In Francia, uno degli scrittori più famosi, più letti e più discussi è senza dubbio Emmanuel Carrère, autore di libri che spaziano dallo yoga allo tsunami del 2004, da Philip K. Dick all’attentato al Bataclan, da un pluriomicida a luoghi sperduti della Russia. C’è una sua opera però, forse non conosciuta come le altre, che meriterebbe una più vasta eco, e i cui temi principali sono Gesù, san Paolo, i Vangeli, la morte e la fede. Questo libro è Il regno, una meravigliosa inchiesta sulle origini del Cristianesimo e una sincera analisi del proprio rapporto con quell’entità a cui abbiamo dato nome Dio.
Gli esordi letterari di Carrère non hanno avuto da subito un equilibrio tra il proprio io e l’oggetto trattato; il primo libro di un certo successo, I baffi (1986), è un racconto d’invenzione scritto in terza persona, a cui segue La settimana bianca (1995), altro bel romanzo breve, scritto però anche questo in una modalità narrativa tutto sommato classica. A dire il vero, tra i due romanzi esce nel 1993 Io sono vivo, voi siete morti, un’affascinante biografia sull’autore di fantascienza Philip K. Dick e in cui si intravedono alcuni elementi della futura scrittura carreriana, ovvero l’alternare la propria vita privata con quella del protagonista. Il vero successo arriva nel 2000, quando viene pubblicato L’Avversario, un libro nato da un rapporto epistolario che Carrère ha avuto con un carcerato, Jean-Claude Romand, un uomo che per anni ha finto di avere una vita che non aveva e che, schiacciato da questa menzogna, decide un giorno di uccidere la propria moglie e i propri figli per poi suicidarsi, cosa che però, quella del suicidio, non riesce a realizzare. Il libro attira da subito le attenzioni del pubblico, ovviamente per la storia trattata, ma anche per quello che dicevamo prima, ovvero che nel libro Carrère mette anche sé stesso. Questo, per esempio, ne è l’incipit:
La mattina del sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean-Claude Romand uccideva sua moglie e i suoi figli, io ero a una riunione all'asilo di Gabriel, il mio figlio maggiore, insieme a tutta la famiglia. Gabriel aveva cinque anni, la stessa età di Antoine Romand.
È evidente come la vita dell’autore sia mischiata a quella dell’oggetto del suo racconto. Questa cosa succede anche per i tre libri successivi, ovvero Un romanzo russo (2007), Vite che non sono la mia (2009) e Limonov (2011). Il primo, un tentativo di uscire da una lunga crisi depressiva che la scrittura de L’avversario aveva procurato all’autore; il secondo, un libro sul tema del lutto; il terzo, un affascinante ritratto della controversa figura del poeta, politico e nazionalista russo Limonov, e in cui il bilanciamento tra la vita di Carrère e quella del suo protagonista raggiungono un ottimo equilibrio. Le ultime due opere seguono invece una curva interessante: nel 2020 esce Yoga, e qui il vero protagonista del libro è Carrère stesso e quindi vita dell’autore e vita del protagonista coincidono. Nel 2023, invece, viene pubblicato V13, un racconto sulle udienze relative agli attentati terroristici di Parigi del 13 novembre 2015, udienze alle quali Carrère ha partecipato in modo assiduo. Qui assistiamo ad una ulteriore evoluzione della scrittura dell’autore, il quale, pur parlando di sé, decide di fare un passo indietro, per mettere in rilievo le vittime e i carnefici dei fatti di cui parla. Questa, in breve, è più o meno la produzione letteraria di Emmanuel Carrère, di cui però ho tralasciato un libro, pubblicato nel 2014 e che si chiama Il regno.
Mi pare che ci siano poche cose che riguardino in modo così profondo e determinante la storia di noi esseri umani come la religione e, in particolare per noi occidentali, il Cristianesimo. Le storie raccontate nei Vangeli o negli Atti degli Apostoli, però, sono diventate ormai fatti eterei, la cui storicità si è persa in secoli di riti e di convenzioni. I nomi che figurano in quelle pagine difficilmente vengono ricondotti a persone in carne ed ossa, a donne e uomini con un proprio vissuto e con un proprio tempo e luogo. Il regno è il tentativo di dare consistenza a tutto ciò; nello specifico, è un’inchiesta seducente su un personaggio fondamentale per la diffusione della religione cristiana, ovvero Saulo, che noi tutti conosciamo meglio col nome di san Paolo; e Luca, colui al quale è attribuita la composizione di uno dei quattro Vangeli, i libri fondamentali del Cristianesimo. Per Carrère sembra fondamentale farci capire che quei fatti, la nascita e la diffusione di una religione, sono avvenuti in un determinato tempo, in determinati luoghi e in determinate circostanze. Per fare questo, l’autore studia; per anni la scrivania del suo ufficio sarà occupata da varie edizioni della Bibbia e da opere di storici e teologi che lo accompagneranno durante la stesura del Regno. A Carrère, inoltre, piace attualizzare; ne conosce i pericoli e i possibili anacronismi, e però, spesso, si serve di questo strumento per immergere noi lettori in un possibile contesto. Ecco un esempio in cui prova ad immaginarsi cosa potesse voler dire, per i greci dell’epoca, interessarsi a quella religione ebraica da cui poi sarebbe nato il Cristianesimo:
Che cosa significa «un greco attratto dalla religione degli ebrei»? Innanzitutto, era un fatto frequente. […] In secondo luogo – pur sapendo che bisogna diffidare delle equivalenze troppo facili – vedo l’infatuazione per l’ebraismo, così diffuso nel primo secolo sulle rive del Mediterraneo, un po’ come l’interesse che c’è oggi per il buddhismo: una religione al tempo stesso più umana e più raffinata, con quel sovrappiù di spiritualità che mancava al paganesimo morente.
O ancora, parlando dell’attivismo di san Paolo:
Paolo non scriveva per fare letteratura, ma per mantenere il legame con le chiese che aveva fondato. Dava notizie di sé, rispondeva alle domande che gli venivano fatte. Quando ha scritto la prima, forse non immaginava che le sue lettere sarebbero presto diventate delle circolari, dei bollettini di collegamento sul tipo di quelli che prima del 1917 Lenin inviava da Parigi, Ginevra e Zurigo alle diverse frazioni della Seconda Internazionale. I Vangeli non esistevano ancora: i primi cristiani non avevano un libro sacro, e le lettere di Paolo ne hanno fatto le veci.
Carrère inoltre ci mostra il suo lavoro, ci fa interagire con il suo metodo, con i suoi dubbi e con le sue fonti. La sua indagine su san Paolo e Luca è anche il racconto di quella stessa indagine, e noi lo seguiamo. Anche perché Carrère non si pone da esperto nei confronti della materia che tratta, non è una calata dall’alto, ma una condivisione appassionata di un argomento che lo ha attratto e ossessionato. Seguendolo durante i suoi giorni, veniamo a conoscere i libri che ha letto per informarsi, le interpretazioni che lo hanno affascinato e quelle che invece non lo hanno convinto, le volte in cui un passo del Vangelo lo ha attirato più di un altro e quali sono stati i dubbi e le difficolta che più lo hanno tormentato:
Adesso faccio una fatica bestiale per far entrare in questa imponente cornice le migliaia di appunti scarabocchiati a matita secondo i giorni, le letture, l’umore. Qualche volta mi viene il sospetto che questi appunti, allo stato grezzo, lasciati vagare liberamente nei taccuini o sparpagliati nei file, siano una lettura molto più vivace e piacevole di quanto non sarebbero una volta ordinati […], ma è più forte di me: ciò che mi piace, mi dà sicurezza e l’illusione di non sprecare il mio tempo su questa terra è sputare sangue per fondere quello che mi passa per la testa in un’unica materia omogenea […].
Ma trattandosi di Carrère, l’opera non può avere un solo focus, non può esserci un solo tema. Ecco quindi che l’inchiesta sulle origini del Cristianesimo è preceduta e poi conclusa dalla vita dell’autore stesso. Il libro, infatti, si apre con un capitolo interamente dedicato a lui, Carrère, presenza fissa, soggetto e oggetto. In queste pagine veniamo a sapere che, dal 1990 al 1993, lo scrittore francese ha attraversato, lui ateo e intellettuale scettico, una vera e propria fase religiosa, durante la quale ogni mattina pregava, e poi leggeva e commentava il Vangelo di Giovanni. Così l’autore parla di quegli anni:
[…] mi alzo di buonumore, accompagno Gabriel a scuola, vado un’ora in piscina a nuotare e poi, dopo aver fatto a piedi i miei sette piani, mi trovo nel mio studio tranquillo dove […] mi frego le mani pensando con piacere al lavoro che mi aspetta. La prima ora la dedico a san Giovanni. Un versetto alla volta, badando bene a non trasformare il mio commento in un diario intimo inquinato da introspezioni psicologiche e dal desiderio di conservarne traccia. […] Poi viene la preghiera. Mi sono chiesto spesso se fosse meglio pregare prima o dopo la lettura del Vangelo – come qualche anno più tardi mi sarei chiesto se sia meglio dedicarsi alla meditazione prima o dopo le posizioni yoga.
E in questo susseguirsi di autobiografia e racconto, il lettore è interessato a quei giorni offuscati dalla storia e dal mito, in cui uomini e donne stavano dando vita a una credenza religiosa che resiste fino ad oggi; ma allo stesso tempo è interessato anche alla vita dello scrittore Carrère, nostro contemporaneo, al suo rapporto tormentato con la fede e al suo lavoro di inchiesta. Abbiamo compreso, dunque, che Il regno è un’opera complessa, un’opera che richiede pazienza da parte del lettore; a differenza di altri suoi libri, infatti, l’alternanza di autobiografia e di altri temi avviene in maniera sbilanciata. La prima parte è interamente autobiografica; Carrère ci prepara il terreno, noi dobbiamo pazientare serenamente, e solo dopo un centinaio di pagine possiamo iniziare il viaggio alle origini del Cristianesimo in cui lo scrittore ci farà da guida e da interprete, per poi tornare, trecento pagine dopo, alla vita dell’autore, alla sua esperienza biografica essenziale per chiudere il ciclo del racconto. Ma anche questo è Carrère, questi i suoi sentieri, questo il suo regno. Forse non è una delle sue opere più riuscite, ma è quella che sceglierei senz’altro, tra tutte quelle, da portare su un’isola deserta, per continuare quel viaggio che Carrère ha preparato per noi.
Marco Torboli
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