Comprendere l’importanza di un’opera d’arte non è facile, e in particolar modo per i capolavori realizzati nel passato, perché necessitano di una consacrazione continua: il pubblico è obbligato a interpretarla attraverso i suoi sistemi di riferimento morali ed estetici, che non sono gli stessi secondo cui un capolavoro è stato creato.
Insomma, quest’epoca sembra apprezzare in maniera particolare le opere versatili, che da film possono trasformarsi in musiche, scene teatrali, e via dicendo. Tale elasticità però non è necessariamente un valore e anzi, può essere un disvalore, perché non considera l’opera come capolavoro di una specifica arte. Esistono cioè dei capolavori assoluti della letteratura o della musica, che non potrebbero avere lo stesso valore se venissero trasposti, ad esempio, in un film o in un’opera teatrale. La trasposizione teatrale delle Finzioni di Borges sarebbe fallimentare: come si possono rendere i racconti metaletterari di questi racconti attraverso un’immagine o un suono? Nati con la letteratura, muoiono con essa. Un altro esempio potrebbe essere il Tonio Kröger di Mann: se si provasse a farne una trasposizione cinematografica, il protagonista dovrebbe stare in silenzio per quasi tutto il film. Le riflessioni del personaggio sono infatti legate in maniera indissolubile allo scritto: mancano, nella novella, delle azioni esteriori che sono tipiche di un film. Risulterebbe impossibile rendere il rimuginare di Tonio Kröger, perché sono pensieri, sono tutto meno che immagine: ogni cosa si svolge attraverso le parole. D’altro canto, lo stesso Mann ha fallito tentando di descrivere la musica dodecafonica con il Doctor Faustus, sebbene si sia avvicinato molto alla sua essenza, perché della musica mancava la sostanza principale, il suono.
Thomas Mann |
Soltanto pochi autori sono riusciti a rendere irriproducibile, e di conseguenza anticapitalista, un’opera d’arte, e soltanto in situazioni storiche favorevoli: a parte il periodo alessandrino e quello rinascimentale, in cui lo studio del passato ha portato a delle riflessioni metaartistiche, solo il Novecento, e il suo più o meno inconsapevole nichilismo, ha saputo creare delle opere irriproducibili, in cui attraverso l’intransigenza della forma (musicale, letteraria, teatrale, ecc.) si cercava la perfezione. È ovvio che così l’opera d’arte è limitata: la musica dodecafonica di Schönberg non realizza nuovi contenuti verso qualcosa, ma è musica introversa, che descrive le sue stesse fragilità, come ha ben spiegato Adorno nella sua Filosofia della musica moderna: la spaccatura definitiva con il sistema tonale, l’insieme di regole che ha costituito il modello di composizione della musica occidentale fino all’inizio del Novecento, non porta a maggiori libertà ma anzi, a una prigionia peggiore, data appunto dalle tecniche molto rigide di composizione della dodecafonia, e questo si sente bene all’ascolto: sembra quasi di sentire una musica ferma, bloccata.
Sono tutti tentativi di spezzare l’illusione del pubblico, che non deve immedesimarsi nella storia che avviene nel palcoscenico, ma deve vivere i meccanismi del teatro, la sua estraneità dal semplice testo scritto. Non a caso C.B. rifà l’Amleto di Shakespeare inserendovi anche Gozzano, Laforgue e altri autori, rivelando allo spettatore la storia dell’antieroe Amleto, che parte appunto dal drammaturgo inglese e che ha contagiato altri autori: tutto questo ritorna nel teatro, offrendo un condensato della storia del pensiero e dell’arte occidentale che non poteva essere attuato se non in un palcoscenico.
Questo excursus non vuol dimostrare che gli unici capolavori sono quelli irriproducibili al di fuori del proprio genere artistico, ma che quelli che invece lo sono presentano dei difetti nella forma. Se Le memorie di Barry Lyndon di Thackeray non fosse stato ricco di immagini perfette, e il centro del racconto non il racconto stesso nella sue peculiarità ma la trama, Kubrick non sarebbe mai riuscito a trarne fuori un capolavoro cinematografico. Si potrebbe dire che quello che manca in queste opere “difettose”, che comunque non possono non essere definite dei capolavori, è lo sfruttamento pieno della forma propria del genere.
Questa consapevolezza della forma tipica del Novecento, il nuovo secolo l’ha dimenticato: le opere d’arte, perlomeno quelle che come tali vengono immesse nel mercato, mirano a essere rappresentate al di fuori del proprio genere, e ciò è dovuto proprio allo stesso mercato, che punta per natura alla riproducibilità. Ciò mette in dubbio anche la qualità di ciò che viene proposto al pubblico: se nell’arte vale lo stesso principio capitalistico che ciò che è riproducibile diventa a un certo punto inutile, quanto è capolavoro e quanto un vizioso pasticcio? Che la lezione novecentesca dell’irriproducibile sia l’unico mezzo che abbiamo oggi per riconoscere la vera arte?
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