1 luglio 2024

Leonardo Sciascia e la fotografia

L’animo di chi fa e respira arte è colmo di arcobaleni, sfaccettature, opportunità. Vi è sovente un grande potenziale che spinge affinché possa essere espresso e canalizzato nel miglior modo possibile. La sensibilità di chi ama l’arte e ha deciso di farne un mestiere è spesso così profonda da necessitare di varie forme per trovare concretezza e occupare lo spazio che merita. Sono, quindi, tanti gli artisti che hanno scelto, o meglio, hanno sentito il bisogno di esprimersi attraverso varie forme d’arte. Così come sono molti quelli che hanno studiato e approfondito altre declinazioni artistiche che compongono il grande mosaico della cultura. In tal senso, una delle personalità particolarmente inclini alla conoscenza delle diverse espressioni artistiche è stato Leonardo Sciascia

Nato nel gennaio 1921 a Racalmuto, un paese in provincia di Agrigento, Sciascia è una delle figure cardine nel panorama della letteratura italiana del Novecento. Tra le sue opere più celebri è possibile annoverare Il giorno della civetta (1961), Il Consiglio d’Egitto (1963), A ciascuno il suo (1966), Todo modo (1974). Ma, oltre ad essere uno scrittore di fama internazionale, Sciascia è ricordato anche per la sua passione per la pittura, il cinema e la fotografia.

In particolare, quest’ultima ha avuto un’importanza non secondaria nella sua vita di uomo di cultura. La prima foto che colpisce lo sguardo del letterato siciliano è quella del politico antifascista Giacomo Matteotti, ucciso nel 1924. I suoi fotografi di riferimento sono Robert Capa, sul cui volume Images of war del 1964 scrive un articolo sulle pagine del quotidiano «L’Ora», e Henri Cartier-Bresson, su cui redige una pagina di presentazione della mostra L’uomo e la macchina. Fotografie di Henri Cartier-Bresson.

A partire dalla metà degli anni Sessanta Sciascia scrive prefazioni, note e saggi introduttivi alle opere di Giuseppe Leone, Melo Minnella, Lisetta Carmi, Mario Pecoraino, Enzo Sellerio e Ferdinando Scianna. Con quest’ultimo, nato a Bagheria nel 1943, si instaura un profondo sodalizio umano e artistico. Infatti, nel 1965 pubblicano il volume Feste religiose in Sicilia, nel 1977 collaborano per La villa dei mostri e per la prima raccolta antologica del fotografo Les Siciliens. Nel 1989, poco dopo la morte di Sciascia, viene pubblicato Leonardo Sciascia fotografato da Ferdinando Scianna

La riflessione di Sciascia sulla fotografia è lunga e complessa e possiamo ritrovarne delle tracce all’interno di diversi scritti. Per esempio, in Presentazione a 16 fotografie siciliane dell’archivio di Enzo Sellerio del 1969 Sciascia scrive:

E in questo senso la fotografia è la forma per eccellenza: colta in un attimo del suo fluido significare, del suo non consistere, la vita improvvisamente e per sempre si ferma, si raggela, assume consistenza identità significato. È una forma che dice il passato, conferisce significato al presente, predice l’avvenire: identifica cioè di fronte alla storia, di fronte a Dio, di fronte al destino. È la morte, in definitiva: e lo scatto dell’obiettivo è come lo scatto di un’arma micidiale. Queste sedici fotografie sono dunque “forme” di una vita quasi inafferrabile in consistenza e in significato: difficile, contraddittoria, refrattaria a se stessa, in un certo senso. E raccontano e significano la Sicilia con una verità e una fantasia (perché non c’è verità senza fantasia) che s’inseriscono nella migliore tradizione letteraria e figurativa dell’isola.

Nel saggio del 1982 Verismo e fotografia, l’autore siciliano afferma: «che cosa è la fotografia se non verità momentanea, verità di un momento che contraddice altre verità di altri momenti?». L’anno successivo, invece, nel saggio Fotografo nato, prefazione al volume I grandi fotografi Ferdinando Scianna, Sciascia pone la sua attenzione sull’individuazione delle caratteristiche del “fotografo nato”, ovvero colui che è in grado di trasmettere alla realtà i suoi segnali, ma anche di riceverne obbedienza e soprattutto di estrarre dal personaggio la creatura.

La fase più matura della ricerca sull’estetica e sull’ontologia fotografica si concretizza nel testo Il ritratto fotografico come entelechia. Qui Sciascia riprende il concetto di entelechia, termine usato da Aristotele nel senso di “essere compiuto”, per designare il momento in cui la realtà raggiunge il massimo grado del suo sviluppo. In relazione alla fotografia, questo concetto è legato alla lettura dell’opera Chambre claire di Roland Barthes. Ecco le parole dell’autore siciliano:

La prima idea del ritratto fotografico come entelechia mi è balenata […] appena cominciato a leggere quella «nota sulla fotografia» di Barthes che impropriamente, mi pare, s’intitola La camera chiara: impropriamente, mi pare, perché alla fine ci si conferma nell’idea che anche per Barthes tante oscurità si addensano in quella camera […].
La parola «entelechia» in quel momento non mi affiorò; e nemmeno quando Barthes […] spiega il suo sentire e il suo pensare nei riguardi del ritratto fotografico. È un breve racconto della ricerca di un ritratto della madre, morta da poco, in cui si raccolga il più compiutamente possibile – nella compiutezza che solo la morte conferisce a una vita – il senso, il significato, la «singolarità» (come di ogni vita) della sua vita. Una fotografia che fosse il centro, il luogo geometrico di un’esistenza; che dicesse, insomma, «la storia di un’anima». […]
E tuttavia – ripeto – nemmeno allora, leggendo questa pagina di Barthes che nella mente mi lasciò quella baluginante inquietudine di quando si cerca una soluzione che si allontana al tempo stesso sembra vicina, la parola mi si rivelò. Mi assalì improvvisamente l’estate scorsa, mentre mi mostravano le fotografie che Pedriali fece a Pasolini. «Entelechia». E subito dopo pensai: «un uomo che muore tragicamente è, in ogni punto della sua vita, un uomo che morirà tragicamente».

In queste parole si ritrova la visione sciasciana della fotografia, che riesce, dunque, a dare compiutezza alla realtà rappresentata. L’obiettivo coglie un frammento di vita, che è limitato nello spazio e nel tempo, e gli conferisce valore, concretezza e, per l’appunto, compiutezza anche e soprattutto negli occhi di chi guarda.

Sciascia, quindi, non è solo un appassionato di fotografia ma un uomo che, grazie alla sua spiccata sensibilità artistica e agli strumenti culturali da lui posseduti, riesce a dar vita ad un’indagine ragionata sul medium fotografico e sulle sue opportunità. Riflette sul processo genealogico e sulla lettura delle foto, con lo sguardo attento di chi ha conosciuto l’arte fotografica in un tempo in cui ogni singolo scatto aveva un peso specifico ben diverso da quello odierno. 

Il rapporto fra Sciascia e la fotografia risulta ben sintetizzato dalle parole dello scrittore a critico letterario Ernesto Ferrero che, in un interessante articolo su «Tutto Libri» intitolato L’occhio di Sciascia, scrive: 

Lo intrigano in particolar modo i ritratti, in cui il destino di ognuno è come colto da un'intuizione che può essere solo quella dell'arte, anche se la fotografia non deve rivaleggiare con la pittura, e la pittura non deve avere un freddo iperrealismo documentario. La fotografia riesce a cogliere ancora meglio della pittura l'eterno conflitto tra verità e menzogna che sta cifrato nella realtà, così contraddittoria e inafferrabile, specie in Sicilia. Del ritratto fotografico interessava a Sciascia non la verosimiglianza, ma la capacità di restituire il senso di una vita. 

Francesca Bella

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