Tutta questa gente sa dove va e cosa vuole, ha uno scopo, e per questo s’affretta, si tormenta, è triste, allegra, vive, io… Io invece nulla… Nessuno scopo… Se non cammino sto seduto: fa lo stesso.
Uno dei romanzi più importanti del Novecento, Gli indifferenti, di Alberto Moravia, nel 2024 compie novantacinque anni. La retorica impone, a questo punto, che si scriva che è un romanzo ancora attuale. Non è così: Gli indifferenti sono l’analisi disillusa dell’Italia borghese e capricciosa dell’inizio del XX secolo: della classe sociale che ha vissuto il crollo del Fascismo che aveva contribuito ad erigere; che ha subìto, in maniera fasulla eppure rilevante, i capovolgimenti sessantottini. Quella vecchia borghesia non c’è più ma gli esemplari di persone descritte nel romanzo esistono anche oggi. Purtroppo non c’è un Moravia appena ventiduenne a denudare i loro caratteri con la scrittura: forse però una rilettura del suo primo capolavoro aiuterebbe a interrogarsi sulle vite che ogni giorno conduciamo.
Era la sera del venerdì santo, i briganti calabresi stavano riuniti attorno al fuoco; ed ecco uno di essi disse: “Tu Beppe, che ne sai tante, dicci una bella storia” e Beppe con voce cavernosa cominciò: “Era la sera del venerdì santo, i briganti calabresi stavano riuniti attorno al fuoco; ed ecco uno di essi disse: “Tu Beppe, che ne sai tante, dicci una bella storia” e Beppe con voce cavernosa incominciò: “Era la sera del venerdì santo…
Una storia monotona, sempre uguale, che non dice nulla di nuovo; Michele può difendersi soltanto con l’ironia e il disgusto di sé stesso e degli altri. Vorrebbe raggiungere la sincerità o perlomeno l’incoscienza che gli altri hanno nel compiere azioni false e vacue. Sembra quasi di sentir riecheggiare i versi de La signorina Felicita ovvero la felicità di Guido Gozzano, scritta appena vent’anni prima del romanzo:
Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. […] Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...
Gozzano è, in fondo, annoiato come Michele dalla vita borghese e si nasconde, attraverso una poesia ironica e crudele, distruttiva di tutti i parametri estetici tipici dell’epoca, in primis perché si rivolge ad una sempliciotta che in maniera esplicita non ama, come il personaggio letterario non ama Lisa. È il desiderio di vita autentica e di fuga dal loro mondo che accomuna i due. Carla invece soffre per l’abitudinarietà delle azioni: a differenza del fratello quindi, la sua angoscia non è interna ma provocata dall’esterno. Mentre Michele lavora su sé stesso, cercando di fuggire da quel vortice sociale, Carla lo subisce, arrivando al desiderio di autodistruggersi. Michele non si riconosce in quel mondo, lei sì e vorrebbe farlo affondare e ciò la porterà ad accettare la corte di Leo, che non ama, pur di fare qualcosa di “diverso”. Entrambi vogliono dunque sfuggire a questa situazione angosciosa. Mariagrazia e Lisa sono invece gli stereotipi della borghesia impoverita e decadente, immerse nelle loro rappresentazioni sociali di cui non sono consapevoli. Le emozioni che si scatenano in loro sono convenzionali eppure loro le hanno acquisite come sincere. Tutte e due soffrono perché vorrebbero sentirsi più amate: l’amore, anche per i due fratelli, è l’unico sentimento che provoca dei desideri o comunque delle reazioni sincere. Leo è il solo personaggio che non si senta schiacciato dall’angoscia della sua posizione. È un uomo, nella sua futilità, deciso: guida l’automobile, vero luogo e oggetto sociale dell’epoca, non ha paura a conquistare la figlia dell’amante, amministra gli affari senza un vero interesse ma in maniera impeccabile; il suo motore è l’eccitazione sessuale e il desiderio di possesso. Non ama. È virile tanto è vero che, nonostante sia più vecchio di Michele, lo domina fisicamente negli scontri che avranno. Sembra quasi la rappresentazione del futurista. Nel romanzo i suoi pensieri non hanno una rilevanza esistenziale, e non vengono indagati a fondo. Come dei burattini, gli altri del quintetto, volenti o nolenti, girano intorno alle sue azioni e alla sue voglie. E alla fine vince su tutti. Michele rinuncia alla sua lotta contro l’indifferenza, Carla si abitua a una nuova, snervante abitudine che in realtà è sempre la stessa. Come ne Il Gattopardo, tutto cambia per non cambiare nulla.
Quindi, cosa c’è di attuale ne Gli indifferenti? L’incapacità di uscire dal proprio ruolo. In fin dei conti questo romanzo è una grande commedia pirandelliana, o l’anticipazione della Cantatrice calva di Ionesco. L’uomo contemporaneo attraverso queste grandi opere ha scoperto la sua piattezza e la disperata ricerca di un qualcosa di diverso. Eppure, nonostante questi tipi umani esistano tuttora nella nostra società, Gli indifferenti non è un romanzo che può decifrare in maniera soddisfacente l’oggi: il riflessivo Michele, adesso, agirebbe in maniera diversa. Forse ci si sta staccando dal nichilismo novecentesco, o forse lo si sta esacerbando. Nel frattempo che noi leggiamo Gli indifferenti e pensiamo, forse c’è veramente un altro Moravia che parlerà di noi e della matassa che è la nostra vita.
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