19 giugno 2024

Antonioni e i cortometraggi degli anni Quaranta e Cinquanta

L’inizio della carriera di un artista è caratterizzata da scoperte, tentativi, sperimentazioni; talvolta con il tempo viene rinnegato, in altri casi, invece, apprezzato e ricordato con affetto e nostalgia dalla viva voce dello stesso artista. Certamente, però, l’origine e i primi passi di un percorso artistico diventano oggetto di studio e approfondimento da parte di critici e ricercatori che provano a rilevare punti di svolta e caratteristiche delle scelte estetiche e formali di un artista, collocandolo nel suo contesto storico, politico e culturale. Anche nel caso di Michelangelo Antonioni, uno dei più grandi registi italiani, l’analisi della prima fase della sua carriera costituisce un momento di studio estremamente fecondo. 

Nel periodo compreso fra gli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta il giovane regista si occupa della realizzazione di documentari nella forma di cortometraggi della durata media di circa dieci minuti, degli «esperimenti linguistico-visivi in cui il cineasta dimostra già le sue doti autoriali e i primi abbozzi di uno stile che, di lì a poco, si sarebbe concretizzato nel suo cinema». Il perché della scelta documentaria ci viene data dallo stesso Antonioni che, in un articolo sul «Corriere Padano» del 1937, afferma:

Il documentario richiede tutta un’esperienza particolare e tutta una particolare personalità da parte di chi lo crea. […]. La potenza evocativa di antiche opere architettoniche, il profumo che emana da infiniti angoli del mondo e da ogni altro spettacolo della natura o della portentosa opera dell’uomo sono tutti richiami che per essere espressi devono prima essere profondamente sentiti, altrimenti perdono ogni loro potenza e significato.

Il primo documentario realizzato dal cineasta è Gente del Po, presentato nel 1947 alla Mostra del Cinema di Venezia. Il cortometraggio, come suggerisce il titolo, vede come protagonista il fiume Po, già oggetto di un articolo pubblicato nell’aprile 1939 sulla rivista «Cinema» intitolato Per un film sul fiume Po, scritto dallo stesso Antonioni. Secondo lo storico del cinema Aldo Bernardini, Gente del Po:

risulta frammentario e discontinuo, ma rivela nell’autore una notevole sensibilità paesaggistica e la tendenza ad un racconto che, più che in funzione strettamente documentaria, serve a precisare una verità umana e ambientale: saranno queste le costanti di Antonioni documentarista anche nelle opere successive.

Il Po è stato, inoltre, anche set della pellicola neorealista Ossessione del 1943 di Luchino Visconti

Il secondo documentario diretto da Antonioni è N. U. (Nettezza Urbana) del 1948, che racconta la vita degli spazzini in città. Il critico cinematografico Carlo di Carlo, particolarmente interessato ai lavori del cineasta ferrarese, a proposito di N. U., sostiene che è proprio qui che «nasce la cifra stilistica di Antonioni, il valore semantico delle sue immagini, il fondo come situazione». Giampaolo Bernagozzi, invece, regala un’accurata descrizione visiva del documentario, lavorando sulla capacità di immaginazione di chi legge:

Forse è la ricerca di orizzonti umani che ritroviamo in N.U. […] Anche qui il passaggio di una locomotiva, lo sferragliare di un treno e una macchina da presa che panoramica dal terrapieno per scoprire, a sinistra, gli spazzini, i porta bidoni, le baracche. È tutto un gioco che passa dagli spazzini come personaggi al paesaggio che sta dietro a questi personaggi. Si scopre così Piazza del Popolo, si scopre – dai piedi di uno spazzino sdraiato a riposare – una panoramica su Roma, poi Piazza del Quirinale, poi la cupole di S. Pietro, poi – con un blocco che potremmo chiamare piano sequenza – Trinità dei Monti.

Terzo cortometraggio è, invece, L’amorosa menzogna, del 1949, premiato con un Nastro d’Argento come Miglior documentario, che focalizza l’attenzione sul fenomeno dei fotoromanzi, descrivendo «il loro processo produttivo, il rapporto tra lettori e interpreti delle narrazioni amorose». Da Renzo Renzi a Guido Aristarco, tanti i critici ad avere accolto con favore questo interessante lavoro. In particolare, Giorgio Tinazzi descrive L’amorosa menzogna come:

un documentario sul mondo dei fumetti. All’autore importa osservare come è costruito un mito: la falsità, la posa o il sentimentalismo […]. Poi, guardando dietro la facciata, trova i gesti quotidiani dei protagonisti, la loro vita senza orpelli (il ritorno a casa in bicicletta, il barbiere). Stilisticamente, vi sono alcune cose da notare: l’insistenza sul particolare della bambina che balla per imitazione, contrappunto con i primi piani di quelli che osservano; un certo bisogno di sovraccaricare l’effetto di una situazione, come nell’atteggiamento di “quello che non condivide” il successo del divo [...].

Tinazzi focalizza, quindi, l’attenzione sullo sguardo dell’autore e su come questo trovi concretezza nelle sue scelte stilistiche, come l’utilizzo dei primi piani, e conclude con una notazione di carattere “quasi personale” circa l’umorismo di Antonioni.


Restando nel 1949, dopo L’amorosa menzogna, arriva il quarto cortometraggio, Superstizione, che, come suggerisce lo stesso titolo, getta una luce sulle credenze e sulle superstizioni ancora esistenti in un piccolo paese delle Marche. Particolarmente complicata la storia della realizzazione di questo documentario che, a un certo punto, vede la “manomissione” da parte del produttore che aggiunge parti non girate da Antonioni. Il regista decide, così, di rinunciare alla paternità del cortometraggio in occasione della presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia. A tal proposito, il già citato Tinazzi afferma che:

l’indagine che l’autore ha svolto con Superstizione (1949) è in realtà la modificazione – cui fu costretto – di un’idea più ampia e articolata. In quel che resta si può scoprire l’interesse per il tema dell’ambiguità  degli atteggiamenti. Il rito come difesa (la morte, il malocchio ecc.), che rimane tutto in superficie, e suona falso. Ma forse c’è qualcosa di più e di diverso: il senso delle cose caricate di significati ulteriori per un’abitudine inverata dal simbolo. Tutti temi, comunque che si sviluppano compiutamente solo nel soggetto originale.

Quinto breve documentario è Sette canne, un vestito del 1949, girato all’interno della fabbrica di rayon di Torviscosa, in provincia di Trieste. Il giornalista Ermanno Contini descrive questo lavoro come un «cortometraggio sulle fibre tessili nel quale un pertinente linguaggio cinematografico è messo agilmente al servizio dell’esposizione di moderni procedimenti industriali».

È del 1950, invece, La villa dei mostri, sesto cortometraggio del cineasta, che espone allo sguardo del pubblico le sculture “mostruose” presenti nei pressi della Villa Orsini a Bomarzo, in provincia di Viterbo. Secondo il critico Aldo Tassone, in questo lavoro Antonioni:

si limita a riprendere i mostri in inquadrature per lo più fisse, e commette l’errore di lasciarsi imporre una voice-off (di Arnaldo Foà) che non ci dà tregua e mescola con toni altisonanti informazioni turistiche e battute che si vorrebbero spiritose. L’incantesimo viene continuamente rotto, non c’è abbastanza magia, né mistero.

Infine, il settimo ed ultimo cortometraggio di Antonioni, in questa prima fase della sua lunga carriera, è La funivia del Faloria del 1950, realizzato a Cortina d’Ampezzo, con l’obiettivo di portare sullo schermo la sensazione di vertigine vissuta dai passeggeri, anche se, come afferma Giorgio Santarelli, «il soggettivismo della descrizione non impedisce di mettere in rilievo la bellezza turistica della zona, resa più suggestiva dallo speciale punto di vista».

Nonostante, con molta probabilità, questi cortometraggi siano stati posti dal pubblico in secondo piano rispetto alle grandi opere della tetralogia dei sentimenti e a quelle successive, sono stati comunque oggetto di interesse da parte dei critici più importanti dell’epoca. Queste voci critiche ci restituiscono un Antonioni curioso, che affina la sensibilità con cui guardare il mondo, non ancora al massimo delle sue possibilità ma pronto ad intraprendere un percorso fruttuoso nel cinema. In termini aristotelici, è un grande regista in potenza ma non ancora in atto. Il giovane Michelangelo si mostra in grado di raccontare momenti della quotidianità del suo presente che ci aiutano a comprendere meglio, anche da un punto di vista antropologico, la sua epoca, la sua Italia.

 Francesca Bella

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie per questo approfondito ed interessante articolo. Elisabetta Antonioni