I lettori più attenti si saranno accorti ormai da tempo quale sia il tono che accompagna i miei articoli che riguardano l’arte contemporanea. In genere al tentativo di proporre un’analisi delle opere, aggiungo inevitabilmente una sferzata che prende di mira il messaggio fin troppo effimero dell’artista di turno. In questa personale valutazione ammetto di temere l’ebrezza d’essere il solo a pensarla così. E invece, scopro con mio grande piacere quanto possa essere ben più articolata e autorevole la descrizione di un critico d’arte come Andrea Barretta.
Chi giustifica, e perché, l’estetica lasciata al vento che soffia arte come contrario della bellezza? E se la contemporaneità sembra dirci che tutto può diventare arte, com’è possibile che niente effettivamente lo sia? Dunque, la ricognizione andrebbe fatta su cosa l’arte ha da dire e sul perché non lo fa più.
...tra opere protagoniste di questi movimenti, troviamo i cosiddetti “nipoti”, quelli che già Pablo Picasso biasimava, affermando di non conoscere “nessuno che dipinge nella propria maniera” perché “tutti dipingono alla maniera di…”
In questa citazione c’è contenuta una critica alle nuove generazioni di artisti che fanno di tutto pur di “piazzarsi” sul mercato (perché l’arte come detto, è mercato) con l’effetto curioso che gli artisti del Novecento sono sempre i più quotati, mentre quelli contemporanei, nonostante vengano propinati come “affari” da non perdere, al termine di un’enfasi di facciata si manifestano come fenomeni effimeri.
E dunque si giunge al vero tema che è quello di un’arte che non comunica più alla gente, salvo tra gli addetti ai lavori. Un’arte che per dirla con le parole dello scultore Pietro Marchese diventa “talmente autoreferenziale” da dover spiegare alla persona comune cosa oggi si intende per arte e cosa no:
Allora, caro lettore, sei a casa e stai leggendo... elimina lo sperimentalismo vacuo perché l’arte è una cosa seria e non deve disumanizzare… cancella virtuosità di linguaggio e articolazioni stilistiche… torna alla tua emozione, non lasciare che ti dicano cos’è l’arte, e a cosa serve, perché lo sai già: è quella che mostra l’epifania dell’irrazionale. È quella che desidera una mente dove non siano estranee la bellezza né l’osmosi tra intenzione e realizzazione, tra quello che sentiamo e quello che vediamo nel detrarre la tracciabilità dell’opera. Ecco, quello che resta è la sostanza, ed è questa differenza a essere davvero arte. È questo distinguo che fa un artista “grande” o una delle tante stelle cadenti. È questo discernere che dà l’esempio di perfezione che si manifesta nel brivido che si prova davanti al capolavoro, alla vera opera d’arte che è, diceva Friedrich Hegel, “essenzialmente una domanda, un’apostrofe, rivolta a un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all’animo e allo spirito”.
Queste parole apportano maggior valore non solo per la franchezza con cui sono espresse, ma soprattutto perché evidenziano la libertà di un critico che diversamente da altri non gioca con le figure retoriche per avvalorare il sospetto che il “sistema arte” lo abbia irretito. Questo perché appare ormai evidente il fatto che sia proprio il ruolo dei critici a giustificare e alimentare questo approccio compiacente che si autolegittima. E dunque l’invito che faccio a chiunque sia giunto fin qui è quello di leggere per intero (e con attenzione) l’articolo che vi segnalo.
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