Tramonti, fatica, lavoro, albe, bambini sono gli elementi che dettano il ritmo della nostra vita nonché gli ingredienti del nostro quotidiano. Un ritmo che è unico per ciascuno di noi e un quotidiano che si esprime attraverso forme e colori diversi. Il racconto della realtà, senza filtri e fatto con sguardo puro e genuino, è quanto di più difficile possa esserci, ieri come oggi. Molti artisti, soprattutto appartenenti al mondo cinematografico, hanno imbracciato la macchina da presa ed hanno provato, negli anni, a regalare al pubblico piccole parti di realtà, di quotidianità e di ritmi di vita diversi. Tra i tanti artisti, spicca, senza dubbio, la figura di Vittorio De Seta.
Lu tempu di li pisci spata è girato nello stretto di Messina e, come suggerisce il titolo, racconta il momento della pesca del pesce spada. La didascalia di apertura recita:
Nella bella stagione il pesce spada viene a deporre le uova nelle tiepide acque che separano la Sicilia dalla Calabria. Qui l’uomo lo attende per ucciderlo. È una pesca antichissima le cui origini si perdono nel buio dei tempi. Di essa cantano gli uomini nella lunga attesa. Di essa cantano le donne intente alla fatica quotidiana.
Di questo interessante lavoro filmico del 1954, De Seta dice: «Quando giravo sulla pesca del pesce spada, nessuno poteva immaginare che dopo duemila anni che avveniva in quel modo, con tutta la cultura che rappresentava, sarebbe scomparsa in pochissimo tempo».
Sempre nel 1954, De Seta realizza Isole di fuoco, premiato come miglior documentario al Festival di Cannes del 1955. Il cortometraggio si apre con la seguente didascalia: «A nord della Sicilia sorgono dal mare Stromboli e le altre isole Eolie. Qui il fuoco cova ancora nelle viscere della terra e minaccia la vita dell’uomo. Per questa ragione gli abitanti poco a poco le abbandonano e migrano verso altri continenti». In questo corto c’è grande attenzione per la natura, con le immagini del fumo che fuoriesce dai crateri e i rumori delle esplosioni che si alternano a quelle del mare. Spazio anche per le inquadrature con gli abitanti e i pescatori.
Uno dei più famosi documentari di De Seta è, certamente, Surfarara del 1955, che, nelle inquadrature iniziali, accoglie la seguente didascalia esplicativa: «Le miniere di zolfo sono disseminate nella vasta landa contadina della Sicilia centrale. Poche strutture testimoniano all’esterno l’oscuro lavoro e, talvolta, l’invisibile tragedia che si svolge nelle viscere della terra». Le immagini sono girate a Trabia Tallarita, in provincia di Caltanissetta, e mostrano i lavoratori che scendono in miniera con la fatica stampata sui loro volti. Ma vi sono anche inquadrature di donne che lavano i panni nei lavatoi comuni e altre che comprano le uova per strada: uno spaccato della vita realtà quotidiana dell’Italia Meridionale negli anni Cinquanta.
Pasqua in Sicilia del 1955 viene presentato in didascalia con queste parole: «Il dramma della morte e della resurrezione di Gesù viene celebrata nei piccoli borghi della Sicilia con rappresentazioni che riflettono un sentimento di commossa e immediata partecipazione». Dopo una prima immagine dei Giudei di San Fratello a Messina, sono mostrati i riti religiosi a Delia, paese in provincia di Caltanissetta, con le immagini piene di volti di bambini e anziani che prendono parte, in maniera sentita, alla processione. Vi è poi il rito pasquale di Aidone, in provincia di Enna, che vede come protagonisti i Santun, enormi statue che rappresentano gli apostoli.
A Palermo, nel 1995, in occasione della retrospettiva Il cinema di Vittorio De Seta organizzata dalla Filmoteca Regionale Siciliana, Daniele Ciprì e Franco Maresco incontrano De Seta e Goffredo Fofi, dando vita ad una interessante conversazione che diventa poi un prodotto audiovisivo andato in onda in Rai. È proprio in questo contesto che De Seta racconta del poco lustro che hanno avuto i suoi film e dell’importanza dell’abolizione della voce fuori campo che porta come naturale conseguenza una maggiore attenzione nei confronti della cultura locale. Il regista parla anche della scelta di realizzare i suoi documentari con «persone prese dalla vita», che sono «portatori inconsapevoli di cultura». Fofi, invece, celebre storico e critico del cinema, sottolinea la capacità di De Seta di unire etico ed estetico nonché la sua libertà di inventare “altre narrazioni”, lontane da quelle classiche, tradizionali.
De Seta, morto a Sellia Marina nel 2011, ha lasciato un’eredità importante nel mondo della cinematografia, proponendo lavori realizzati con l’intento di raccontare dall’interno realtà che in parte, da lì a breve, sarebbero scomparse. Pienamente condivisibile il pensiero di Martin Scorsese, che lo ha definito “un antropologo che parla con la voce di un poeta”. Lo sguardo di De Seta è, infatti, molto simile a quello di un antropologo, che si cala capillarmente nei meandri di mondi spesso complessi per poi farne oggetto di studio e di racconto. Grazie a De Seta, abbiamo, ancora oggi, la possibilità di entrare per pochi minuti nella realtà dei mestieri e delle tradizioni di un tempo lontano. La visione filmica ci coinvolge e ci fa sentire parte di quell’universo passato, che appartiene ai nostri avi e alle loro testimonianze.
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