19 luglio 2024

Breve viaggio linguistico: dal latino all’italiano

Quando ho studiato latino all’università, ho trovato comodo il fatto che molte delle parole di quella lingua assomigliassero alla lingua che parlavo io, l’italiano. Una grande fortuna o, meglio, una fortunata parentela linguistica. Tutti infatti sappiamo che l’italiano “viene” dal latino; ma in che senso? In che modo questa lingua parlata secoli fa ha dato vita a quello che per noi oggi è il nostro modo naturale di esprimerci? Proviamo a capirlo.

Innanzitutto, prendiamo confidenza con un fatto: nel corso della storia, sono state parlate moltissime lingue, alcune delle quali, oggi, non esistono più. I motivi per cui un sistema linguistico decade sono essenzialmente due: la scomparsa della comunità che parla quella lingua (per esempio, a seguito di un genocidio o di una catastrofe naturale), oppure il passaggio di quella comunità da una lingua ad un’altra. Il secondo caso è quello accaduto proprio con il latino, i cui parlanti, a poco a poco e in modi differenti a seconda delle diverse zone geografiche, hanno modificato il loro modo di parlare, fino ad esprimersi in una lingua differente.

Che il latino studiato all’università fosse simile per alcuni aspetti all’italiano che parlavo io, non era dunque un caso. Infatti, quell’italiano che usavo nella vita di tutti i giorni veniva proprio da quel latino che stavo osservando alla lavagna. Ma in che senso dunque l’italiano “viene dal latino”? Prendiamo la parola MĀTĔR (le basi delle parole latine si scrivono convenzionalmente usando le maiuscole) e la sua corrispondente italiana madre: notiamo subito una notevole somiglianza. Questo fatto accade con tante altre parole italiane, tanto da aver fatto supporre agli studiosi tra ‘7- e ‘800 che tra le due lingue ci fosse proprio un legame di parentela; come se, dallo stesso colore degli occhi e dalla stessa forma delle orecchie, si ipotizzasse un legame madre-figlio tra due persone (ovviamente la metafora è un po’ impropria, non si sta parlando di esseri viventi, ma è comunque utile per capire alcune dinamiche). Questo legame tra le due lingue, che per noi può sembrare ovvio, molti secoli fa non lo era. Dante, per esempio - e con lui moltissimi intellettuali della sua epoca - consideravano il latino come una lingua artificiale, un sistema linguistico inventato dai letterati della classicità per parlare tra loro di cose alte. 

L’italiano, dunque, “viene” dal latino, ma bisogna fare delle precisazioni: innanzitutto, pensare l’italiano come ad un figlio del latino è fuorviante. In un certo senso, sarebbe meglio pensare l’italiano come il risultato di molti cambiamenti a cui è andato incontro il latino nel corso di molti secoli. Giuseppe Patota, professore di Storia della lingua italiana a Siena, scrive:

[…] l’uso di un verbo come derivare fa pensare a una «lingua madre» (il latino) da cui sarebbero nate le tante «lingue figlie» […]. Ma le lingue non sono organismi biologici: per loro non si può parlare di nascita, vita e morte in senso tradizionale. L’italiano non deriva (cioè non nasce) dal latino, ma continua il latino: una tradizione ininterrotta lega la lingua di Roma antica alla lingua di Roma moderna, dai tempi remoti della fondazione fino ai giorni nostri. Si può dire, in buona sostanza, che l’italiano è il latino adoperato oggi in Italia […].

Inoltre, con il termine italiano, qui si indica una lingua che si è sviluppata da uno dei tanti dialetti di origine latina che si parlavano in Italia nel Medioevo, ovvero il dialetto toscano a base fiorentina. Ma, a parte questi tecnicismi, è importante tenere a mente che è da pochissimi secoli che abbiamo coscienza di una lingua italiana, ritenuta più prestigiosa e quindi superiore agli altri dialetti della penisola. A livello linguistico, i dialetti e le lingue sono perfettamente equivalenti, ognuno ha una sua grammatica e delle sue regole; la cosa che li diversifica è semplicemente il prestigio che nella storia si sono conquistati, magari per motivi letterari o politici. L’importante linguista Tullio De Mauro, in un libretto dal titolo La lingua batte dove il dente duole, scrive:

in Italia abbiamo tante lingue […]. Le chiamiamo dialetti, ma in linea di principio non c’è alcuna differenza dal punto di vista dell’organizzazione grammaticale [con l’italiano] […]. Non sono modi sbagliati di parlare l’italiano, come nella tradizione scolastica qualche volta si è pensato e insegnato, sono altri modi di parlare continuando l’antico latino, con le loro regole, il loro vocabolario […]. Il dialetto di una città come Firenze – non la più importante tra le città italiane – è la matrice di quello che nel Cinquecento diventa – e comincia a essere chiamato – l’italiano.

Vediamo un esempio in cui la nostra parlata continua quella latina: per indicare il ‘bagno’, la ‘toilette’, i Greci usavano la parola aphedrón, letteralmente “sedia appartata”, che i latini traducono con SĒCESSUM, con lo stesso significato di “luogo appartato”, e che è la matrice del nostro termine popolare cesso (e poi non si dica che non è utile conoscere il latino). Un altro aspetto che mostra l’evoluzione del latino nell’italiano è il tempo verbale del futuro. Prendiamo il verbo LAUDO, ovvero lodare: in latino classico, il verbo al futuro diventa LAUDABO, non proprio simile al nostro loderò. Nel parlato, però, c’erano altri modi per esprimere il concetto dell’azione futura. Tra queste, ha avuto particolare fortuna la locuzione formata dall’infinito di un verbo seguita dal presente del verbo HABEO, in cui quest’ultimo ha valore di “devo”, “ho da”. Riprendendo l'esempio, secondo questa forma avremo LAUDARE HABEO, ho da lodare, ovvero loderò. È proprio da questa forma meno classica che è venuto il nostro futuro, secondo la trafila LAUDARE HABEO > LAUDAR(E) *AO > lodarò > loderò. 

Ci sono moltissimi altri esempi di moltissimi altri aspetti della lingua che mostrano come il latino si sia evoluto nell’italiano. Ma quando parliamo di latino, a cosa ci riferiamo esattamente? Ecco un’altra precisazione: non è stata la lingua scritta che si studia a scuola, il latino classico, ad essersi evoluta, bensì quella lingua che era parlata dalla popolazione nella sua quotidianità, una lingua che poteva essere leggermente differente a seconda del tempo, del luogo, e delle persone che la parlavano, e che gli studiosi chiamano latino volgare, prendendo a prestito un’espressione usata da Cicerone, “vulgaris sermo”, col quale egli voleva indicare “la lingua corrente” (noi a scuola studiamo il latino “classico” perché è quello in cui sono state scritte le opere letterarie). Analizzando le lingue derivate dal latino, infatti, ci si era accorti che non si riusciva a ricondurle esattamente al latino classico: ecco che gli studiosi ipotizzano quindi che doveva esserci una lingua popolare, viva, meno cristallizzata rispetto al latino letterario. Per farlo, i linguisti hanno studiato alcuni aspetti fonetici – ovvero aspetti che riguardano la pronuncia dei suoni di una lingua - oppure, più semplicemente, relazioni lessicali, ovvero tra le parole. Prendiamo la parola italiana fuoco. In latino classico, come qualsiasi liceale sa, il termine latino corrispondente è IGNIS. Tra i due termini evidentemente non c’è alcuna relazione, e questo perché il termine italiano non è derivato direttamente dal termine classico, bensì dalla parola latina FŎCUS, una parola popolare, che designava il focolare domestico, e non il fuoco in generale, ma appunto qualcosa di più concreto. Invece, il termine classico è stato recuperato, come in molti altri casi, nell’Ottocento come elemento di parole dotte o scientifiche (pensiamo a parole come ignifugo o ìgneo). Qui abbiamo dunque una voce popolare che designa qualcosa di più specifico e che sostituisce la voce che in latino classico indicava il concetto generale di fuoco. Il termine più vicino, più quotidiano, più dimesso, prevale.  

Inoltre, gli studi più recenti tendono a sfumare la contrapposizione tra latino classico e latino volgare, considerando quest’ultimo una varietà parlata del latino, e a non identificarlo come il latino parlato in generale. Infatti, il latino parlato bisogna immaginarselo – similmente a tutte le lingue naturali - come una lingua che si modifica a seconda delle epoche, delle condizioni sociali, del contesto comunicativo e della provenienza geografica di chi lo parla. Riguardo alla provenienza geografica, poi, aggiungiamo che spesso nelle province dell’impero Romano il latino era parlato anche da persone di origine non latina, con una lingua madre diversa, e questo ha contribuito ad accentuare ancora di più il suo cambiamento. Infatti, oltre ad essersi sviluppato nell’italiano, la lingua latina ha dato vita anche ad altri sistemi linguistici, a cui viene dato il nome di lingue romanze (o neolatine) e che sono, oltre all’italiano: il francese, lo spagnolo, il portoghese, il romeno, altre lingue minori come il catalano e il provenzale, e molti dialetti. 

Riprendiamo l’esempio di madre e vediamo che le somiglianze con le altre lingue sono evidenti: mère (in francese), mamă (in rumeno), madre (in spagnolo), mãe (in portoghese). Ognuna di queste parlate, inoltre, ha una propria storia, un proprio inizio e una propria evoluzione. Infatti, se un italiano di oggi provasse a leggere la Commedia di Dante, avrebbe certo qualche difficoltà a comprendere alcune parole, però la capirebbe, ovvero gli sembrerebbe di leggere un testo difficile sì, ma in italiano. Questa cosa non accade per un francese o per un inglese, i quali, se provassero a leggere una loro opera del Trecento avrebbero bisogno di un testo a fronte. Questo succede perché le lingue evolvono con tempi diversi. 

E, in fine, riguardo proprio alle scritture, quand’è che si è iniziato ad usare l’italiano e non più il latino per scrivere? Guardate l’immagine qui sotto:

Si tratta del caso più antico che conosciamo di una scrittura che non è più propriamente latina, ma che presenta forti tratti di volgare italiano, tanto da essere considerata da molti studiosi il primo caso noto di scrittura italiana. Siamo intorno alla prima metà del IX secolo d.C. e sul bordo di un affresco religioso di una piccola cripta di Roma un frate deve avere inciso quella scritta: non dicere ille secrita abboce, ovvero “non dire le segreta a voce alta”, per ammonire i confratelli che probabilmente pronunciavano a voce troppo alta delle preghiere. Non sappiamo se quel frate, il cui nome e i cui pensieri sono persi per sempre nella storia, fosse consapevole o meno di aver scritto con una lingua diversa dal latino. Una lingua che di lì a poco sarebbe diventata quella utilizzata da Dante, Petrarca e Boccaccio, e più in là ancora da Manzoni, Leopardi, Sciascia, dai graffitari degli anni ‘80, dagli innamorati che si scambiano messaggi su Whatsapp, dai tifosi di calcio per i loro striscioni della domenica, dalle migliaia di persone che ogni giorno scrivono su internet o su qualche foglio di carta. Una lingua il cui primo attestato è forse proprio quella scritta in cui si chiede di abbassare i toni, di essere più meditativi, di fare meno rumore.

Marco Torboli

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