8 luglio 2024

“L’altro medioevo”: paganesimo e dualità dell’essere nella fiaba contemporanea Cavaliere senza ritorno di Ana María Matute

Ana María Matute

Cavaliere senza ritorno (La torre vigía) è un romanzo scritto nel 1971 dalla scrittrice spagnola Ana María Matute, considerato dalla critica uno dei romanzi più emblematici del genere fiabesco nel quale l’autrice ci propone una reinterpretazione delle storie di cavalleria. Come vedremo, in questo articolo si vuole dimostrare l’esistenza di un medioevo apparente, diverso da quello delle fiabe per bambini; una fiaba pagana intrisa di atmosfere sinistre.

La trama si svolge in un “altro medioevo”, senza una precisa data o indicazione geografica, ad eccezione del castello del Barone Mohl, figura di prestigio per i giovani che vogliono intraprendere la via cavalleresca. I protagonisti della storia, oltre al Barone, sono un apprendista cavaliere e un giovane vagabondo-vedetta. Come ogni racconto medievale che si rispetti, all’inizio troviamo la descrizione di elementi naturali, in questo caso il vento: spesso è considerato come “il primo elemento, per la sua assimilazione all’alito o soffio creatore”, ma il nostro giovane protagonista, ancora bambino, ce ne da una percezione diversa:

L’aria ancora tiepida, si gelò sulla mia fronte. Allora vidi il vento. Diverso dai venti che conoscevo (e sono molti quelli che soffiano sulle nostre pianure). Non muoveva l’erba, né le foglie, né i capelli o gli abiti della gente.

Il discorso del protagonista fa riferimento all’episodio di una vecchia signora  arsa viva perché considerata una strega: nella “fiaba rivisitata” di Matute la presenza del vento non simboleggia l’elemento atmosferico, bensì l’anima di un corpo ormai disintegrato dalle fiamme. Per questo è possibile interpretare il vento non come un “soffio creatore” ma piuttosto come un “soffio di morte”.

La torre vigía

Una volta adolescente, il giovane vive errante e solitario in luoghi desolati, cacciando e dormendo dove capita, fino al momento in cui suo padre, in punto di morte, lo manda a vivere presso il castello del Barone al fine di essere investito cavaliere e godere di questo privilegio. Nella dimora del nobile è presente un ambiente comune medievale come la Sala del Banchetto utilizzata per lo svolgimento di feste ed incontri (emblema della società feudale) ma, in antitesi, è possibile individuare alcuni riferimenti al paganesimo reinterpretato con presenze sinistre che entrano a far parte del destino del giovane. Dopo vari mesi al castello, il ragazzo inizia a notare nel Barone particolari inumani:

A onor del vero, quando lo servivo a tavola – uniche occasioni, quelle, in cui lo vedessi da vicino -, più di una volta avevo potuto notare la strana nerezza che copriva i suoi occhi, tanto da dare l’impressione che mai la luce potesse, non solo entrarvi, ma nemmeno sfiorarli.

Questa osservazione presenta l’altra faccia del medioevo fiabesco e viene poi confermata da un discorso che il ragazzo sente fare ai suoi compagni a proposito del Barone, quando uno di loro dice: “Va in cerca di carne fresca...non senti l’odore del vento?”. Anche in questo caso l’autrice riconferma la presenza del “vento di morte”, il quale ha perfino un odore. Con ciò si può presumere che l’autrice abbia voluto rendere visibile quello che spesso una fiaba tradizionale nasconde come la duplicità dell’animo umano: un personaggio nobile dalla natura di orco. Un’altra conferma dell’esistenza di un medioevo parallelo la troviamo nel capitolo Gli dei perduti:

Allora udii una risata sommessa, quasi un mormorio, e alzandomi riuscii a distinguere, seduti sul pavimento, due ragazzi molto giovani e una bambina bionda quasi quanto me. Mai avevo visto, né fuori, né nel castello stesso, né altrove, esseri così belli né così stranamente per quanto lussuosamente adorni: con nastri e fiori su tutto il corpo. A dire il vero, erano nudi di ogni altra cosa, e ciò spiegava l’enorme fuoco che li ardeva.

La presenza insolita di dei in una fiaba conferma nuovamente l’intrusione del paganesimo mitologico, elemento che permette all’autrice di inserire la sua contemporaneità in un tempo passato. L’archetipo dell’orco in riferimento alla figura del Barone è associabile a quella del dio Saturno, figura che “simboleggia il tempo, la fame divoratrice della vita che consuma tutte le sue creature”. L’origine dell’orco, che appare spesso nelle fiabe e nelle leggende, risale a questa figura pagana  che “divorava i suoi figli a mano a mano che Cibele li partoriva” e ciò potrebbe giustificare la presenza di bambini-dei bellissimi vestiti di soli nastri e fiori, al fine di richiamare la caratteristica saturniana del padrone del castello. A questo punto è possibile ipotizzare l’intenzione dell’autrice: sottolineare la dualità umana in continua lotta tra il raziocinio e l’istinto più selvaggio dell’essere umano iniziando dal personaggio del Barone-Orco, padrone del castello ma allo stesso tempo “dio del regno sotterraneo”.

Anche in questa fiaba contemporanea Matute non poteva tralasciare un tema caro al genere fiabesco come quello del cavaliere errante al quale, però, dà un altro significato. Di norma “andare o errare indica una situazione intermedia fra quella del cavaliere salvatore e quella del bandito” e ciò potrebbe essere un ennesimo richiamo al dualismo psichico dell’uomo che lo porta a vagare in un continuo errare, senza un punto di riferimento; la nostra anima è sia bianca che nera allo stesso tempo. Ed è in questo episodio che entra in scena il personaggio del vagabondo-vedetta, un giovane ragazzo simile al protagonista come aspetto fisico ma non di nobili origini e per questo rilegato a vivere in una torre con il solo scopo di vigilare l’arrivo di nemici in realtà “inesistenti”. Ma è proprio grazie a lui che, dalla parte alta della torre, riesce ad avere delle visioni su fantomatiche battaglie, sospese, senza capire se succedono veramente o se sono frutto della loro fantasia:

Dalle alture, dai boschi, vennero fuori i cavalieri bianchi e i cavalieri neri. E dalle mura del castello di Mohl andarono loro incontro cavalieri bianchi e neri. Allora vidi il Signore dei Nemici; così arrogante, e gagliardo e valoroso, che nel mio animo si levò un ultimo grido di violenza. […] Ma la spada nera si alzò dalle mie mani, e troncò, per sempre, l’orgoglio, la crudeltà, il valore e la gloria. «Male è morto» mi dissi.

Parlando di dualità dell’essere non poteva mancare il simbolismo del colore bianco-nero (positivo-negativo): “Da qualche parte continuava il furioso scalpitio di animali bianchi e neri, che si aggredivano ancora, dopo la morte degli uomini”. Questa citazione ci porta a concludere il nostro viaggio in un mondo altro sospeso tra fiaba e realtà: l’autrice spagnola nei suoi racconti allude molto spesso alla Guerra Civile da lei vissuta durante l’infanzia, dove la crudezza di quegli anni riaffiora davanti a sé. Anche in un tempo sospeso continua la lotta tra uomini, una lotta che è divenuta parte integrante dell’uomo stesso. Durante la Guerra Civile gli uomini si aggredivano mescolandosi tra bianchi e neri, dopo la Guerra il conflitto è rimasto dentro ogni uomo, tra le varie anime discordanti che lo compongono.

Anna Maria Longo

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