniforma in questo mare, se invece si è impuri si affonda trattenuti dalle proprie impurità.
Rappresentazione del Simurgh |
La descrizione delle valli fatta dall’upupa creerà un certo sconforto negli uccelli per cui alcuni stramazzeranno al suolo, mentre altri decideranno di intraprendere comunque il viaggio. Vagheranno per anni, ma la maggior parte di essi si perderà. Molti annegheranno, altri saranno uccisi dal terrore, altri cadranno tra le fauci di leoni e pantere, altri abbandoneranno la via per dedicarsi agli svaghi. Sicché dei centomila uccelli che avevano iniziato il viaggio solo trenta di essi riusciranno nell’impresa di giungere alla corte del Simurgh. Qui verranno accolti da un araldo che li invita a leggere una pergamena dove si palesa finalmente la condizione mortale esplicitata in ogni fase dell’esistenza. Ma è l’incontro col Simurgh il vero clou di questa meravigliosa opera dove avverrà il disvelamento della realtà profonda.
Un ignoto stupore rapì le loro menti e tutto quanto in passato avevano vissuto o non vissuto venne sradicato e rimosso dai loro animi. Finalmente il fulgido sole dell'intimità rifulse su di loro e i suoi raggi vennero riflessi dallo specchio delle loro anime. Nell'immagine del volto di Simurgh contemplarono il mondo e dal mondo videro emergere il volto di Simurgh. Osservando più attentamente si accorsero che i trenta uccelli altri non erano che Simurgh e che Simurgh era i trenta uccelli…
Il loro stupore è la scoperta che il Simurgh in realtà è parte di se essi stessi, ed essi stessi sono il Simurgh! In persiano la parola “Si murgh” significa proprio trenta uccelli. Sicché il senso di questo impetuoso finale è che l’uomo contiene una scintilla divina a cui può accedere attraverso un difficile cammino di miglioramento e purificazione. Il poema in fondo è uno stimolo continuo alla ricerca di Dio in se stessi, e per fare ciò la narrazione è intervallata da una serie di racconti spesso legati al tema, utili soprattutto per ampliare il significato simbolico di quanto affermato prima. In essi tornano spesso i temi cari all’autore e al sufismo in generale: l’amore mistico, la follia d’amore e l’abbandono della ragione per giungere alla conquista del Sé spirituale: «questo mio libro è compiuta follia, la ragione è totalmente estranea al mio sermone.»
Un testo non facile, soprattutto se non si ha dimestichezza con la cultura islamica, ma anche un testo utile per riscoprire la profondità di parole e simboli che penetrano nel profondo di una saggezza millenaria diffusa da Attar.
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