3 agosto 2024

I documentari di Cecilia Mangini

La Storia di una nazione è al contempo trascendente ed immanente alla storia del singolo. La quotidianità di ogni persona, con i suoi problemi, le sue relazioni sociali, le sue difficoltà economiche, non può, naturalmente, trovare spazio all’interno dei libri di storia, ma ciò non significa che non meriti di essere raccontata. Può, ad esempio, farsene carico il cinema, che nella forma del documentario, può dare visibilità alle storie del singolo, che sono anche le storie di tanti per capire l’andamento socio-politico-culturale della storia di tutti. La visione dei documentari rappresenta, quindi, una grande opportunità per calarsi nella società del passato, ma anche del presente, per individuarne le criticità e i punti di forza. In tal senso, la prima donna documentarista in Italia, i cui lavori meritano una grande attenzione, è stata Cecilia Mangini.

Cecilia Mangini nasce a Mola di Bari nel 1927, sin da ragazza si appassiona al mondo della fotografia e pubblica i suoi scatti su riviste come «Il Punto», «Cinema Nuovo» e «L’Eco del cinema». Poi, a 25 anni, si trasferisce a Roma con l’obiettivo di diventare regista. A proposito della difficoltà di intraprendere la carriera cinematografica in quanto donna, Mangini, in un’intervista del 2008, racconta:

Quando volevo fare cinema, sapevo di una scuola a Roma molto prestigiosa, una bella mattina, all’epoca vivevo a Firenze, ho preso il tram e sono arrivata fin là. Sono poi andata all’ufficio informazione e ho detto: «Ditemi tutto quello che serve, qui da voi, per diventare regista». Mi hanno guardata sbalorditi e hanno risposto: «No, impossibile. Le donne non possono fare regia». A quel punto gli chiesi che cosa potessero allora fare le donne e mi risposero: «Ah, tante cose. Le sarte, le costumiste, le truccatrici, l’aiuto truccatrici, il taglio del negativo, ecco cosa possono fare le donne». Sono rimasta allucinata, perché solamente gli uomini potevano fare regia! Così decisi che avrei fatto comunque regia e avrei cercato di fare di tutto pur di farla, però era una specie di sogno. Fino a quando un bel giorno mi hanno chiamata e mi hanno proposto di fare un documentario ed io sono quasi svenuta dalla gioia. 

L’esordio dietro la macchina da presa è del 1958 con Ignoti alla città, ispirato al romanzo Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini che racconta il contesto sociale in cui vivono i  ragazzi di borgata romani. Nel 1960 realizza Stendalì (suonano ancora) in cui si rappresenta il rito funebre nel quale delle donne lamentatrici del comune pugliese di Martano eseguono il pianto in lingua grika in occasione della morte di un ragazzo di 16 anni. Le scene a cui assistiamo in questo breve documentario sono molto lontane dalla nostra realtà contemporanea e mostrano un modo diverso di vivere l’evento inevitabile della morte. Vi è qui, inoltre, un commento scritto da Pasolini e recitato da Lilla Brignone. La pellicola si apre con la seguente descrizione:

Qualcuno è morto. Lo annuncia il suono delle campane: le vicine di casa vengono a consolare le madri, le spose o le sorelle e a piangere con loro. È la visita funebre. Poi saranno i soli uomini a accompagnare il morto nel cimitero. Intanto le donne, nella casa, continuano il pianto. Il pianto, così regolato e rituale, è una sopravvivenza arcaica in una società che infatti è per molti versi arcaica. La società delle aree depresse, cioè di quasi tutta l’Italia meridionale. In una simile società oberata da condizioni economiche a volte disumane, la morte sarebbe intollerabile, priva di senso, se il suo dolore disgregatore non fosse contenuto dal rozzo istituto del “pianto”, per cui le informi manifestazioni della disperazione vengono, per così dire, stilizzate. Alcuni canti funebri – questi, per esempio, dei comuni pugliesi di lingua greca – sono tra le più alte forme della poesia popolare.

In Essere donne del 1965, commissionato dal Partito Comunista per la campagna elettorale, Mangini descrive la pesante situazione lavorativa delle donne che lavorano in fabbrica. La giornata lavorativa inizia molto presto e dura molte ore, con ritmi serrati, attività monotone che non danno alcuna prospettiva e paghe molto basse che non consentono loro di avere una vera e propria indipendenza economica. Si racconta di operaie che in catena di montaggio devono fare 1000 saldature all’ora, di bambine di 11 anni con la seconda elementare perché devono badare ai più piccoli e di donne che, con estrema difficoltà, devono conciliare vita familiare e lavorativa.

Nel 1966 Mangini si occupa di realizzare un documentario, intitolato Sardegna, per la rubrica Italia allo specchio, prodotta dall’Istituto Nazionale Luce. Questo lavoro «è commissionato dal Ministero dei Lavori Pubblici, per promuovere la costruzione della variante alla strada statale Carlo Felice all’altezza di Sassari, e rappresenta per la regista un’importante occasione per esplorare una realtà geografica che trova nel processo della contaminazione uno dei propri caratteri fondativi». Qui, dopo alcune informazioni generali sulla regione, ci si trova dinnanzi a immagini della natura, dei porti, con i canti sardi in sottofondo. Si affronta la questione delle infrastrutture e delle poche scuole, con la conseguenza che molti bambini si trovano costretti a frequentare le lezioni anche il pomeriggio e la notte.

Intorno agli anni Ottanta si registra uno stop alla sua carriera di documentarista, ripresa poi circa due decenni dopo. Dopo tanti documentari realizzati e molti premi ricevuti, Cecilia Mangini si spegne a Roma nel 2021, all’età di 93 anni, lasciandoci dei lavori che ben descrivono le necessità e le varie problematiche dell’Italia del passato, con sguardo attento e profondamente calato nella concretezza del reale.

Francesca Bella

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